Un giorno vi parlerò meglio del mio bisogno fisiologico di leggere libri complessi, stratificati, che spesso finiscono all’improvviso, brutalmente, così come sono cominciati, senza tirare i fili rimasti pendenti fino a una conclusione logica, senza offrire il conforto di una spiegazione univoca, quasi come se l’autore stesso, a un certo punto, si fosse arreso al Caos (giudicherete voi stessi, se proseguirete nella lettura, l’ironia intrinseca nella questione in questo caso specifico).
E spiegherò anche, se mai io stesso arriverò a scoprirlo, come mai sono proprio questi i libri che più degli altri continuano a girarmi e rigirarmi nella mente finché non decido di parlarne, gettando fuori i miei pensieri come se fossero un veleno che alla lunga rischierebbe di intossicarmi.
Eccomi oggi alle prese con “Cosmo” (1965) di Witold Gombrowicz, un romanzo denso quanto inafferrabile nella sua essenza che lo scrittore Michele Mari ha definito “uno dei quattro o cinque libri più belli del Novecento”. Non posso confermare quanto affermato da Mari, non so onestamente giudicare se questo sia vero o meno, posso dire però che ho letto il romanzo tutto d’un fiato e che neanche per un attimo, a dispetto della sua stranezza, mi sono annoiato o domandato se ne valesse la pena.
C’è molta filosofia in questo libro, me ne sono accorto perfino io che di certo non sono un filosofo, e me ne sono accorto ben prima di leggere le note critiche nella postfazione. Il punto è che, per molti versi, ho riconosciuto me stesso nei due protagonisti Witold e Fuks, e non tanto perché io mi riconosca una personalità altrettanto ossessiva, ma perché credo che un certo grado di ossessione sia insito in tutta l’umanità; in un certo senso, è l’ossessione umana ad aver creato il progresso.