mercoledì 22 febbraio 2017

Outbox (Pt.3)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Erano ormai ore che vagavo disperatamente per i corridoi con quella dannata busta in mano. Ormai doveva essere pomeriggio inoltrato, considerando che quella mia prima sensazione di appetito si era trasformata in una fame nera per poi lentamente scivolare in una rassegnata indifferenza.
Non ancora rassegnata era invece la mia speranza di uscire vivo da quell’incubo: sordo a tutti i lamenti che ormai da tempo i miei piedi stanchi trasmettevano al mio cervello, continuavo a procedere silenziosamente fra i tanti corridoi tutti uguali, tutti egualmente ricoperti da strati di vecchia corrispondenza, evidentemente calpestata da generazioni di impiegati nel corso degli anni.
Raccolsi alcune di quelle buste da terra e le esaminai: non erano molto diverse da quella che avevo in mano e che mi affannavo a portare chissà dove. Ormai non era più solo una questione di principio, ma era diventata anche qualcosa di diverso: si faceva largo in me la volontà di salvare quel documento che, non per sua volontà, era stato per tutto il giorno il mio fedele compagno. L’avrei salvato dal destino che, a quanto pareva, aveva segnato migliaia di altri suoi simili tutto attorno a me. Infine, dopo la miliardesima svolta, mi ritrovai davanti agli occhi l’imprevedibile. Diciamo pure che quasi gli sbattei contro, tale era la foga di uscire da quell’incubo che mi aveva preso.
Charon, colui che mi aveva traghettato in quel luogo infernale e che mi aveva dato le prime indicazioni, era a un palmo dal mio naso e mi sorrideva incredulo. Ricambiai il sorriso senza troppa convinzione, tentato più che altro di prenderlo a pugni. Trattenni il mostro dentro di me e aprii la bocca per rivolgergli la parola. - E adesso? – gli chiesi – Adesso cosa? – replicò con tono saccente. – Adesso credo sia il momento delle spiegazioni... voglio dire... che mi venga spiegato quale dovrebbe davvero essere il mio lavoro... e che cosa mai rappresenta questo luogo.
Non c’era granché da spiegare, compresi un secondo dopo che mi ebbe preso sottobraccio e invitato a gettare la busta, che stringevo ancora gelosamente tra le mani, dentro uno scatolone aperto che ne conteneva già qualche centinaia. Tentennai per un solo istante, poi compresi che discutere non sarebbe servito a nulla. Diedi solo un’ultima occhiata al timbro più recente, posto quello stesso giorno proprio sotto ai miei occhi, e poi lasciai andare per sempre il frutto del mio lavoro.
Per quanto tempo nessuno sarebbe più andato a scavare in quello scatolone? Per quanto altro tempo ancora il destinatario di quella missiva avrebbe dovuto aspettare? In fondo, cosa importava? A chi importava? Per quanto ne sapevo quel destinatario, così come quel mittente, potevano benissimo essere morti da tempo e, se non tali, di sicuro non avevano più alcun ricordo di quell’oggetto imprigionato nel tempo. Nessun ricordo e nessun interesse.
Sentii la sua mano stringermi lievemente il braccio e, con tale gesto, un sottinteso invito a incamminarmi con lui. Non feci nulla per resistere e accompagnai il suo movimento. Non mi venne in mente nemmeno per un istante di voltarmi per lanciare un’ultima occhiata a ciò che mi stavo lasciando dietro. Ormai ero stato implicitamente sollevato da quel mio primo incarico.
Credo di non aver mostrato alcun segno di stupore nell’accorgermi che, a non più di pochi passi da dove mi trovavo ora, c’era l’ingresso, quello stesso ingresso dove tutto era iniziato. Voltai la testa verso il carrello dal quale avevo prelevato la mia busta solo poche ore prima. Era sempre lì, stracolmo di corrispondenza, fogli di carta appartenuti a dio solo sa chi in un qualche indecifrabile passato, documenti in attesa che qualcuno dei tanti silenziosi impiegati se ne prendesse cura. Osservai uno dopo l’altro quei bizzarri personaggi pescare a casaccio in quel bizzarro contenitore su ruote e allontanarsi quasi in fila indiana verso il corridoio che io stesso avevo infilato la prima volta. Mi parve di riconoscere anche il tizio di prima, ma non ne ero sicuro.
Ma, porco diavolo, c’era una cosa che ancora non mi spiegavo. Come mai a nessuno veniva semplicemente in mente di prendere il carrello e portarlo con tutto il suo contenuto dalla vecchia con i capelli biondi? Provai a esprimere il mio dubbio con le parole, ma non ve ne fu bisogno. Charon sembrò leggermi nel pensiero e, con uno sguardo elettrico, mi vomitò addosso la sua furia. – Ma allora non hai proprio capito niente? – mi sorprese. Ma io in quel preciso momento avevo iniziato a capire. Fu forse proprio in quel momento che compresi il significato del termine “kafkiano”. Guardai l’orologio e, trattenendo un grido di orrore, ne ebbi conferma. Erano ancora solo le otto e due minuti. Davanti a me c’era ancora un’intera giornata di lavoro. Praticamente un'eternità.
FINE

