lunedì 13 marzo 2023

L'isola dei morti e la filosofia mistica della conoscenza. Intervista con Fabrizio Valenza

Solo qualche settimana fa avevamo pubblicato qui sul blog una recensione al romanzo "L'isola dei morti" di Fabrizio Valenza, titolo che, come avevamo sottolineato, rimanda al poema sinfonico che Sergej Rachmaninov compose fra il 1907 e il 1908, e  a sua volta ispirato alla serie di dipinti che Arnold Böcklin, realizzò tra il 1880 e il 1886. 
In tale occasione non esitai a definire il romanzo come "il compimento di un viaggio iniziatico" di 
personaggi sospesi fra il piano naturale e quello soprannaturale, ovvero fra il regno dei vivi e quello dei morti. L'aspetto forse più curioso della questione è che, cosa per me piuttosto atipica, il mio interesse per quel romanzo non è andato scemando dopo la pubblicazione dell'articolo. Anzi, nonostante molti passaggi fossero piuttosto chiari, e nonostante fossi riuscito casualmente a cogliere alcuni elementi, volutamente celati dall'Autore nel testo, che ne tradiscono la genesi, molte sono rimaste le questioni aperte, le domande alle quali non ho saputo rispondere o, molto più banalmente, le curiosità che non ho soddisfatto.
La soluzione che ho trovato a questo piccolo grande problema è la più semplice: andare direttamente alla fonte. Ho scritto quindi a Fabrizio Valenza, il quale si è dimostrato ben disposto a svelare tutte le sue carte. Quello che segue è il testo integrale della mia intervista a Fabrizio che, come vedrete, non è assolutamente priva di sorprese. Buona lettura!

***

T.O.M.: Ciao Fabrizio e benvenuto su Obsidian Mirror. Mettiti pure comodo e versati da bere. Sei a tuo agio? Bene. Allora, come avrai intuito oggi scaveremo a fondo ne “L’isola dei morti”, romanzo che è stato recensito qui sul blog all'inizio di febbraio. Ti senti preparato sull’argomento? 

F.V.: Ciao e un grande grazie a Obsidian Mirror per ospitarmi. E ciao a tutti i tuoi lettori. Se mi sento preparato sull’Isola dei morti? Mai a sufficienza. L’argomento offerto dal racconto e dalle sue fonti d’ispirazione è così vasto, che mi ritrovo spesso a scoprire io stesso aspetti mai considerati prima. 

T.O.M.: Quando si vestono i panni dell’intervistatore, e prima di iniziare ad affrontare un argomento specifico, bisogna sempre cedere il passo a una piccola parte introduttiva. La prima domanda è quindi più che altro una formalità: chi è Fabrizio Valenza? Scrittore? Insegnante? Filosofo? Come ti definisci e, già che ci siamo, cosa ti piacerebbe fare da grande? 

F.V.: Sono tutte e tre le cose. Scrivo da quando avevo 13 anni (perciò da 38 anni…), pubblico da sedici, insegno da diciotto e pubblico filosofia da sei anni a questa parte, anche se tutta la mia vita mi ha sempre portato in questa direzione. Ecco, con poche parole potrei dire che Fabrizio Valenza è un adulto che è riuscito a conservare un bel dialogo con il suo bambino interiore: i due si parlano attraverso le storie, unico modo per andare d’accordo. Conto di farlo fino al giorno della mia morte. 

T.O.M.: Curiosando sul tuo sito non ho potuto fare a meno di notare quanto vasti siano i tuoi interessi. Vuoi provare ad aiutare un eventuale visitatore ad orientarsi tra tutto quel materiale? Da che parte si dovrebbe cominciare? 

