giovedì 2 febbraio 2012

Violent Virgin

Koji Wakamatsu, (若松孝二,) non è un comune regista. Possiamo tranquillamente definirlo il maestro indiscusso del surrealismo giapponese: I suoi film sono una raccolta, spesso al limite delle comprensibilità, di parole, pensieri e immagini, messe insieme senza freni inibitori o scopi preordinati. Essi ci mostrano ciò che sta oltre il razionale, immagini nitide e reali ma accostate tra di loro senza alcun nesso logico apparente. Siamo di fronte a quella che definirei una “esperienza onirica visualizzata” e di questo, Koji Wakamatsu, che in mezzo secolo e più di carriera ha girato oltre cento film, è un maestro. Esperienza onirica spesso rappresentata da rapidi passaggi tra bianco e nero e colore, come a voler distinguere con questo piccolo artificio il sogno dalla finzione. Ma non aspettiamoci che vi sia una regola assoluta: in questo “Violent Virgin” (処女ゲバゲバ, Gewalt! Gewalt: shojo geba geba) del 1969, l’uso del colore intende inizialmente sottolineare il sogno, ma poi ad un certo punto il nostro si mette ad utilizzare i due sistemi in maniera assolutamente casuale, spiazzando completamente lo spettatore che, non senza fatica, sta già disperatamente cercando di dare un filo logico ad una trama che sembra non averlo. Con un trucco molto simile, il nostro regista ha cercato di distinguere il presente dal passato in quella piccola perla intitolata “Go Go Second Time Virgin, girata lo stesso anno di Violent Virgin e del quale ho già ampiamente parlato proprio qui non molto tempo fa).

Girato interamente in un campo desolato, il film si apre con due auto che stanno percorrendo una strada polverosa. Si tratta di tre uomini e tre donne, tutti membri di una gang. Assieme a loro due giovani, legati e bendati. Non si capisce bene chi siano e non viene spieghato subito. Si intuisce che si tratti si una gang che sta trasportando i due nel luogo dove dovrà avvenire le loro esecuzione. Si scopre solo a posteriori, che la ragazza (Hanako) sarebbe stata l'amante del Boss e che, innamoratasi di una delle ultime ruote del carro della gang (Hoshi) stava progettando una fuga d'amore. Scoperti, si ritrovano legati e bendati sul sedile posteriore di un'auto diretta verso il luogo dove la loro punizione avrà compimento.  Quello che segue è la descrizione di un vecchio rituale Yakuza che, per rendere sadicamente più difficile il trapasso del condannato, lo promuove "boss per un giorno". Koji Wakamatsu ha l'aria di saperla lunga: non per niente nel curriculum del nostro regista c'è una condanna per affilizione ad una banda Yakuza, scontata all'età di vent'anni. Ad ogni modo, tra uno sberleffo e l'altro Hoshi viene "invitato" a fare sesso con tutte le donne della gang presenti. Ad Hanako invece non va così bene: viene denudata, bendata e legata ad una croce.

Da qui in avanti la trama via via si fa sempre più delirante ma, come ho già detto, non è la logica la chiave per entrare nel mondo di Koji Wakamatsu. Il film si trasforma, esce dai binari canonici e invita lo spettatore a concentrarsi sui messaggi. Il più evidente di tutti è il simbolismo religioso: la croce stessa, naturalmente, ma anche il comportanento di  Hoshi che, alla prima occasione, tradisce la compagna appesa alla croce, dandosi alla fuga (Hoshi come Giuda, quindi). L'immagine potente (rappresentata a colori) del sangue di Hanako, con Hoshi che ritornato pentito sui suoi passi, raccoglie e beve. L'immagine del lago e del sotterraneo, presenti solo nei pensieri dei due giovani, a simboleggiare la discesa all'inferno e la speranza della sliata in paradiso. Hoshi. Dove sei?  Indovina dove sono. Sei andato al lago! Riesco a vederti. Stai nuotando. No, non è così, Hanako. Al momento mi trovo nello scantinato. Non è vero. Sì, è vero. Cadono delle goccioline di sangue. Non riesco a vedere più nulla. Non riesco più a sentire il vento. Sento solo un cattivo odore. Riesci a sentire quello che sto dicendo? Sì, ma parla più forte! Non posso. Perché sto morendo. Non puoi morire. Penserò io a te. Hoshi, se sei qui intorno, vieni! Presto! Salvami. Vorrei, ma non posso. Adesso, io non sono più un essere umano. Perché? Sono morto. E poi c'è la coda che, ad un certo punto, spunta sul corpo di Hoshi, quasi a simboleggiare la bestialità dell'umana condizione nei confronti della divinità. Sta crescendo! Non sono più un essere umano. Hanako. Hanako. Mi sta crescendo. È la mia punizione per averti lasciato morire. Infine la redenzione di Hoshi, vero climax del film, il quale, come l'Araba fenice, sembra risorgere dalla sue ceneri. Qui la scena più memorabile del film: la resurrezione di Hoshi è ripresa con scatti fotografici in successione. Indimenticabile. Da lassù riesci a vedere ogni cosa, vero? Non c'era niente, proprio come avevi detto tu. Non ho trovato nessun lago. Dovunque, la terra era secca. Nessun pesce, né uccelli né insetti né animali o serpenti. Nulla! Non so il perché. È come se qui, tutto intorno, ci fosse una città avvelenata. Da lassù riesci a vedere ogni cosa, giusto? I sentieri che ho percorso, i posti dove ho pisciato, dove ho cagato. Riuscivi a vederli da lì, vero? Li hai visti. Sapevi tutto fin dall'inizio. Ti stavi prendendo gioco di me... Io cercavo un lago e tu sapevi che non c'era niente. Lo sapevi benissimo. Perché non me l'hai detto, Hanako? Forse non sarà "Violent Virgin" il capolavoro assoluto di Koji Wakamatsu, ma questa scena vale il tempo che si è dedicato alla visione di questo film.  

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