mercoledì 23 luglio 2014

The Noisy Requiem

Shinsekai, periferia di Osaka, giardini pubblici. L’uomo, in ginocchio al centro di uno spiazzo, sta offrendo del cibo ai piccioni che si sono radunati attorno a lui. Una scena come ne abbiamo viste tante uguali anche nelle nostre piazze. Tutto appare tranquillo. Improvvisamente, l’uomo afferra un martello e ripetutamente si accanisce sul più malcapitato dei volatili, uccidendolo. Stacco. L’uomo è ora sdraiato su una panchina e sta giocherellando con un piccione morto. Ne afferra il capo inerte con la mano destra e, con un singolo strappo, lo separa violentemente dal corpo. L’uomo è ora sdraiato su una panchina e sta giocherellando con un piccione decapitato. Fine della ricreazione. Stacco. L’uomo è in ginocchio al centro di un vicolo chiuso, nei pressi di una stazione, gli edifici circostanti a nasconderlo dagli occhi della città che pulsa freneticamente a pochi passi di distanza. Sotto le sue ginocchia una giovane donna. Morta. Tutto appare tranquillo. Improvvisamente l’uomo afferra un coltello e, dimostrando una discreta manualità, si accanisce sul basso ventre della donna, strappandone alcune parti e riponendole infine in una sacca. Ciò che resta del corpo finisce in un canale di scolo. L’uomo si chiama Makoto Iwashita (Kazuhiro Sano), di professione serial killer psicopatico, o almeno questo è ciò che si è portati a credere sul momento (il vero scopo delle sue azioni - perché ce n’è uno, per quanto malato - sarà chiaro solo più avanti).

Nato nel 1956, il filmaker Yoshihiko Matsui (松井良彦) non è certo una figura di spicco nel variegato panorama cinematografico giapponese. Le sue tematiche, spesso ritenute inappropriate, gli hanno infatti precluso ogni speranza di ottenere dei riscontri positivi, non solo da parte del grande pubblico e della critica specializzata (figuriamoci), ma anche da parte da parte di quel sottobosco cyberpunk che, in quegli stessi anni, ha contribuito al lancio di un nome oggi mitico qual è quello di Shinya Tsukamoto (塚本 晋也), il padre di Testuo, Bullet Ballet, Snake of June e molti altri.
Già con il suo film d’esordio, Rusty Empty Can (錆びた缶空, Sabita Kankara), datato 1979 e incentrato su un triangolo amoroso omosessuale, il solco era tracciato. Il suo incontro con Sogo Ishii (石井 聰互), che avrebbe avuto in seguito un discreto successo nel cinema indipendente, lo portò alla realizzazione, come assistente alla regia, del lungometraggio low budget Crazy Thunder Road (狂い咲きサンダーロード, Kuruizaki Sandā Rōdo), una futuristica storia di scontri tra bande rivali (molto simile ai Warriors di Walter Hill, ma con le motociclette) che, sebbene oggi sia considerata un cult, all’epoca venne funestata da pesanti critiche sia da parte della destra oltranzista sia da parte della comunità gay. 
Yoshihiko Matsui si diede alla macchia per riapparire solo otto anni più tardi con questo The Noisy Requiem (追悼のざわめき, Tsuitō no Zawameki), che ad oggi rappresenta indiscutibilmente l’apice della sua carriera artistica (una carriera che, ahimè, lo vedrà dietro alla macchina da presa solo una volta ancora, nel 2007, dopo un ulteriore silenzio di quasi vent’anni). 

Oltre a Iwashita, nel corso del lungometraggio faremo la conoscenza di altri personaggi. Come i due mutilati veterani di guerra, che si guadagnano qualche soldo come musicisti di strada e che scateneranno inconsapevolmente la follia dell’uomo; un senzatetto, lurido e disgustoso, che trascina con sé un tronco d’albero la cui forma ricorda quella di due glutei femminili e il cui unico scopo nella vita sembra quello di copulare; due nani, fratello e sorella, che sono soliti giacere assieme fin da quando, più giovani, furono istigati a farlo dalla loro madre; e infine una coppia di giovani che, al pari di noi spettatori, per un attimo sembrano osservare questo mondo senza speranza da una posizione privilegiata, prima di venire travolti a loro volta dall’impietoso destino che Yoshihiko Matsui ha deciso di riservargli.