F.V.: I miei interessi si possono ridurre, in realtà, a due ampi settori: la narrazione e la ricerca del significato, cioè la filosofia. Ho provato a convogliare il gran numero di articoli pubblicati (più di 800) in alcuni settori, la scrittura o la filosofia o la scuola. In realtà, poi, spesso gli argomenti si intersecano tra di loro. Se qualcuno è interessato a leggere le cose che pubblico sul sito, può cominciare da una parte qualsiasi, magari facendo una ricerca e inserendo una parola chiave: è probabile che venga fuori qualcosa di interessante. C’è, però, da chiarire un aspetto: io esprimo sempre e solo le mie opinioni, il mio personalissimo punto di vista. Non dico mai qualcosa che possa valere in assoluto. Ho un forte senso del limite, ma penso che proprio questo sia un valore aggiunto. Più punti di vista ci sono nel mondo e meglio è, a mio parere. Offro spunti di riflessione che magari non si trovano da altre parti. Inoltre, i canali aperti sui social (YouTube, Instagram e Facebook su tutti) dialogano in continuazione con il sito (che è https://fabriziovalenza.net, diciamolo). 

T.O.M.: Mi sembra che non hai alcuna difficoltà a spaziare da argomenti “leggeri”, come la narrativa horror e fantasy, ad argomenti un po’ più ostici, come filosofia, teologia e antropologia. Come riesci a far convivere aspetti che a prima vista appaiono inconciliabili? 

F.V.: Partiamo dal presupposto che per me narrativa horror e fantasy non sono argomenti leggeri. Nella nostra società di questi ultimi decenni ci siamo abituati a pensare che si tratti di ‘vie di fuga’ dalla realtà, ma io penso il contrario. Il linguaggio fantastico aiuta invece a entrare più a fondo nella realtà del mondo e dell’esistenza, che non è mai piatta o a un solo livello. Chi vuole ridurre tutto a un ipotetico realismo (che in letteratura corrisponde al cosiddetto ‘mainstream’), sbaglia di grosso: si perde una buona fetta, forse la maggiore, dell’esistenza. Già da queste parole si capisce in che modo possano convivere in me i vari aspetti, giusto? Giusto! Se vogliamo dirla tutta, le mie pubblicazioni, che in effetti spaziano tra vari settori e ambiti, costituiscono per me le sfaccettature della realtà. Credo molto nell’approccio che De Balzac ebbe con la sua Comédie Humaine. Permettimi un ulteriore inciso: temo che l’Italia sia sempre molto restia a dare spazio alla narrazione fantastica (per le motivazioni che ormai ben conosciamo: Croce & co., ma non solo), e forse non è un caso se proprio la Comédie Humaine di Balzac sia stata tradotta in italiano solo per una quindicina di volumi sul centinaio e passa che la compongono. Troppo attaccati alla materia, troppo appiattiti su un livello interpretativo. Fine del pippone! 

T.O.M.: Con i tipi di Mimesis hai recentemente pubblicato un saggio dal titolo “Filosofia mistica della conoscenza. L’unione degli ambiti conoscitivi nel mistero relazionale” che, magari mi sbaglio, mi sembra racchiuda tutto quello che nei tuoi articoli (sul blog ma anche altrove) è soltanto accennato. Possiamo considerarlo un punto di arrivo? 

F.V.: Ti ringrazio per aver colto questo aspetto. La Filosofia mistica della conoscenza è per me sia un punto di arrivo che un punto di partenza, ma anche un punto di passaggio. Ti spiego perché. Con ogni probabilità, il mio approccio all’esistenza è sempre stato di tipo filosofico, mi sono sempre fatto domande sulla realtà, fin da quando ero bambino. Riconosco negli interrogativi di quando avevo tre o quattro anni, che ancora ricordo, la strada che poi ho seguito per tutta la vita, sebbene non ne avessi una grande consapevolezza. La mia traiettoria, però, è stata sempre più centrata sulla mia identità e il suo sviluppo, rendendomi conto che ciò che vivevo io era simile a ciò che vivevano gli altri e che quello che vivevano gli altri corrispondeva a quanto vivevo io. Con una sola differenza: molto spesso, gli altri non si rendevano conto del loro vissuto; io, invece, fin troppo. La Filosofia mistica della conoscenza è lo sviluppo del mio modo di vedere il mondo e l’esistenza, e sotto questo aspetto è un punto d’arrivo. Però è anche un punto intermedio, perché da quella pubblicazione del 2020 si diramano novità e ulteriori approfondimenti che confermano il passato e aprono al futuro. Infine, è punto di partenza perché si tratta di un primo volume di una filosofia mistica (così ribattezzata da me) che dovrebbe svilupparsi con altri due volumi principali, dedicati alla pedagogia e al rapporto tra magia e scienza. Permettimi di dire che importanti filosofi italiani hanno confermato le intuizioni contenute in questa filosofia. 

