Non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose che potevano essere e non sono state… È strano come, a volte, i ricordi tornino alla mente quando uno meno se li aspetta. Sarà il periodo particolare che sto vivendo, ove tutto (il privato, il lavoro) sembra in equilibrio precario, ma d’improvviso mi sono venuti alle labbra i versi più celebri di questa poesia. Allora ho voluto fare una ricerca per rileggerne il testo, che ricordavo solo in parte. Rileggendola mi sono commosso, non so bene se per la poesia di per sé o per i ricordi che mi ha riportato alla mente, legati ad un periodo meraviglioso e ormai irraggiungibile qual è stata la mia infanzia. C’è un ricordo, in particolare, così strettamente legato a questa poesia da provocarmi sempre stupore. Difatti, non appena mormorata la strofa automaticamente ho ripensato anche a questo episodio, se volete insignificante, che mi è accaduto da ragazzino (non so bene quanti anni avessi, ma probabilmente ero all’ultimo anno delle elementari o in prima media).
Una bambina, figlia di amici dei miei genitori (o forse di vicini di casa, non so), in visita a casa mia mi abbracciò dicendo che ero il suo migliore amico. Mi disse che parlava sempre di me a tutti perché mi voleva bene, bene, bene!! Mi vergogno a dirlo, ma io non sapevo (e tuttora non so) chi fosse, non ricordo neppure il suo nome. Non so dire quando la conobbi né come e perché lei avesse preso a considerarmi non solo un amico, ma addirittura il suo migliore amico, eppure per me questo è un dolce ricordo, oltre che il segno tangibile di come ciascuno di noi lascia una traccia di sé, a volte inconsapevolmente, nell’animo altrui. Dopo tanti anni è possibile, se non probabile, che questa bambina (che credo di non avere mai più incontrato) mi abbia dimenticato, ma la consapevolezza di essere stato per lei un po’ quello che la cocotte è stata per Gozzano, beh, mi provoca sempre un moto di tenerezza.
I.
Ho rivisto il giardino, il giardinetto contiguo, le palme del viale, la cancellata rozza dalla quale mi protese la mano ed il confetto...
II.
"Piccolino, che fai solo soletto?" "Sto giocando al Diluvio Universale." Accennai gli strumenti, le bizzarre cose che modellavo nella sabbia, ed ella si chinò come chi abbia fretta d’un bacio e fretta di ritrarre la bocca, e mi baciò di tra le sbarre come si bacia un uccellino in gabbia. Sempre ch’io viva rivedrò l’incanto di quel suo volto tra le sbarre quadre! La nuca mi serrò con mani ladre; ed io stupivo di vedermi accanto al viso, quella bocca tanto, tanto diversa dalla bocca di mia Madre! "Piccolino, ti piaccio che mi guardi? Sei qui pei bagni? Ed affittate là?" "Sì... vedi la mia mamma e il mio Papà?" Subito mi lasciò, con negli sguardi un vano sogno (ricordai più tardi) un vano sogno di maternità... "Una cocotte!..." "Che vuol dire, mammina?" "Vuol dire una cattiva signorina: non bisogna parlare alla vicina!" Co-co-tte... La strana voce parigina dava alla mia fantasia bambina un senso buffo d’ovo e di gallina... Pensavo deità favoleggiate: i naviganti e l’Isole Felici... Co-co-tte... le fate intese a malefici con cibi e con bevande affatturate... Fate saranno, chi sa quali fate, e in chi sa quali tenebrosi offici!
III.
Un giorno - giorni dopo - mi chiamò tra le sbarre fiorite di verbene: "O piccolino, non mi vuoi più bene!..." "È vero che tu sei una cocotte?" Perdutamente rise... E mi baciò con le pupille di tristezza piene.
IV.
Tra le gioie defunte e i disinganni, dopo vent’anni, oggi si ravviva il tuo sorriso... Dove sei, cattiva Signorina? Sei viva? Come inganni (meglio per te non essere più viva!) la discesa terribile degli anni? Oimè! Da che non giova il tuo belletto e il cosmetico già fa mala prova l’ultimo amante disertò l’alcova... Uno, sol uno: il piccolo folletto che donasti d’un bacio e d’un confetto, dopo vent’anni, oggi ti ritrova in sogno, e t’ama, in sogno, e dice: T’amo! Da quel mattino dell’infanzia pura forse ho amato te sola, o creatura! Forse ho amato te sola! E ti richiamo! Se leggi questi versi di richiamo ritorna a chi t’aspetta, o creatura! Vieni! Che importa se non sei più quella che mi baciò quattrenne? Oggi t’agogno, o vestita di tempo! Oggi ho bisogno del tuo passato! Ti rifarò bella come Carlotta, come Graziella, come tutte le donne del mio sogno! Il mio sogno è nutrito d’abbandono, di rimpianto. Non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose che potevano essere e non sono state... Vedo la casa, ecco le rose del bel giardino di vent’anni or sono! Oltre le sbarre il tuo giardino intatto fra gli eucalipti liguri si spazia... Vieni! T’accoglierà l’anima sazia. Fa ch’io riveda il tuo volto disfatto; ti bacerò; rifiorirà, nell’atto, sulla tua bocca l’ultima tua grazia. Vieni! Sarà come se a me, per mano, tu riportassi me stesso d’allora. Il bimbo parlerà con la Signora. Risorgeremo dal tempo lontano. Vieni! Sarà come se a te, per mano, io riportassi te, giovine ancora.
