mercoledì 8 giugno 2011

Imprint

Penso conosciate i Masters of Horror, una serie di mediometraggi commissionata dall’emittente americana via cavo Showtime: si tratta di film della durata media di circa un’ora girati da registi horror famosi, quali Don Coscarelli, Tobe Hooper, Lucky McKee, Stuart Gordon, Joe Dante, John McNaughton, Larry Cohen, Takashi Miike, John Carpenter, William Malone, John Landis, Mick Garris e il nostro Dario Argento).

Ebbene, oggi voglio parlare di quello che ad oggi è il mio MoH preferito, ovvero “Imprint” di Takashi Miike (già autore di masterpieces quali Audition, Ichi the killer, Visitor Q ecc.). “Imprint” è il tredicesimo e ultimo episodio della prima stagione, nonché il più controverso. Infatti il lavoro firmato da Takashi Miike in USA ha avuto non pochi problemi con la censura e, malgrado l’operazione “Masters of Horror” si fosse prefissata l’obbligo di lasciare massima libertà creativa agli autori e non effettuare censure, l’episodio diretto da Miike è l’unico che non fu mai trasmesso in quanto giudicato troppo estremo. Sono rimasto perplesso nel constatare che è stato girato in inglese: peccato, guardo sempre volentieri i film giapponesi in lingua giapponese quando posso, perché mi piace il suono della lingua, e poi diciamocelo, il giapponese si sposa perfettamente con le atmosfere oniriche e misteriose. Io comunque mi sono avvalso ugualmente dei sottotitoli…
In generale le recensioni al film non sono state molto positive, ma io le trovo come minimo ingenerose e questo post ha proprio lo scopo di spezzare una lancia a favore di quest’opera e del regista. È vero, Miike può sembrare fissato con l’ultraviolenza, ma nei suoi film ho sempre trovato del significato, oltre che cura per il dettaglio e un impatto visivo che incontra il mio gusto, e proprio per questo lo apprezzo.

La storia è la seguente. Nell’Ottocento Christopher (Billy Drago), professione giornalista, viaggia per il Giappone per onorare una promessa fatta a Komomo (Itô), sua antica fiamma: ritrovarla per sottrarla alla sua grama vita, portandola con sé in America - la donna era, infatti, una prostituta. Nel suo peregrinare Christopher giunge in una zona remota del Giappone, su un’isola su cui vi sono solo case di piacere, e si reca in una di esse per chiedere notizie di Komomo. Il padrone della locanda afferma di non averla mai sentita nominare, invece una giovane prostituta dal volto sfigurato (Youki Kudoh) afferma di aver conosciuto Komomo, quindi lui decide di fermarsi a dormire nella locanda e le chiede di tenergli compagnia per raccontagli quello che sa.

La ragazza infrange ben presto le sue speranze, quando gli dice che Komomo è morta, essendosi impiccata tempo prima dopo aver atteso a lungo, invano, che il suo amante tornasse a prenderla. Nonostante la ragazza sembri mentalmente disturbata, Christopher le crede e insiste per conoscere i dettagli della vicenda. Lei la prende alla lontana e gli narra per prima cosa la sua storia: un’infanzia povera e disgraziata trascorsa nella campagna giapponese, l’arrivo nel bordello, il rapporto con Komomo, e per finire la vicenda di Komomo stessa e le circostanze della sua morte. La ragazza ripete il racconto più volte, ogni volta aggiungendo particolari e cambiando versione, fino alla verità, in un impianto narrativo che non poco deve a Rashomon. L’orrore del racconto ossessiona Christopher e lo rende quasi pazzo.

Non dico altro, vi basti sapere che nel film è mostrata una delle scene di tortura più brutte e disturbanti che abbia mai visto, e io di horror ne ho visti parecchi… Quello che non riesco a dimenticare è l’espressione sul volto delle torturatrici: non pazzia, non ossessione, ma solo cattiveria e gioia. La loro gioia sadica nell’approfittarsi del pretesto che si offre loro per sfogare quello che evidentemente è un istinto innato, la lucida cattiveria nell’accanirsi contro una ragazza che ha il solo difetto di essere troppo bella, la più ricercata dai clienti, è qualcosa che gela il sangue nelle vene (secondo me, molto più che guardare le gesta del maniaco di turno armato di ascia o sega elettrica).

Dall’altra parte la narratrice, la ragazza deforme, è un freak inquietante, ma allo stesso tempo è difficile annoverarla tra i ‘cattivi’ alla stessa stregua delle torturatrici di cui sopra, se solo ci si sofferma a pensare alla sua solitudine e al suo vissuto dovuti proprio al suo spaventoso aspetto. Non è difficile credere che il male le possa scorrere nelle vene insieme al sangue marcio dei suoi genitori, predestinandola al male aldilà di ogni possibilità di scelta, aldilà della redenzione. La ragazza è la prima a conoscere bene la propria natura e ad accettarla come un fatto naturale e inevitabile, e senza moralismo nel vedere il film ci si trova a fare altrettanto.

“Imprint” è basato sul racconto del 1999 “Bokkee Kyotee" di Shimako Iwai e assomiglia in tutto e per tutto ad un kaidan. Nella narrazione ci sono molti elementi orribili ognuno dei quali, da solo, basterebbe a garantire una notte insonne: tortura, omicidio, aborto, incesto... Allo stesso tempo l’opera è visivamente affascinante, come le atmosfere decadenti che riesce a ricreare.

Forse il difetto più grande del film è che non si capisce bene dove esattamente volesse andare a parare il regista – insomma c’è troppa carne al fuoco. E forse Miike avrebbe potuto mitigare un po’ il realismo di certe scene, lasciando alcuni particolari all’immaginazione invece che mostrarli apertamente (anche così il film sarebbe stato efficace). Che dire… nonostante ciò, sebbene riconosca che non si tratta del miglior film di Miike, io lo consiglio.

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