lunedì 18 giugno 2012

The Suicide Manual

Quando si parte l'anima feroce / dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta / Minòs la manda a la settima foce / Cade in la selva, e non l'è parte scelta / ma là dove fortuna la balestra / quivi germoglia come gran di spelta / Surge in vermena e in pianta silvestra / l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie / fanno dolore, e al dolor fenestra / Come l'altre verrem per nostre spoglie / ma non però ch'alcuna sen rivesta / ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie / Qui le trascineremo, e per la mesta / selva saranno i nostri corpi appesi / ciascuno al prun de l'ombra sua molesta.
Così il Sommo poeta descrive (Inferno, canto XIII) il destino delle anime dei suicidi, relegate in una selva fittissima e innaturale, dai colori cupi e dalla vegetazione intricata. Gli alberi sono le anime stesse dei suicidi: uomini trasformati in piante, regrediti ad una forma di vita inferiore, poiché hanno rifiutato la loro condizione umana uccidendosi e, per tale motivo, non più degni di avere il loro corpo. Dopo il giudizio universale, si dice, i suicidi non potranno rivestire, come tutte le altre anime, i corpi di cui si sono volontariamente privati, ma li trascineranno nella selva e li appenderanno ciascuno ai rami del proprio albero. Ma è davvero questo il destino delle anime dei suicidi? Lo scenario descritto nella Divina Commedia è senz’altro il più noto. Ma le religioni, le leggende e il folklore locale spesso raccontano cose diverse.
Un punto in comune sembrerebbe essere la punizione per ciò che si è fatto, visto che la pratica del suicido è fermamente condannata in tutte le grandi religioni del pianeta (anche se capita che lo sia per motivi diversi). Le anime dei suicidi non potranno, se non con grandi difficoltà, raggiungere la pace. Si dice che esse non riescano davvero mai a spezzare il filo che le collega con il mondo reale, che rimangano, in qualche modo, invisibili e silenziosi fantasmi tra di noi. Credo che succeda perché, solo un attimo dopo il loro trapasso, si rendono conto di ciò che hanno fatto e cercano disperatamente di rimanere tra i vivi. Forse succede perché temono la collera di chi li dovrà giudicare, e per questo motivo cercano di evitare il passaggio al successivo stadio dell’esistenza. Forse è invece proprio questa la loro punizione: rimanere ed osservare il dolore causato ai propri cari. Osservare impotenti, senza essere in grado di dare loro un po’ di conforto o, più semplicemente, di chiedere perdono per il proprio gesto. Alcuni credono che la loro punizione debba durare per un arco di tempo definito, vale a dire esattamente per gli anni sottratti alla propria vita: se per esempio una persona, suicida a 20 anni, fosse stata destinata a vivere fino a 80 anni, allora la sua punizione durerà esattamente 60 anni. Solo dopo tale lasso di tempo l’anima sarà liberata e potrà abbandonare definitivamente la terra.

