René Magritte, I valori personali, 1952, olio su tela |
Oggi invece quell’elemento è… semplicemente un oggetto, e questo rende l’esperimento particolarmente intrigante, perché le case e gli ambienti in cui tutti noi viviamo quotidianamente sono ricolmi di oggetti, e di conseguenza anche la letteratura è piena di descrizioni degli oggetti più disparati: oggetti di uso comune, oggetti insoliti, oggetti magici… La scelta è ampia e pertanto dovrebbe anche essere semplice, ma sappiamo bene che teoria e pratica sono due cose molto diverse. Per rendere le cose ancora più complesse, Cristina ha scelto quattro oggetti uniti tra loro dal fatto di essere in qualche modo legati al corpo umano, e in particolar modo al viso. Un suo secondo post, uscito proprio sabato scorso, è stato invece dedicato ai giochi, intesi sia come oggetti che come intrattenimenti. Anche i miei tre oggetti hanno un legame, che vi lascio scoprire da soli e che svelerò solo alla fine del post. Per quando riguarda l’aspetto letterario, la mia scelta è ricaduta su un racconto e due romanzi vintage (uno dei quali è in realtà un romanzo breve), che vi presento in rigoroso ordine cronologico. Come sempre, invece, i dipinti prescelti sono quelli che mi trasmettono sensazioni il più possibile affini a quelle sperimentate durante la lettura delle opere, e non necessariamente quelli in cui gli oggetti appaiono più aderenti a come sono descritti.
1. La statua
Il racconto “La venere d’Ille” (La Vénus d’Ille) fu pubblicato da Prosper Mérimée nel 1837 e una sua traduzione è inclusa nella raccolta “Carmen e altri racconti” edita da Einaudi (la stessa che possiedo io, che però è piuttosto datata e tradotta in un italiano un po’ più arcaico delle varie versioni reperibili in rete, come vedrete).
La venere del titolo è una statua di rame, un prezioso reperto ritrovato da Monsieur de Peyrehorade nei pressi della città d’Ille. La vicenda è narrata in prima persona da un artista, cui un amico ha raccomandato de Peyrehorade per farsi mostrare le rovine e i monumenti nei dintorni d’Ille, e che piomba in casa del suo ospite proprio quando il matrimonio di suo figlio Alphonse è imminente. De Peyrehorade però è un ospite perfetto e non solo non si mostra infastidito da quell’estraneo che fa la sua comparsa in un momento così importante, ma addirittura lo invita a partecipare alla festa di nozze e si appresta subito a mostrargli la sua straordinaria scoperta che è, appunto, una statua di Venere.
Il primo incontro ravvicinato del narratore con la statua è già foriero di oscuri presagi:
Era proprio una Venere, e d’una bellezza meravigliosa. Aveva la parte superiore del corpo nuda, come gli antichi rappresentavano abitualmente le grandi divinità; la mano destra, levata all’altezza del seno, era rivolta con la palma in dentro, il pollice e le due dita vicine distese, le altre due dita leggermente piegate. L’altra mano, accosto al fianco, reggeva il drappeggio che copriva la parte inferiore del corpo. L’atteggiamento della statua ricordava quello del Giocatore di morra, che, non so bene perché, si suol designare col nome di Germanico. Forse avevano voluto raffigurare la dea mentre giocava alla morra. […]
La capigliatura, rialzata sulla fronte, pareva essere stata un tempo dorata. La testa, piccola come in quasi tutte le statue greche, era leggermente inclinata in avanti. Quanto al volto, non potrei mai riuscire ad esprimere lo strano carattere, che non si accostava ad alcun tipo di statua antica ch’io possa ricordare. Non si trattava affatto di quella calma e severa bellezza degli scultori greci che, sistematicamente, davano ad ogni tratto una maestosa immobilità. Al contrario qui osservavo con sorpresa l’intenzione palese dell’artista di rendere la malizia, giungendo quasi alla cattiveria. Tutti i lineamenti erano leggermente contratti: gli occhi un po’ obliqui, le labbra rialzate agli angoli, le narici un po’ dilatate. Disprezzo, ironia, crudeltà, si leggevano su quel volto che pure era di una bellezza incredibile. In verità, più si guardava quell’ammirevole statua, e più si aveva il sentimento penoso che una tale meravigliosa bellezza avesse potuto unirsi all’assenza di ogni sensibilità. [...]