Immagine dal film "Nella colonia penale" (Zoetrope, 1999), di Charlie Deaux, dal racconto di F. Kafka.

22 commenti:

  1. Bel racconto, complimenti! Allora hai cambiato lavoro? :-D

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    1. No, lavoro sempre qua, ma sono sicuro che qualche strizzacervelli potrebbe tirarne fuori qualcosa di interessante da ciò che ho scritto.

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  2. Il finale è in linea col racconto: più Kafkiano di così. :D
    Avendo dovuto combattere spesso con la burocrazia italica non ho potuto non apprezzare. ;)
    Ribadisco anche che a parte il finale per molte cose il tuo racconto mi ha ricordato almeno un colloquio di lavoro che ho sostenuto recentemente.

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    1. Il finale, nel senso del tempo che non passa, invece io l'ho sperimentato un sacco di volte al lavoro.

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  3. Bellissimo TOM, hai dato un senso alla posta smarrita, alla burocrazia, al lavoro d'ufficio quasi da automa... e lo hai fatto kafkianamente (e un po' oniricamente)^^

    Moz-

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  4. Sì, hai scritto un Kafka apocrifo praticamente, un omaggio al maestro dell'angoscia "burocratica" che talvolta opprime la vita dei cittadini delle nazioni civilizzate.

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    1. ... e non stupisce che queste idee vengono in sogno, dove le nostre angosce si amplificano.

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  5. Impressionante senso di inluttabilità e ripetitività.Ricordo che quando ero bambina mi aveveno terrorizzata, i cari adulti, dicendomi che se non avessi mangiato il pane in tavola, sarei stata destinata a raccogliere il pane sprecato con un cestino senza fondo.
    Come scrivi bene!
    Cristiana

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    1. Terrificante questa immagine del cestino senza fondo. Complimenti a chi l'ha inventata.

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  6. Bel finale, complimenti. È l'eternità che sgomenta e anche l'orologio che segna un tempo interminabile al quale è impossibile sfuggire. Kafkianissimo. ;)

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    1. L'idea era appunto quella di imprigionare il protagonista nello stesso modo in cui tutto attorno a lui era già imprigionato. Ammetto però che la chiusura mi è venuta strada facendo e non ne sono nemmeno del tutto soddisfatto.

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  7. C'è da dire che lo stile narrativo maschile riesce a essere quasi sempre un tantino più efficace di quello femminile. Una prosa "asciutta" che mi è piaciuta.
    Riguardo al finale, sappi che un sospetto l'ho avuto fin dall'inizio. :)

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    1. C'erano due indizi importanti nella prima parte che potevano far pensare a qualcosa di infernale: la pozzanghera, che ho definito larga quanto lo Stige, e il nome dell'antagonista, il cui nome richiama vagamente quello del celeberrimo traghettatore. Sono serviti a innescare i tuoi sospetti oppure sono passati inosservati?

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    2. Sono serviti! ^^ E molto molto carino, apprezzo anche io la prosa asciutta!

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    3. In quei dettagli avevo visto già qualcosa che sconfinava nell'impossibile, ma poi tutto, in generale, sembrava "visionario". Insomma, se questo era l'intento, chapeau!

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    4. Ci ho provato e mi è andata bene, almeno a giudicare dai vostri commenti. Grazie! :DDD

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  8. Il finale è stato all'altezza delle due pagine precedenti. E forse con questo racconto hai addirittura inaugurato un nuovo genere: il gotico kafkiano.

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    1. Gotico kafkiano! Mi piace! Ci metto il copyright! eheheh

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  9. Meno male che non è ambientato in Italia: il protagonista si sarebbe fatto timbrare il cartellino da qualcun altro e sarebbe uscito, e addio kafkianità...

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    1. In Italia certi luoghi di lavoro sarebbe deserti, infatti. La kafkianità qui non è di casa.

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