Osamu Fukutani, regista di questo “The Suicide Manual” (自殺マニュアル, Jisatsu Manyuaru, 2003) la pensa diversamente: dopo il suicidio le anime diventano “Suicide Spirits” e continuano a vagare in questo mondo, prendendo possesso dei corpi di altre persone e portandole esse stesse al suicidio. Tali spiriti non sono coscienti di possedere un corpo che non  è il loro, si fondono che le anime del posseduto, vivono le loro stesse sofferenze fino a commettere di nuovo un suicidio, e poi ancora e ancora per l’eternità. La pena del suicida è quindi quella di ripetere all’infinito l’insano gesto, seminando il male ed il terrore tra di noi.
The Suicide Manual è un’opera coraggiosa, sia per i suoi contenuti, decisamente “forti”, sia per il suo paese di origine, il Giappone, dove il fenomeno della morte volontaria è più allarmante che in qualsiasi altro paese del mondo. Il film prende ispirazione da uno dei best-seller più contestati degli ultimi 10 anni: trattasi  di The Complete Manual of Suicide  (完全自殺マニュアル, Kanzen Jisatsu Manyuaru, lit. Complete Suicide Manual) di Wataru Tsurumui che, pubblicato nel 1993, può oggi vantare oltre un milione e mezzo di copie vendute.
Si tratta, proprio come promette il titolo, di un perfetto manuale che descrive nel dettaglio i vari metodi di suicidio, analizzando per ciascuno di essi i pro e i contro, le percentuali di successo, gli sforzi necessari alla messa in atto, il livello di dolore di cui si dovrebbe tenere conto. L'autore non perde tempo in preamboli filosofici, non mette nemmeno una piccola introduzione che illustri il significato del suicidio, non dice se sia bene suicidarsi oppure no, non cerca di convincere il lettore ad uccidersi, così come nemmeno cerca di dissuaderlo. Semplicemente l'autore dà per scontato che il lettore sia ormai deciso ad uccidersi, ma che non abbia ancora stabilito come. Il libro va subito al sodo. Aprendolo lo scopriamo suddiviso in 11 capitoli: 1) Avvelenamento tramite overdose di medicinali, 2) Impiccagione, 3) Lancio dalla finestra o dal tetto, 4) Taglio delle vene dei polso e della vena carotidea, 5) Incidente automobilistico, 6) Avvelenamento tramite monossido di carbonio, 7) Schock elettrico, 8) Annegamento, 9) Autocombustione, 10) Congelamento e 11) Miscellanee.
Alcuni esempi? L'impiccagione, sostiene l'autore, è il metodo più semplice ed affidabile. Bisogna però assicurarsi che la corda sia abbastanza robusta, che il ramo (o punto di fissaggio equivalente) sia abbastanza robusto e che non vi sia nessuno che possa soccorrere il suicida nei successivi 10 minuti. Chi vuole invece lanciarsi da una finestra o dal tetto di un palazzo dovrà accertarsi solamente di due cose: l'altezza deve essere adeguata (l'autore consiglia almeno 20 metri) e il punto di impatto deve offrire condizioni ideali allo scopo.
Si dice che, dopo la pubblicazione del libro, il numero di suicidi in Giappone sia aumentato sensibilemente. Difficile dirlo. Può essere che sia aumentato il rapporto tra i tentativi conclusi con successo (grazie ai "preziosi" consigli dell'autore), rispetto al numero totale di tentativi. Personalmente dubito del fatto che un libro possa istigare al suicidio, come è stato detto. Questo decisamente no. Non mi pare nemmeno possibile che una serie di ovvietà (perché è questo in sostanza il contenuto del libro) possa davvero aver aiutato degli aspiranti suicidi a realizzare il proprio scopo. L'enorme numero di copie vendute può semplicemente spiegarsi come un fenomeno di costume. Tuttavia è curioso che decine e decine di esemplari di questo libro siano stati rinvenuti tra gli alberi della foresta di Aokigahara, uno dei luoghi più gettonati al mondo per i suicidi. Un luogo ove si contano dai 50 a 100 casi all'anno. Ma perchè i giapponesi vanno ad ammazzarsi in una foresta? Lo spiega Osamu Fukutani nel suo film: in una foresta è difficile essere rintracciati e le possibilità di essere salvati sono praticamente nulle.
Su questo blog si accenna ad una leggenda legata ad Aokigahara: si dice che le anime dei suicidi abbiano permeato gli alberi e che vaghino senza pace alla ricerca infruttuosa della pace eterna. Sarà una mia impressione o questa cosa l'ho già sentita?

Anyway. Quasi dimenticavo che lo scopo di questo post era cercare di scrivere qualcosa a proposito del film. Diciamo innanzitutto che, contrariamente a quanto accade di solito, qui non si tratta di un film tratto da un libro. Si potrebbe invece dire che tratta di un film ispirato da un libro. Anzi, per essere più precisi, qui il libro è il vero protagonista del film, anche se il libro qui prende le sembianze di un DVD. Complicato? NO, è che sono io che mi sono complicato la vita cercando di spiegare un cosa semplice.