Quell’espressione d’ironia infernale era forse accresciuta dal contrasto degli occhi incrostati d’argento e assai splendenti, con la patina di un verde nerastro che il tempo aveva dato all’intera statua. Quegli occhi splendenti davano una certa illusione che ricordava la realtà, la vita. Ripensai a quel che m’aveva detto la mia guida, che essa faceva abbassar gli occhi a chi la guardava. Era quasi vero, e io non potei difendermi da un moto di collera verso me stesso sentendomi un poco a disagio dinanzi a quel volto di bronzo.
René Magritte, La memoria, 1948, olio su tela |
Quella “malizia” che sfiora la “cattiveria” viene sintetizzata da Monsieur de Peyrehorade con il motto Veneris nec praemia noris: chi non è stato ferito da Venere? Ne farà le spese il giovane Alphonse, che durante una partita di tamburello ha la malaugurata idea di infilare l’anello di diamanti destinato alla sua promessa sposa all’anulare della statua. In seguito, la Venere sembra restia a restituire quanto le è stato dato… «È una fiaba!» gli dissi. «Avete spinto con troppa forza l’anello nel dito. Domani lo riavrete usando le tenaglie. Ma state attento a non rovinare la statua.»
«No, vi dico. Il dito della Venere s’è ritirato, sé ripiegato; chiude la mano, capite?… È mia moglie, a quanto sembra, poiché le ho regalato il mio anello... Non lo vuole più restituire.»
“La venere d’Ille” fu adattato per la tivù nel 1981 nell’ambito di una miniserie in 6 episodi dal titolo "I giochi del diavolo. Storie fantastiche dell'Ottocento”. Tutti gli episodi erano tratti da altrettanti racconti di genere fantastico dell'Ottocento, ma, almeno in questo caso, il legame fra il racconto di Mérimée e la sua trasposizione sembra piuttosto labile. L’unico dato degno di nota è la regia di Mario Bava (e la partecipazione di Daria Nicolodi nella parte di Clara, moglie di Alphonse… pardon, di Alfonso).
Dovrei, a questo punto, proporvi un dipinto che raffiguri Venere, il che sarebbe tecnicamente piuttosto facile, e anche decisamente banale. Molto più difficile è invece il cercare di proporvi una statua di Venere, possibilmente inerente a quella idata da Mérimée. Stringi stringi la scelta non poteva che ricadere sulla più celebre versione di un dipinto di René Magritte, rappresentante la testa di una statua, con un accenno di sorriso, posta su un davanzale di fronte ad un paesaggio che varia nelle diverse versioni di questo quadro. L’elemento chiave della mia scelta, oltre ovviamente alla statua stessa, è quella chiazza di sangue che si nota sulla tempia destra: sangue che, a giudicare dalla disposizione degli schizzi, non sta sgorgando dalla statua ma proviene da qualcuno che si trovava nelle sue vicinanze. Un omicidio al quale la statua ha assistito, immobile e silenziosa?
2. Il ritratto
La seconda opera che vi propongo è “Il cuore rubato” di Gaston Leroux: pubblicata su una rivista con il titolo “La Hache d'or” nel 1912, ricomparve dieci anni più tardi come “Le Cœur cambriolé”.
La storia è quella di Hector e Cordélia, promessi sposi fin dall’infanzia. Si tratta di tutto fuorché di un fidanzamento imposto, il loro, perché i due, che sono cugini, si amano da sempre. A tempo debito il matrimonio viene celebrato, ma la tranquillità dei due sposini è destinata a durare ben poco, perché un pittore inglese, invaghitosi della giovane donna mentre Hector era in viaggio, si mette fra loro. Da quel momento in avanti, nulla sarà più come prima.
