mercoledì 16 maggio 2012

Engraved in Black

E' da diverso tempo che non parlo di musica in questo blog. L'ultima volta fu lo scorso gennaio, con la mia recensione dell'album "Lights Out" degli Antimatter, datato 2003. Risale ancora al 2003, decisamente uno degli anni più prolifici di questo nuovo millennio per il metal, l'album che ho intenzione di recensire oggi: si tratta di "Engraved in Black", quarto album studio per gli altoatesini Graveworm, gruppo ancora semisconosciuto in Italia, ma che piò vantare un grosso seguito all'estero, soprattutto in Germania.
Il genere proposto da questi cinque ragazzi è una variante melodica del Black Metal. Immagino che al sentire parlare di Black Metal molti storceranno il naso, visto che si tratta di un genere rappresentato da gruppi, prevalentemente scandinavi, dediti più che altro a dare fuoco alle chiese piuttosto che a cercare di creare una musica che sia perlomeno ascoltabile. Pensare che "dare fuoco alle chiese" sia esagerato? Leggete su Wikipedia la storia di Varg Vikernes, alias Burzum, se non ci credete. Ad ogni modo, oltre ad essere un  sottogenere estremo dell'heavy metal, conosciuto per le sue tematiche sataniste, il Black Metal ha sviluppato nel tempo diversi sottogeneri, alcuni dei quali assolutamente apprezzabili dal punto di vista stilistico. Uno di questi è il cosiddetto Melodic (o Symphonic) Black Metal, che fece la sua prima apparizione grazie a due band (guarda caso) norvegesi, i Dimmu Borgir e gli Emperor. Entrambi debuttarono nel 1994, migliorando l'aspetto tecnico e melodico e aggiungendo inserti sinfonici ad una base musicale che traeva ispirazione dal Black Metal classico. Oggi le band Melodic (o Symphonic) Black Metal sono centinaia, tra cui spiccano senza dubbio i nostrani Graveworm.

L'album in questione è il primo realizzato dalla prestigiosa etichetta tedesca Nuclear Blast e sancisce il salto di qualità del gruppo che fino ad allora aveva lavorato solo con produttori independenti.
L'opening track "Dreaming Into Reality" mette subito in chiaro il tipo di esperienza che si sta per affrontare. L'inizio maestoso (quasi marziale) lo rende uno dei brani più riusciti di tutto l'album, grazie alle sue sfumature melodiche che lo rendono tutto sommato accettabile anche a chi si sta per la prima volta avvicinando al Black. Ma la vera sfida è "Legions unleashed", vale a dire il brano successivo, violento e aggressivo più che mai. Naturalmente è una sfida solo se non siete propriamente dei blacksters (eheheh), visto che gli inserti d'organo, quantomai inopportuni a mio modesto parere, in un brano come questo stonano un pochino. Awaits the reign of dark / Creatures of the night arrived / Embraced by darkest might / Blood their only trace to kill / Between the dreams they ride / Marches straight to end the life / Mankind of foible faith / Beyond the temple of the lost / Arrival of plague and death / The garden withered into dust / Might of spell take life / Nocturnal eyes reflects the flames / Ancient race of the gods / Masterpiece of destruction / The agony and pain / The end of the world begun / The time has come: Legions unleashed.
La successiva "Renaissance in Blood" segna profondamente. E' senza dubbio qui che cominciamo a renderci conto che non siamo di fronte ad un disco qualsiasi. La voce del singer Stefan Fiori sale rapidamente alla ribalta, le atmosfere si fanno più cupe. Il brano parte da molto lontano, con un sound desolato e a tratti epico. Il basso di Eric Righi ci pervade l'anima. Se avete resistito fino a quato punto sarete conquistati per sempre dal sound dei Graveworm. Nulla sarà più uguale a prima.

E' con la quarta traccia che comunque arriva la vera sorpresa: "Thorns Of Desolation" è un brano completamente strumentale compeltamente fuori genere. A me personalmente ricorda (e sono certo che non è un caso) un vecchio lavoro di Alan Stivell, "Spered Hollvedel" (termine bretone che significa "Spirito Universale"), arrangiamento di una ballata tradizionale celtica e pezzo d'apertura di uno dei più famosi concerti live di tutti i tempi (Live in Dublin, 1975). Chi non ha mai sentito parlare di Alan Stivell non se ne faccia un cruccio: è roba davvero per pochi.
Ma la vera chicca è la bonus track. Quella che non ti aspetti. Trattasi di una versione tiratissima "It's a Sin", il cavallo di battaglia dei Pet Shop Boys (e chi non se la ricorda?). In realtà questa traccia avrebbe dovuto in un primo momento apparire solo nella versione dell'album destinata al mercato giapponese. Sulla versione europea sarebbe invece dovuta finire "Losing my Religion" dei REM, che poi è stata invece inserita nell'album successivo "(n)utopia".

L'album avanza senza alti nè bassi ma prima di archiviare il caso ecco sopraggiungere il brano migliore, o perlomeno quello che io preferisco in assoluto. Trattasi di "Beauty In Malice", posto quasi in coda all'album, dove ritroviamo prova delle grande doti del vocalist, che alterna qui growl a timbriche più pulite. La chitarra di Steve Unterpertinger qui è immensa e bilancia sapientemente melodia e ferocia, che affonda i colpi ma che ci lascia ogni tanto tirare il fiato: Turned to the hours of deepest despair / Ancient mystic world surrounds my mind / Hear the sweetest symphonies, betrayed by own dreams / Temptation of the beauty, I have tasted her tears / I’ve tasted her tears / She filled my dreams, surrounds be her grace / The gift of their life runs slowly through my veins / By darkness seducted, her cold veil of death / Malicious beauty, obsession of my sins / Craving hands crawls in my neck / I reached the throne of death / I kiss and embrace the dreaming / Devils dance by her side / Embrace the flowers of fall / Drops of blood falls from my hand / I hear the song of the dying ones / Rapes my sin of life / I feel the end of life / Your look stained my soul / I see the dance of flames / Losing my existence / I see the darkness falling on my skin / The cold hand of the beauty might / The claws of death crushes my mind / I raise my hands toward the sky / The kiss of my life and the kiss of my death / Embraced by the stigma of her sweetest voice / Bewitched the sense of the faith to my god / Disarmed the fear of all pain have to come

Diciamocelo chiaramente: i Graveworm meritano davvero quel successo che gli è stato finora negato in patria. Seguiranno, negli anni, diversi altri dischi dopo questo "Engraved in Black", dove le tecniche appariranno ovviamente affinate, ma è da questo punto che vi consiglio di cominciare l'approccio a questa band. Per tutti coloro che amano sì il Black ma che lo preferiscono ben fatto, per i Blacksters più integralisti ma anche per coloro che sono ammorbati da un genere musicale troppe volte fatto con i piedi, da gente che pensa che per fare proseliti basti dipingersi la faccia e urlare frasi senza senso ad un microfono.

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