The Suicide Manual inizia con il suicidio di un gruppo di quattro adolescenti, riunitisi per compiere il tragico gesto in un tetro e squallido appartamento di Tokyo. Qui facciamo la conoscenza di una coppia di giornalisti, il cameraman Yuu (Kenji Mizuhashi) e la sua assistente Rie (Chisato Morishita), giunti sul luogo del misfatto allo scopo di raccogliere materiale per un documentario televisivo sul crescente fenomeno dei suicidi di gruppo.  Curiosando nei pressi del suddetto appartamento, Yuu e Rie incontrano casualmente Nanami (Ayaka Maeda), una teenager che, dopo brevi insistenze, inizia a raccontare ai nostri qualche inquetante particolare. Si scopre l'esistenza di un misterioso DVD clandestino, intitolato "The Suicide Manual", che pare sia stato trovato tra gli oggetti personali di tutte le recenti vittime. Un DVD nero, senza etichetta, realizzato da una fantomatica "Ricky" e distribuito in esclusiva solamente a coloro che, a giudizio della stessa Ricky, hanno la ferma intenzione di suicidarsi. I contatti tra Ricky e gli aspiranti suicidi avvengono tramite un sito internet, e sarà qui che i Yuu e Rye inizieranno le loro indagini personalui. Detta così la trama ricorda molto "The Ring" di Hideo Nakata, con un DVD al posto del VHS maledetto (eh già, i tempi cambiano). In realtà stiamo parlando di tutt'altro.
I nostri protagonisti ricevono in prestito da Nanami una copia del Suicide Manual e si mettono a studiarlo. Qui parte la visione del drammatico video. Inizia in buona sostanza il film nel film, che ci terrà compagnia per almeno una decina di minuti. Il video è organizzato in capitoli, proprio come il summenzionato libro di Wataru Tsurumui. Una donna vestita con un elegante abito da sera nero, che si presenta come Ricky, ci accompagna attraverso le varie ipotesi di suicidio, fornendo suggerimenti e indicando, per ciascun metodo, i pro e i contro. Le immagini sono molto realistiche e, alcune di esse, particolarmente crude. Ci si chiede quanto sia fiction e quanto invece sia vero. Alcune immagini sembrerebbero prese direttamente da impianti di sicurezza a circuito chiuso, come la scena di una ragazza che si getta sotto un treno. Ci si immerge nella visione del video e si viene immediatamente rapiti dalla sua particolarità. Ben presto ci si dimentica addirittura del plot principale. Non sto dicendo che viene voglia di sperimentare una delle tecniche suggerite da Ricky, ma certamente si rimane affascinati dalla voce narrante e dall'impenetrabile espressione del suo viso. Ho detto prima che si tratta di un film molto coraggioso. Queste sequenze sono estremamente efficaci e mi chiedo se non siano eccessive, spacialmente se viste con gli occhi si una persona instabile. Fortunatamente Osamu Fukutani non si è limitato a questo. Non si ferma là dove si è fermato il discutibile libro di Wataru Tsurumui.
This film was produced to raise the alarm o the rapid increase in suicide. ever to aid and abet suicide. I titoli di testa avvertono lo spettatore che non vi è nessuna intenzione di promuovere il suicidio. Il suo scopo è quello di far discutere e, di conseguenza, di presentare ad un pubblico distratto un problema di preoccupante attualità. Quando il film ritorma sui binari della narrazione principale ci si risveglia come da un incubo. Ed è a questo punto che la nostra mente incomincia a elaborare quello che si è visto. Lentamente si recupera la propria lucidità ed è proprio qui che Osamu Fukutani confeziona il suo successo: ci fa provare rabbia, mette in movimento dentro di noi quel senso di ribellione. Iniziamo a parteggiare per i protagonisti del film: due, fino a quel momento, insignificanti attori di una recita troppo grande per loro. Ci si immerge nell'odioso mondo delle chat rooms specializzate nel raccogliere le deliranti voci dei loro membri, quei siti dove questi ultimi si incontrano, fanno progetti e mettono in pratica le loro idee di autodistruzione, coinvolgendo deboli e indifesi. Non è una fantasia. Non è una leggenda metropolitana. E' la realtà. Ci si immedesima nel povero Yuu quando, infiltratosi in un gruppo di aspiranti suicidi, si trova ad essere ad un passo dal commettere l'irreparabile. Si soffre e si lotta per la vita della povera Nanami. Ci si sente impotenti scoprendo cosa si cela dietro l'enigmatica figura di Ricky. Non ho trovato purtroppo molte recensioni positive in giro per la rete su questo The Suicide Manual. Personalmente l'ho apprezzato moltissimo per la forza del suo messaggio. Credo sia molto difficile fare un film del genere e, soprattutto, credo sia praticamente impossibile superare indenni le impietose cesoie della censura. In Giappone evidentemente le cose funzionano diversamente. Meglio così, tutto sommato, anche se ritengo improbabile che The Suicide Manual possa godere di un'ampia diffusione oltreconfine. Spero, con questo mio insignificante post, di essere riuscito a dare un piccolo contributo.

2 commenti:

  1. Il tema del suicidio è davvero delicato. Quando ne sento parlare rimango sempre molto colpita. Nella mia piccola città negli ultimi 2 mesi 3 uomini si sono uccisi lanciandosi nel vuoto, storie diverse eppure epiloghi identici. Fa riflettere sì ed è un problema che viene sottovalutato. Sapevo del Giappone, dove si incontrano per suicidi di gruppi ed è assurdo che nonostante ci si trovi a far parte di un gruppo (e quindi sparisce l'essere individuali) non si riesce ad evitare il peggio.
    Non sapevo del libro e neanche del film ispiratosi. Credo che sia un film non adatto a tutti e forse per il coraggio di cui parli è stato poco apprezzato. Mi fido del tuo giudizio e se capiterà non gli negherò la visione.
    Comunque hai dato un bel contributo col tuo post, te l'assicuro.

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    1. E' proprio perchè si fa parte di un gruppo (e quindi sparisce l'individuo) che alcuni trovano il coraggio di farlo. Coraggio che da soli evidentemente non avrebbero. Per inciso, il film mostra anche questo.

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