La morte del cardellino
Chi pur ieri cantava, tutto spocchia, e saltellava, caro a Tita, è morto. Tita singhiozza forte in mezzo all'orto e gli risponde il grillo e la ranocchia. La nonna s'alza e lascia la conocchia per consolare il nipotino smorto: invano! Tita, che non sa conforto, guarda la salma sulle sue ginocchia. Poi, con le mani, nella zolla rossa scava il sepolcro piccolo, tra un nimbo d'asfodeli di menta e lupinella. Ben io vorrei sentire sulla fossa della mia pace il pianto di quel bimbo. Piccolo morto, la tua morte è bella!
Ho rivisto il giardino, il giardinetto contiguo, le palme del viale, la cancellata rozza dalla quale mi protese la mano ed il confetto...
II.
"Piccolino, che fai solo soletto?" "Sto giocando al Diluvio Universale." Accennai gli strumenti, le bizzarre cose che modellavo nella sabbia, ed ella si chinò come chi abbia fretta d’un bacio e fretta di ritrarre la bocca, e mi baciò di tra le sbarre come si bacia un uccellino in gabbia. Sempre ch’io viva rivedrò l’incanto di quel suo volto tra le sbarre quadre! La nuca mi serrò con mani ladre; ed io stupivo di vedermi accanto al viso, quella bocca tanto, tanto diversa dalla bocca di mia Madre! "Piccolino, ti piaccio che mi guardi? Sei qui pei bagni? Ed affittate là?" "Sì... vedi la mia mamma e il mio Papà?" Subito mi lasciò, con negli sguardi un vano sogno (ricordai più tardi) un vano sogno di maternità... "Una cocotte!..." "Che vuol dire, mammina?" "Vuol dire una cattiva signorina: non bisogna parlare alla vicina!" Co-co-tte... La strana voce parigina dava alla mia fantasia bambina un senso buffo d’ovo e di gallina... Pensavo deità favoleggiate: i naviganti e l’Isole Felici... Co-co-tte... le fate intese a malefici con cibi e con bevande affatturate... Fate saranno, chi sa quali fate, e in chi sa quali tenebrosi offici!
III.
Un giorno - giorni dopo - mi chiamò tra le sbarre fiorite di verbene: "O piccolino, non mi vuoi più bene!..." "È vero che tu sei una cocotte?" Perdutamente rise... E mi baciò con le pupille di tristezza piene.
IV.
Tra le gioie defunte e i disinganni, dopo vent’anni, oggi si ravviva il tuo sorriso... Dove sei, cattiva Signorina? Sei viva? Come inganni (meglio per te non essere più viva!) la discesa terribile degli anni? Oimè! Da che non giova il tuo belletto e il cosmetico già fa mala prova l’ultimo amante disertò l’alcova... Uno, sol uno: il piccolo folletto che donasti d’un bacio e d’un confetto, dopo vent’anni, oggi ti ritrova in sogno, e t’ama, in sogno, e dice: T’amo! Da quel mattino dell’infanzia pura forse ho amato te sola, o creatura! Forse ho amato te sola! E ti richiamo! Se leggi questi versi di richiamo ritorna a chi t’aspetta, o creatura! Vieni! Che importa se non sei più quella che mi baciò quattrenne? Oggi t’agogno, o vestita di tempo! Oggi ho bisogno del tuo passato! Ti rifarò bella come Carlotta, come Graziella, come tutte le donne del mio sogno! Il mio sogno è nutrito d’abbandono, di rimpianto. Non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose che potevano essere e non sono state... Vedo la casa, ecco le rose del bel giardino di vent’anni or sono! Oltre le sbarre il tuo giardino intatto fra gli eucalipti liguri si spazia... Vieni! T’accoglierà l’anima sazia. Fa ch’io riveda il tuo volto disfatto; ti bacerò; rifiorirà, nell’atto, sulla tua bocca l’ultima tua grazia. Vieni! Sarà come se a me, per mano, tu riportassi me stesso d’allora. Il bimbo parlerà con la Signora. Risorgeremo dal tempo lontano. Vieni! Sarà come se a te, per mano, io riportassi te, giovine ancora.
Lo so, gli stessi concetti di questa poesia si trovano espressi in molte altre opere anche più famose, eppure… Eppure Gozzano riesce a descrivere l’infanzia come nessun altro, smuovendo corde che toccano l’anima. Quel bambino che con innocenza conosceva il modo sono io. E anche quell’adulto, ormai smaliziato, che si nutre di ricordi sono io. Naturalmente io sono molto più di questo, e certamente lo era anche l’autore che pure, morto poco più che trentenne, per tutti sarà per sempre solo l’uomo che amava le rose non colte. Trovo questa poesia di un’intensa struggente bellezza… la bellezza ineguagliabile della tristezza e del rimpianto… il che mi rende fiero, per una volta tanto, di appartenere al genere umano. E mi fa venir voglia di regalarvi anche quest’altra perla di Gozzano, nel caso ve la foste dimenticata.
La morte del cardellino
Chi pur ieri cantava, tutto spocchia, e saltellava, caro a Tita, è morto. Tita singhiozza forte in mezzo all'orto e gli risponde il grillo e la ranocchia. La nonna s'alza e lascia la conocchia per consolare il nipotino smorto: invano! Tita, che non sa conforto, guarda la salma sulle sue ginocchia. Poi, con le mani, nella zolla rossa scava il sepolcro piccolo, tra un nimbo d'asfodeli di menta e lupinella. Ben io vorrei sentire sulla fossa della mia pace il pianto di quel bimbo. Piccolo morto, la tua morte è bella!
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