Riprendiamo oggi discorso interrotto la scorsa settimana. C'era un particolare significativo nel finale del racconto preso in esame che non poteva non attirare la nostra attenzione. Il riferimento è a una frase apparentemente molto semplice che sentiamo sussurrare dal Re in Giallo in persona: "È una cosa spaventosa cadere nelle mani del Dio vivente!". Si tratta di una frase dal significato piuttosto criptico, ma che i più attenti avranno forse riconosciuto come una citazione del Nuovo Testamento, rintracciabile, per chi volesse andare a verificare, nella “Lettera agli Ebrei” (versetto 10:31).
L'espressione "Dio vivente" o "Iddio vivente", per quanto possa sembrare bizzarra, ricorre spesso nella Bibbia e ha un significato che ben si desume dal contesto. Nella maggior parte dei casi essa esprime la superiorità del Dio di Israele (vivente, e quindi esistente) nei confronti degli idoli adorati dai pagani (morti, e quindi inesistenti), che sono “dèi di legno e di pietra, i quali non vedono, non odono, non mangiano, non annusano” (Deuteronomio, 4:28) e che, proprio per questo, sono irreali, inesistenti, in poche parole “non vivi”. Lo stesso concetto è ripetuto molte volte, come per esempio in Giosuè 3:10 (“Da ciò saprete che in mezzo a voi c’è un Dio vivente: proprio lui caccerà via dinanzi a voi il cananeo, l'ittita, l'eveo, il perizzita, il gergeseo, l'amorreo e il gebuseo”) o in Geremia 10:5-10 (“Gli idoli sono come spauracchi in un campo di cocomeri, e non parlano; bisogna portarli, perché non possono camminare. Non li temete! perché non possono fare nessun male, e non è in loro potere di far del bene […] ma il Signore è il vero Dio,
egli è il Dio vivente”). Potrei portare numerosi altri esempi, ma non è questo lo scopo di questo post. In estrema sintesi, potrei però dire che il concetto appena illustrato è ben riassunto e rafforzato dal celebre comandamento "non avrai altro dio all'infuori di me", che tra tutti è quello che, sin da bambino, mi ha sempre dato da pensare.
Per dovere di completezza, vale la pena sottolineare che il concetto è anche presente nella gran parte delle confessioni, a partire dal Corano (“Allah, non c’è dio all’infuori di Lui, il Vivente, l’Assoluto” – Surat Âl-‘Imrân) fino alla sua più ovvia materializzazione shintoista nella persona dell’imperatore, che è stato considerato, almeno fino al 1945, dio vivente.
Tornando al Re in Giallo, nel finale del racconto egli, come detto, cita il biblico. versetto "È una cosa spaventosa cadere nelle mani del Dio vivente!". Si tratta di una frase solo sussurrata che potrebbe benissimo (e probabilmente è così, ma non importa) essere interpretata come un’allucinazione, ma non è chiaro se egli utilizzi tale epiteto per se stesso oppure per un “Padre”, un’entità terza, divina, e a lui evidentemente superiore.
Crediamo sia preferibile la seconda ipotesi, in quanto nella Bibbia, per mantenere il nostro parallelismo, non troviamo mai il demiurgo in prima persona affermare di essere il "Dio Vivente” (*), ma troviamo sempre altri che lo testimoniano.
Tale ipotesi, se confermata, dovrebbe portarci a escludere l’equivalenza tra le figure del Re in Giallo e di Hastur, il dio dei pastori, ipotesi che per un attimo abbiamo anche accarezzato (e ci torneremo senz’altro sopra in futuro).
È però chiaro che qui, come nella Lettera agli Ebrei del Nuovo Testamento, tale frase è da intendersi come un monito verso i peccatori. Il “cadere nelle mani” di qualcuno non è mai una buona prospettiva e, anche nella migliore delle ipotesi, non può che anticipare la punizione di un dio vendicativo nei confronti di coloro che, nonostante tutto, continuano a seguire i propri schemi e a praticare i propri principi.