T.O.M.: Torniamo alla narrativa, e dando per scontato Stephen King (a cui hai dedicato una corposa sezione del tuo sito), quali sono stati i caposaldi della tua formazione di lettore? 

F.V.: Ce ne sono stati molti, ma quelli cui faccio di solito riferimento sono Michael Crichton, Ian McEwan, Paul Auster e Truman Capote. È ovvio, però, che non posso non citare Foscolo, Pascoli, Eco. Insomma, sono molti gli autori che mi hanno insegnato a scrivere e a maturare le mie tematiche (e che continuano a farlo, perché non si smette mai di imparare, per esempio oggi Aldo Busi), ciascuno per un motivo diverso. 

T.O.M.: Noto che offri anche servizi di editing e consulenza a vari livelli per chi ha fatto (o vuole fare) della scrittura la propria attività. Come vedi lo scenario italiano, in particolare per quanto riguarda il fantastico? Non ho potuto non fare caso, detto tra noi, che sei tornato all’autopubblicazione dopo anni in cui ti eri affidato a professionisti. 

F.V.: Sono due argomenti differenti, lo scenario del fantastico italiano e il ritorno all’autopubblicazione. Come ti dicevo prima, la narrativa fantastica fa ancora fatica a essere accolta senza problemi dagli italiani, troppo ripiegati sul quotidiano e sulla realtà-a-un-livello. Ciò nonostante, negli ultimi decenni c’è stato un piccolo sdoganamento dell’elemento fantastico anche nella cosiddetta letteratura colta (distinzione che in Italia continua ad andare per la maggiore), che avviene però attraverso un filtro eccessivamente critico: si tratta quasi sempre (se parliamo di importanti scrittori), di una letteratura colta che accoglie e utilizza le narrazioni popolari, esattamente sulla strada tracciata da Calvino con Fiabe popolari. Chi scrive narrativa fantastica senza interpolazione di classe pur appartenendo alla letteratura cosiddetta colta (che oggi rientra in buona parte nel ‘mainstream’), è in numero ancora troppo esiguo. Posso citare un Tullio Avoledo, per fare un esempio, ma se dovessi dire un secondo nome, farei già fatica. Altro discorso è se guardiamo allo strato di scrittori più piccoli, poco conosciuti o quasi del tutto sconosciuti, una realtà differente: ma in questo caso mancano spesso degli strumenti adeguati per fare della tematica fantastica una vera proposta letteraria. 
Argomento autopubblicazione, poi. Qui parliamo di editoria, e in parte ci sovrapponiamo a quanto detto prima. Non ci sono grandi o importanti editori che puntano sulla ricerca di una letteratura fantastica che non sia rielaborazione della cultura popolare. Non ci sono editori che abbiano il coraggio di cercare (e magari di trovare) uno Stephen King italiano che sappia portare il fantastico nella quotidianità. Per dirla tutta: King ha portato i fantasmi dai castelli europei alla provincia americana, e l’editoria americana gli ha permesso di diventare espressione della letteratura di un intero paese (per quanto possa ancora oggi venir criticato da certa classe ‘colta’ dei critici americani). In Italia si continua a parlare di sirene all’interno di una realtà di pescatori più o meno ignoranti, o di fantasmi all’interno di castelli, o di folletti all’interno di una realtà contadina. Perché mai, mi chiedo io, e la risposta arriva: perché gli editori importanti non sono disposti a credere in un modo differente di fare letteratura e, di conseguenza, gli stessi scrittori non lavorano duramente per raggiungere questo obiettivo. Ecco che, per quelli come me che cercano di fare qualcosa di serio al riguardo, l’unica strada percorribile in questo ambito diventa l’autopubblicazione. Il grosso problema, però, è che si continua a rimanere nelle proprie nicchie. La parola d’ordine dovrebbe essere “sfondare le nicchie”. 