Questo misterioso personaggio è un conoscitore dell’occulto che non esita a usare i suoi poteri per attirare a sé Cordélia. Il primo viatico della sua influenza sulla giovane è un ritratto, dipinto da lui stesso, che rappresenta Cordélia, e che le viene recapitato come dono di nozze accompagnato da un biglietto anonimo. Un ritratto che sembra cogliere, oltre alle sue caratteristiche fisiche, la sua stessa aura.
Era un ritratto, quello di Cordélia… ma che ritratto! Era un’immagine meravigliosamente radiosa, sembrava dipinta con le luci più dolci, era assolutamente impossibile capire per quale sortilegio di colori, un essere umano, che non disponga che dei suoi pennelli e di ciò che spreme da tubetti di stagnola, fosse giunto a fissare sulla tela una simile ideale figura. Non avevo mai visto niente che mi potesse far sospettare un’arte simile. Eppure ho avuto occasione di visitare, con il bel mondo parigino che vi si divertiva, una o due esposizioni di pitture che venivano considerate innovative e pretendevano di rivoluzionare l’arte. Vi erano delle figure simboliche o magari disegni di fantasmi: insomma, una gran buffonata! Espressi il mio parere senza peli sulla lingua, tanto peggio per coloro che se ne potevano risentire. Generalmente quelle figure erano avvolte da una nube di saggezza dietro la quale brillava una luce bizzarra e incerta. Ma qui, cercate di capire il miracolo: era la figura stessa a irradiare luce senza alcun trucco intermedio. Il pittore era riuscito a far vedere all’occhio umano ciò che esso di solito non scorge affatto, ovvero la luce invisibile che il corpo irradia intorno a sé. […] In breve, in quel folgorante ritratto, sembrava che l’anima di Cordélia venisse a salutarvi con un sorriso celeste che precedeva le sue labbra carnali. Ormai capivo cosa intendeva dire quando mi scriveva: «c’è altro da mettere in un ritratto oltre le linee del volto, per esempio, il disegno dell’anima!»
Tuttavia questo piccolo espediente, quella che sembra una semplice magia di contatto operata tramite il quadro, è solo il primo tassello di una spietata strategia dell’uomo, Patrick – una strategia svelata ad Hector dal dottor Thurel, che snocciolando termini come aura, poligono, esteriorizzazione dell’aura, consente all’Autore di sfiorare vertici di (voluta) comicità.
Per poter suggestionare Cordélia, Patrick dev’essere non troppo lontano da lei: comincia così il suo estenuante inseguimento dei due sposini in luna di miele. Quando il corpo di Cordélia è avvinto dall’immobilità del sonno, il suo spirito se ne distacca e lei si ritrova a vivere, benché inconsapevolmente, una vita parallela a quella coniugale, ma la cosa strana è che, col passare del tempo, sembra sempre meno impaurita da questa situazione...
Leroux scrisse questo romanzo decisamente surreale, che viene definito un “noir fantastico” perché mischia la letteratura poliziesca con elementi fantastico-onirici e qualche tocco gotico, proprio nel momento storico in cui le teorie psicanalitiche di Freud si stavano imponendo, perciò il dubbio che essa contenga elementi psicologici oltre che chiari riferimenti all'occulto è più che legittimo, soprattutto alla luce del comportamento della moglie, di quella che potremmo definire l'arrendevolezza di Cordélia nei confronti dell'intrusione così violenta da parte di un estraneo nella sua vita matrimoniale. La trama del romanzo è forse meno semplice di come appare in realtà, perché questo terzo incomodo del quale non sappiamo quasi nulla, e che conosciamo solo grazie alle parole di Hector, che della storia è il narratore, potrebbe benissimo essere il suo alter ego, o forse un'identità secondaria tramite la quale il borghese, razionale Hector fa trapelare caratteristiche inespresse e magari anche censurate (e censurabili) della sua personalità. Questo farebbe di Cordélia non una banale adultera, ma un personaggio moderno e complesso incapace di scegliere fra due “modelli” di personalità entrambi, a turno, seducenti e respingenti.