Per Chambers quella frase è piuttosto una minaccia nei confronti di coloro che si aggrappano irrimediabilmente alla sanità mentale. In pratica è come se il Re in Giallo avesse detto: “Hai conosciuto il libro ed è ora che la tua anima affoghi nelle nebbie di Hali. Gettati in ginocchio dinanzi all’Innominabile oppure subisci la sua ira, perché l'unica vera religione è quella praticata alla Corte del Dragone”.
Il protagonista nelle ultime righe si lascia finalmente andare, comprende che ciò in cui ha sempre creduto non è reale e inizia a precipitare verso gli abissi della follia. Rimane il dubbio su chi sia davvero il Dio Vivente. Si tratta di Hastur, colui che non deve essere nominato? Probabilmente sì.
Vivo alla Corte del Dragone, uno stretto passaggio che porta da Rue de Rennes a Rue du Dragon. È un "impasse"; percorribile solo per i passeggeri a piedi. Sopra l'ingresso in Rue de Rennes c'è un balcone, sorretto da un drago di ferro. Dentro la corte alte case vecchie sorgono da ogni parte, e chiudono le estremità che danno sulle due strade. Enormi cancelli, aperti durante il giorno nelle pareti delle profonde arcate, chiudono questo cortile, dopo la mezzanotte, e bisogna entrarvi suonando a certe piccole porte laterali. Il pavimento incavato raccoglie pozze sgradevoli. Ripide scalinate scendono fino alle porte che si aprono sul campo. I piani terra sono occupati da botteghe di rigattieri e da lavoratori del ferro. Tutto il giorno il luogo risuona del tintinnio dei martelli e del clangore delle sbarre di metallo. Per quanto sgradevole sia in basso, c'è allegria, conforto e lavoro duro e onesto in alto. Cinque piani più in alto ci sono gli atelier di architetti e pittori, ei nascondigli di studenti di mezza età come me che vogliono vivere da soli. Quando sono venuto qui per la prima volta a vivere ero giovane, e non solo.
Numerosissime sono le curiosità che si possono rintracciare tra le righe di “Alla corte del drago”. Una tra tutte è lo scoprire che i luoghi descritti da Chambers non sono affatto oggetto della sua fantasia, ma appartengono agli anni del periodo parigino dello scrittore quando, tra il 1886 e il 1893, studiò alla École des Beaux-Arts e all'Académie Julian, giusto a pochi passi dalla “Cour du Dragon” descritta dal racconto.
Il balcone descritto da Chambers è sparito, ma si può ancora ammirare il dragone che lo sosteneva, anche comodamente da casa, digitando “50 Rue de Rennes Paris” in Google Maps e cercando un portone di colore blu. La corte descritta nel racconto si trova esattamente dietro quel portone e, passando alla vista satellitare, appare come un giardino ben ordinato ad uso esclusivo di chi vi abita. All’estremità opposta l’accesso è possibile attraversando un portone che corrisponde al civico 7 di Rue du Dragon.
Purtroppo, il dragone ammirabile oggi è solo una copia: negli anni Cinquanta l’originale facciata settecentesca venne demolita nell’ambito di un processo di riqualificazione urbanistica piuttosto discutibile. La scultura originale è stata fortunatamente conservata, e dal 1955 fa parte delle collezioni del Museo del Louvre. Una descrizione più accurata della storia della “Cour du Dragon” la potete trovare su questo sito, unitamente a mappe e a foto d’epoca.
Certo che l'inquietudine è forte, se si viene a contatto con una divinità incomprensibile e che induce alla follia, e allo stesso tempo ci si rende conto che le nostre certezze (per chi le ha) sono false e vuote.
RispondiEliminaLovecraft è meno sottile, più esplicito, ma il tema è quello.
Non c'è nulla di davvero comprensibile in tutta questa storia, e quei pochi indizi sparsi mandano al manicomio tanto quanto l'ipotetica lettura del Re in Giallo. Qui in particolare la cosa che più inquieta è però l'ambientazione in luoghi realmente esistenti.
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