lunedì 6 febbraio 2012

La belva nell'ombra

Solitamente quando l’idea di un film nasce da un romanzo, quello che ne viene fuori è una boiata. Oserei affermare che si tratta di una regola assoluta, con pochissime accezioni (una di queste è Shining, dove il talento di Stanley Kubrick e il brutto muso di Jack Nicholson hanno di fatto reso immortale un romanzo che altrimenti sarebbe rimasto catalogato tra le opere minori di Stephen King). Ma non è di questo che parlerò oggi. L’argomento del giorno appartiene a tutt’altra epoca e luogo. Si tratta de “La belva nell’ombra” (陰獣, Injū), romanzo datato 1928, partorito dall’inesauribile fantasia del più grande giallista giapponese di tutti i tempi: Edogawa Ranpo (江戸川 乱歩), al secolo Hirai Tarō (平井 太郎). Da questo libro è stato tratto nel 2008 un film diretto da Barbet Schroeder che, come volevasi dimostrare, si piazza lontano anni luce dalla sua fonte di ispirazione. Dopo aver letto il romanzo, ho voluto comunque dare una piccola possibilità alla pellicola, giusto per rispetto al curriculum del regista che scusate se è poco, fu il primo a portare sul grande schermo le storie autobiografiche di Charles Bukowski (Barfly con Mickey Rourke e Faye Dunaway, nel 1987) e, prima ancora, nientemeno che la musica dei Pink Floyd (colonna sonora del suo More del 1969 e de La Vallée del 1972). Purtoppo, come ho detto, "Inju, la bête dans l'ombre" di Schroeder fallisce proprio negli aspetti più importanti, vale a dire quelli che sono i veri punto di forza dell’originale: la suspense e l’atmosfera.

Ma veniamo al romanzo. Samukawa, protagonista e narratore, è uno scrittore di gialli (un alter ego di Ranpo), che si trova coinvolto in una storia misteriosa e, per chiarire a se stesso la sequenza degli avvenimenti, butta giù una serie di appunti nella previsione di usarli poi per la stesura di un futuro romanzo. E’ una storia dentro la storia, dove l’identità del colpevole appare sempre più sfuggente. Dal punto di vista strutturale il meccanismo compositivo è perfetto e la suspense è mantenuta ad alto livello per tutta la durata della vicenda. Il romanzo è impostato in modo ingegnoso attorno all’assillante ricerca di Oe Shundei, sinistro personaggio che è causa di tutti gli avvenimenti , una presenza fondamentale per l’intreccio. Il mistero della presenza invisibile di Oe Shundei è ad un certo punto svelato, ma viene portato oltre la fine del romanzo, perché con il suo finale Ranpo lascia aperto uno spiraglio e nel lettore rimane un ultimo dubbio.

Edogawa Ranpo è bravissimo ad infarcire il romanzo di una innumerevole quantità di autocitazioni. Non solo attribuisce al suo protagonista titoli di romanzi scritti precedentemente dello stesso Ranpo, ma include anche scenari appartenenti ad altri racconti, così dall’ingolosire il lettore alla conoscenza delle altre sue opere. Nel corso la lettura de “La belva nell’ombra” mi sono trovato di fronte ad una scena che ha fatto accendere un vago ricordo nella mia mente: la protagonista, Oyamada Shizuko, mostra a Samukawa una crepa nel soffitto dove qualche giorno prima le apparvero degli occhi feroci che la fissavano (qualli di Shundei introdottosi nel soffitto per spiarla?), Ci ho messo un po’, ma alla fine ho realizzato che una storia simile l’ho addirittura descritta in questo stesso blog qualche mese fa, nel post dedicato a Watcher in the Attic, un cortometraggio guarda caso inspirato ad un racconto di Edogawa Ranpo. Sulle prime ho creduto che, senza farlo apposta, fossi incappato nello stesso lavoro che ha dato vita a Watcher in the Attic, ma la trama nel suo complesso non mi tornava. Rileggendo il mio stesso post, mi sono poi ricordato di aver identificato la fonte di  Watcher in the Attic in un racconto intitolato “L’uomo che camminava nei solai”. Quindi la scena descritta qui altro non può essere che una citazione che il nostro ha fatto di se stesso. Geniale, no?

Edogawa Ranpo, in Italia rimasto (ahimè) pressoché sconosciuto, fu un grande ammiratore degli scrittori di gialli occidentali, specialmente di Edgar Allan Poe, dal quale deriva il suo stesso nome (Edogawa Ranpo è infatti proprio la trasposizione fonetica del nome di Poe). Lo stile è molto simile a quello dei giallisti dell'epoca. A me per esempio ricorda molto Sir Arthur Conan Doyle, con il quale condivide la genialità e, se me lo permettete, l'ingenuità dei primi anni del secolo scorso (un lettore sgamato può intuire tutto già dalle prime pagine). Ma non è questa la vera forza de "La bestia nell'ombra" che, lo sottolineo nuovamente, è rappresentata dal disagio forzato nel lettore da un atomosfera carica di mistero, una trama seducente e opprimente, un perverso gioco a incastro dentro cui, nella miglior tradizione mystery, si dipana un indagine dai risvolti inquietanti. Personalmente però ho sempre preferito un altro tipo di giallo. Da ragazzo ho passato parecchie estati a divorare i gialli di Agatha Christie, di Ellery Queen e di Gaston Leroux. La grandezza di Agatha Christie, per esempio, stava nel portare il lettore continuamente fuori strada, sparpargliando tra le pagine una moltitudine di falsi indizi (mai però fuori contesto) e sfidandolo letteralmente a giungere alla soluzione prima del detective. Di questo qui nn c'è traccia. Al limite un vago abbozzo. Ad ogni modo rimando il giudizio completo su Edogawa Ranpo ad un altro momento, a quando avrò attinto almeno un altro paio di volte dalla sterminata produzione di Edogawa Ranpo.

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