Teoricamente dovrei a questo punto proporvi un dipinto che raffiguri un altro dipinto, no? La scelta, a mio parere quasi ovvia, ricade nuovamente su Magritte e su una delle sue numerose opere incentrate sul tema del quadro nel quadro. In questo senso, se pensiamo ai protagonisti del romanzo, mi pare anche centrato l'accostamento col sottile gioco che Magritte instaura tra l’essere e l’apparire, tra la verità oggettiva e quella assoluta. Se la prima impressione è che il panorama oltre la finestra sia reale, l’osservatore non può fare a meno di chiedersi se anche questo sia finzione, in quanto facente parte del quadro d’insieme che sta osservando; una finzione ulteriormente sottolineata dalla forma conica della torre merlata a richiamare la strada rappresentata in prospettiva sulla destra.
La storia è quella di Hector e Cordélia, promessi sposi fin dall’infanzia. Si tratta di tutto fuorché di un fidanzamento imposto, il loro, perché i due, che sono cugini, si amano da sempre. A tempo debito il matrimonio viene celebrato, ma la tranquillità dei due sposini è destinata a durare ben poco, perché un pittore inglese, invaghitosi della giovane donna mentre Hector era in viaggio, si mette fra loro. Da quel momento in avanti, nulla sarà più come prima.
Questo misterioso personaggio è un conoscitore dell’occulto che non esita a usare i suoi poteri per attirare a sé Cordélia. Il primo viatico della sua influenza sulla giovane è un ritratto, dipinto da lui stesso, che rappresenta Cordélia, e che le viene recapitato come dono di nozze accompagnato da un biglietto anonimo. Un ritratto che sembra cogliere, oltre alle sue caratteristiche fisiche, la sua stessa aura.
Era un ritratto, quello di Cordélia… ma che ritratto! Era un’immagine meravigliosamente radiosa, sembrava dipinta con le luci più dolci, era assolutamente impossibile capire per quale sortilegio di colori, un essere umano, che non disponga che dei suoi pennelli e di ciò che spreme da tubetti di stagnola, fosse giunto a fissare sulla tela una simile ideale figura. Non avevo mai visto niente che mi potesse far sospettare un’arte simile. Eppure ho avuto occasione di visitare, con il bel mondo parigino che vi si divertiva, una o due esposizioni di pitture che venivano considerate innovative e pretendevano di rivoluzionare l’arte. Vi erano delle figure simboliche o magari disegni di fantasmi: insomma, una gran buffonata! Espressi il mio parere senza peli sulla lingua, tanto peggio per coloro che se ne potevano risentire. Generalmente quelle figure erano avvolte da una nube di saggezza dietro la quale brillava una luce bizzarra e incerta. Ma qui, cercate di capire il miracolo: era la figura stessa a irradiare luce senza alcun trucco intermedio. Il pittore era riuscito a far vedere all’occhio umano ciò che esso di solito non scorge affatto, ovvero la luce invisibile che il corpo irradia intorno a sé. […] In breve, in quel folgorante ritratto, sembrava che l’anima di Cordélia venisse a salutarvi con un sorriso celeste che precedeva le sue labbra carnali. Ormai capivo cosa intendeva dire quando mi scriveva: «c’è altro da mettere in un ritratto oltre le linee del volto, per esempio, il disegno dell’anima!»
René Magritte, Le passeggiate di Euclide, 1955, olio su tela |
Per poter suggestionare Cordélia, Patrick dev’essere non troppo lontano da lei: comincia così il suo estenuante inseguimento dei due sposini in luna di miele. Quando il corpo di Cordélia è avvinto dall’immobilità del sonno, il suo spirito se ne distacca e lei si ritrova a vivere, benché inconsapevolmente, una vita parallela a quella coniugale, ma la cosa strana è che, col passare del tempo, sembra sempre meno impaurita da questa situazione...