I personaggi principali si ritrovano tutti, prima o poi, attorno ai magazzini di una stazione, lo stesso luogo dove si trova un edificio la cui terrazza è stata scelta da Iwashita come “casa”. Quella che in un primo momento pare essere la storia di un assassino sociopatico, che prova piacere nel mutilare, si trasforma nel disturbante ritratto corale delle varie facce delle disperazione: da un lato, quella di personaggi completamente estranei alla cosiddetta normalità sociale, abbruttiti dal punto di vista fisico (come i due nani) e/o psicologico e morale (Iwashita, il senzatetto), dall’altro quella di persone dal percorso terreno, per sfortuna o per scelta, non convenzionale (i giovani amanti in fuga dalla famiglia). I loro bisogni e desideri sono strani, immorali, come la ricerca di sesso spesso spasmodica, che forse altro non è che una ricerca di comunione carnale con un altro essere laddove quella spirituale è o sembra preclusa, forse è nient’altro che la tensione verso una forma d’amore, l’unica possibile. Ed ecco per esempio che Iwashita (ex soldato e nazionalista, questo il poco che si sa di lui), che odia le donne, prende come compagna un manichino, che però tratta come una donna in carne ed ossa: le mette un anello al dito, le prepara un “talamo nuziale” e cerca di renderla madre per formare con lei la grottesca caricatura di una vera famiglia. Questa carrellata di personaggi che rappresenta il “lato oscuro” della società giapponese si muove nell’ombra, (soprav)vive accanto a coloro che hanno una vita normale in una casa normale, con amori normali, inconsapevole o indifferente a quest’altra vita che gli scorre a fianco (e viceversa). E parallelamente si fa strada l’idea che la società tutta sia marcia, malata (vedesi gli uomini che si eccitano alla vista del corpo della ragazza nana perché gli ricorda quello di una bambina, sebbene sia orribilmente deturpato da cicatrici, o le donne anziane e le altre persone che la deridono sull’autobus, eccetera): al mondo non c’è bontà, né bellezza né armonia, se non quella insita nella natura (in una giornata d’estate, nella pace di un prato assolato).
In una società dove ci si aspetta che ognuno abbia un posto ben preciso queste persone costituiscono un’anomalia, eppure forse, semplicemente, la vita è vita e non c’è differenza tra una vita bella e una brutta, perché entrambe hanno la stessa probabilità di risultare felici o infelici. La coppia di nani, nonostante la disponibilità economica, è infelice al punto da non voler nemmeno concepire l’esistenza dell’aldilà (la sorella è prigioniera tanto quanto l’uccellino che tiene in gabbia). Iwashita invece è felice e fa progetti per un futuro con sua “moglie” e con il “bambino” che sta per nascere.