T.O.M.: Un consiglio di lettura che vorresti dare? Un consiglio di scrittura che vorresti dare? 

F.V.: In realtà, sono due consigli che diventano quasi lo stesso: vivete. Leggete per scoprire la vita (oltre che viverla direttamente) e scrivete perché avete scoperto la vita (che mi auguro abbiate vissuto direttamente). E poi te ne dò un altro: leggete tanto (non solo i 12 libri annui di cui il nostro Ministro della Cultura ha fatto sfoggio in un’intervista, credendo di essere un lettore forte) e scrivete tanto, ogni giorno. 

T.O.M.: Veniamo ora a questo tuo nuovo romanzo. Lo hai chiamato “L’isola dei morti”, in evidente omaggio al poema sinfonico di Rachmaninov e ai dipinti inquietanti di Böcklin. Come è nata e maturata in te l’idea di realizzare un progetto del genere? 

F.V.: È nato tutto dal poema sinfonico di Rachmaninov. Più lo ascoltavo, più nasceva dentro di me una sorta di visione, una storia fatta di amore e morte che si incrociavano. Non ho dovuto fare alcuno sforzo per metterla nero su bianco. La maturazione del testo è stata più complessa, ed è passata attraverso il confronto con due editor importanti: un passaggio necessario se vogliamo offrire, come scrittori, qualcosa che abbia una minima garanzia di qualità. Alla fine, può piacere o non piacere per la particolarità del linguaggio o per l’argomento, ma lavorando bene, il risultato che si raggiunge è sempre qualcosa di cui poter andare fieri. 

T.O.M.: Numerosi sono stati i tentativi di identificare l’isola dipinta da Böcklin con luoghi reali, dall’isolotto di Pontikonissi, di fronte a Corfù, all'isola di San Giorgio, in Montenegro, e a molte altre località vagamente simili. Tu hai scelto invece di posizionarla in un a noi ben più familiare golfo del Tigullio. C’è un motivo particolare? C’è inoltre una ragione per averlo ambientato negli ultimi anni del XIX secolo anziché ai giorni nostri? 

F.V.: Può sembrare strano, ma non ho fatto chissà quali ragionamenti. Molto semplicemente, nel 2009 avevo scritto un romance ambientato a Zoagli, in Liguria (La ragazza della tempesta), e nella storia c’era quest’isola al largo della costa, che era soprannominata Isola dei morti. Mi è venuto naturale collocare lì l’ambientazione, situandola però un secolo prima di quelle vicende. La musica di Rachmaninov e i dipinti di Arnold Böcklin, poi, hanno fatto il resto, consegnandomi nel linguaggio ottocentesco l’approccio da utilizzare per la narrazione. Sono, infine, molto affezionato alla Liguria e in particolare a Zoagli. 

T.O.M.: Nella mia recensione ho accostato “L’isola dei morti” a un racconto di Lovecraft e a un vecchio film britannico anni Settanta. Sono totalmente fuori strada oppure c’è effettivamente qualche punto di contatto? 

F.V.: Di sicuro, non punti di contatto voluti o espliciti. Forse con Lovecraft, posso dire che certe atmosfere siano simili, mentre con il film britannico, non saprei dire. Non credo di averlo visto. Se l’ho visto, può darsi che mi sia rimasto dentro, come immagini e situazioni. L’ispirazione percorre spesso strade che a noi sembrano ignote, ma che talvolta possono venir riconosciute con il senno di poi. Pensa che c’è chi ha detto che con L’isola dei morti ho voluto riproporre una narrazione-imitazione di Lovecraft e di Poe: peccato che di entrambi gli autori io abbia in realtà letto molto poco. 