Eppure, nonostante l’apparenza, The Noisy Requiem è un film di innegabile bellezza. La grandiosità di alcune immagini viene scolpita nel cervello dello spettatore e lì rimane, per giorni e giorni. Non solo le immagini più crude e scioccanti, ma anche quelle che al momento sembrano più insignificanti penetrano nella corteccia cerebrale e si fanno largo, crescendo con il trascorrere del tempo e quindi cementificandosi, verso l’inevitabile affermazione del sublime. Questo sicuramente è merito di tecniche di ripresa spesso inusuali, che il regista utilizza per sottolineare la drammaticità di alcuni passaggi. Ma è il sapiente uso dei chiaroscuri, soprattutto, il dettaglio che riesce ad elevare The Noisy Requiem allo status di capolavoro. In una scena indimenticabile, Iwashita si allontana lasciando incustodito il suo manichino (che già porta nel ventre il “frutto” del suo amore malato). Un altro disperato (il senzatetto) cercherà di approfittare sessualmente del manichino, ignorando che il legittimo proprietario ha provveduto ad inserire, in via precauzionale, dei cocci di vetro nei suoi orifizi. La scena che seguirà sarà una delle più orrende da affrontare per il pubblico maschile. Si attendono urla laceranti, ma le uniche che si odono provengono da questo lato dello schermo, dalle bocche di noi poveri spettatori. Yoshihiko Matsui, con una grande intuizione stilistica, decide che non serve a nulla sottolineare un dolore simile con un ovvio grido. Lascia il sonoro in sottofondo, ma abbassa molto i toni, e lascia spazio alla luce. Sceglie quindi di saturare il bianco, ci abbaglia e mantiene questo stato per diversi minuti, non meno di quanti ne servano a noi maschietti smarriti per renderci conto che ciò che è successo era solo una finzione, e che almeno per stavolta i nostri attributi sono ancora integri al loro posto.

Com’è facile intuire, alla fine a prevalere è il caos, o meglio il caso. [SPOILER] Iwashita finisce vittima di un banale incidente, mentre la ragazza nana manda in fumo la terrazza dopo avere, in una delle scene più surreali del film, fatto “abortire” il manichino; la morte divide la sorella e il fratello e la coppia di amanti [FINE SPOILER]. Sono epiloghi tragici, apparentemente senza senso per vite altrettanto banali, perché la vita raramente è eccezionale o epica, più spesso è una sequenza di atti ripetitivi, monotoni, senza peso, proprio come in questo film vengono ripetuti atti, parole, scene, forse non più tristi e squallidi di quelli messi in scena dalla “gente normale” che resta sullo sfondo, solo colmi di una disperazione di fondo scaturita da menti che nel profondo sono consapevoli della propria diversità. Per nulla rassicurante, ma sento che c’è qualcosa di ben più profondo nell’opera di Matsui di un semplice inno alla diversità e all’emarginazione. Qualcosa che forse ha pienamente senso solo per chi i luoghi del film li conosce o li ha conosciuti davvero. Il fatto che The Noisy Requiem abbia fatto capolino una sola volta oltre i confini del suo paese (con dieci anni di ritardo, in Danimarca), ma immediatamente ritirato, per volere dello stesso regista, potrebbe essere un indizio. 

6 commenti:

  1. Non c'entra molto con il post, ma ho una cugina che domani, domenica, si trasferisce definitivamente in Giappone. E tutto quello che ha a che fare con il Giappone in questo momento mi riconduce automaticamente a lei.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Definitivamente? Una scelta coraggiosa, senza dubbio, anche perché il Giappone non è sempre quello affascinante che di vede nelle xilografie di Hokusai. Però capisco perfettamente l'attrazione che si può provare da qualcosa di così tanto diverso da noi. P.S.:Una lettura interessante che mi sento di consigliarti è "Giorni giapponesi" di Angela Terzani Staude (ti racconta il Giappone visto con gli occhi di un occidentale che si è trasferito laggiù).

      Elimina
  2. Eccolo qui, il post è tornato :)
    Lo stavo già commentando qualche giorno fa... maledetti blogroll!! XD
    In ogni caso... è un film che voglio vedere. Non lo conoscevo affatto, e mi sembra abbastanza labirintico e malato da potermi piacere^^

    Moz-

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Il fatto che tu abbia gusti labirintici e malati mi inquieta un attimino....

      Elimina
  3. Certe produzioni giapponesi sanno essere davvero crude, tipo Testsuo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Tetsuo! Hai citato uno dei più grandi esempi del cyberpunk degli ultimi cent'anni! The Noisy Requiem non se ne discosta molto come atmosfere, anche se Shinya Tsukamoto, va detto, vive però su di un altro pianeta!

      Elimina

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...