T.O.M.: Sempre vagando nel tuo sito ho recuperato un tuo articolo, particolarmente interessante, che hai scritto nel 2018 per una rivista di studi teologici. Mi riferisco a “Teologia e magia. Sacro e potere”, nel quale, in estrema sintesi, azzardi una sorta di parallelismo tra Cristianesimo e Paganesimo. C’è un nesso tra articoli come questo e la tua narrativa, in particolare con “L’isola dei morti”? Come si inserisce in tutto ciò quella strana data del 32 ottobre? 

F.V.: Quell’articolo è un estratto dal primo saggio di filosofia che ho sviluppato, Il codice narrativo della magia, che non è ancora stato dato alle stampe e che va a costituire, nelle intenzioni, il terzo volume della Filosofia mistica della conoscenza. Si tratta dell’argomento della mia terza tesi, che ho avuto l’idea di trasformare in saggio filosofico: da lì è partita la mia incursione in questo campo. In effetti, l’idea di partenza era proprio quella di portare a dialogo il Cristianesimo e il neo-paganesimo, operazione complessa, ma secondo me necessaria. Lo dico da cristiano, e il cristiano non può rifiutarsi di parlare con nessuno. Come dicevo in precedenza, tutto ciò che scrivo è una applicazione narrativa di ciò che penso e, d’altra parte, tutto ciò che penso permea tutto ciò che scrivo. L’isola dei morti è, più che altro, l’estremizzazione di un simile confronto, anche se il protagonista non è tuttavia cristiano, ma depositario di una fede che potremmo definire scientista (quella del positivismo di fine Ottocento). Il 32 ottobre è stata un’idea, se vuoi, un poco umoristica, che poteva far breccia nei lettori per la sua assurdità. E infatti, così è stato. D’altro canto, mi permette di giocare su un’ambiguità possibile tra giorno di tutti i santi e festività di Samhain, mettendo in dialogo calendario cristiano e calendario celtico. 

T.O.M.: Ora che la mia curiosità è stata ampiamente soddisfatta, caro Fabrizio, non mi resta che ringraziarti per aver accettato di farmi visita sul blog. Come faccio abitualmente in queste occasioni, lascio a te un po’ di spazio dove puoi parlare a ruota libera di tutto quello che vuoi, dei tuoi progetti presenti e futuri, o di qualsiasi altra cosa. Un angolino dove puoi farti un po’ di pubblicità, anche in maniera spudorata. 

F.V.: Più che farmi pubblicità, vorrei solo segnalarti che sto lavorando alla stesura definitiva di Coincidenze, un nuovo romanzo a cavallo tra realtà e fantasia (per l’appunto), che mette a tema il senso che diamo alle coincidenze della vita e la presenza del soprannaturale nella quotidianità. Inoltre, ho raggruppato le mie autopubblicazioni (che, lo ricordo, sono solo una parte di ciò che pubblico, altrimenti in modo tradizionale, con case editrici) nell’etichetta Albero del Mistero, che possono essere trovate e acquistate (o lette con kindle unlimited) su Amazon. Ci sono anche i miei romanzi fantasy. Non mi resta che ringraziare te e i tuoi lettori e augurarmi di incontrarti di nuovo sulla mia strada. Ciao.



2 commenti:

  1. Sono pienamente d'accordo sul fatto che la narrativa fantastica permette di esplorare l'esperienza esistenziale "reale" e non è affatto una fuga dalla realtà (certi romanzi fantastici possono esserlo, ma non più di quanto lo sia un "realistico" romanzo rosa, per dire).
    Mi riconosco molto nel fatto che scrivere/creare storie era qualcosa che avevo già dentro di me sono da bambino.

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    1. Esatto, e ciò è particolarmente vero in generi come la fantascienza, dove gli scenari in cui si muovono i personaggi non sono altro che specchi della nostra stessa realtà.

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