Leroux scrisse questo romanzo decisamente surreale, che viene definito un “noir fantastico” perché mischia la letteratura poliziesca con elementi fantastico-onirici e qualche tocco gotico, proprio nel momento storico in cui le teorie psicanalitiche di Freud si stavano imponendo, perciò il dubbio che essa contenga elementi psicologici oltre che chiari riferimenti all'occulto è più che legittimo, soprattutto alla luce del comportamento della moglie, di quella che potremmo definire l'arrendevolezza di Cordélia nei confronti dell'intrusione così violenta da parte di un estraneo nella sua vita matrimoniale. La trama del romanzo è forse meno semplice di come appare in realtà, perché questo terzo incomodo del quale non sappiamo quasi nulla, e che conosciamo solo grazie alle parole di Hector, che della storia è il narratore, potrebbe benissimo essere il suo alter ego, o forse un'identità secondaria tramite la quale il borghese, razionale Hector fa trapelare caratteristiche inespresse e magari anche censurate (e censurabili) della sua personalità. Questo farebbe di Cordélia non una banale adultera, ma un personaggio moderno e complesso incapace di scegliere fra due “modelli” di personalità entrambi, a turno, seducenti e respingenti.
Teoricamente dovrei a questo punto proporvi un dipinto che raffiguri un altro dipinto, no? La scelta, a mio parere quasi ovvia, ricade nuovamente su Magritte e su una delle sue numerose opere incentrate sul tema del quadro nel quadro. In questo senso, se pensiamo ai protagonisti del romanzo, mi pare anche centrato l'accostamento col sottile gioco che Magritte instaura tra l’essere e l’apparire, tra la verità oggettiva e quella assoluta. Se la prima impressione è che il panorama oltre la finestra sia reale, l’osservatore non può fare a meno di chiedersi se anche questo sia finzione, in quanto facente parte del quadro d’insieme che sta osservando; una finzione ulteriormente sottolineata dalla forma conica della torre merlata a richiamare la strada rappresentata in prospettiva sulla destra.
3. Il manichino
Del 1921 è invece “Le mani di Orlac” (Les Mains d’Orlac) di Maurice Renard, in cui un famoso pianista e la sua consorte sono i personaggi principali di una storia che viene talora definita horror, ma che ha più che altro le caratteristiche di un giallo, o meglio di un poliziesco, nel quale però non mancano elementi tipici del fantastico.
Questo romanzo dall’atmosfera inevitabilmente retro è pur sempre un classico che sa avvincere ed emozionare a dovere, peccato solo che l’edizione più recente, a cura di Profondo Rosso, contenga fin troppi refusi per il prezzo a cui viene proposta (ben 19 euro) – un esempio, e nemmeno dei più fastidiosi, è il cognome Crepin, che talora diventa Crèpin, Crépin, Crèvin e chissà cos’altro. Ma tant’è.
Stéphen Orlac è fra le vittime di uno spaventoso incidente ferroviario: si salva a stento grazie alla sua giovane moglie, che lo affida alle cure di un famoso luminare, il Dottor Cerral, ma le sue mani sono gravemente compromesse e nonostante la lunga e faticosa riabilitazione è chiaro che non potranno mai più suonare il piano come prima. Mentre sua moglie Rosine si trova da un lato a dover gestire un patrimonio familiare che si assottiglia inesorabilmente, e dall’altro a fronteggiare bizzarri e agghiaccianti avvenimenti, Stéphen alimenta l’ossessione per le sue mani creando una “camera delle mani” nella quale trascorre la maggior parte del suo tempo.
Quando un amico di famiglia viene assassinato, appare chiaro che ci sono forze all’opera contro di loro, perché l’uomo era in procinto di svelare a Rosine una verità che la riguarda molto da vicino. Ma le circostanze del crimine sono così strane che la vicenda resta a lungo sospesa fra reale e soprannaturale: l’arma del delitto è un manichino dei più grossolani che l’uomo, pittore e convinto spiritista, teneva nel suo appartamento-atelier al secondo piano di un palazzo di proprietà del padre di Stéphen, e a cui aveva ritoccato il viso (quegli occhi verde chiaro, quel pelo rosso, le sopracciglia biforcute che risalivano sulla fronte, il piccolo baffo conquistatore e la barbetta biforcuta...) per farlo rassomigliare al Mefisto del “Faust”.
Privato del suo bel completo bianco, Oscar era solo un grande manichino rudimentale. La sua testa di cartone, sfondata a colpi di bastone, presentava al suo interno il vuoto più completo. Il suo corpo, che sembrava tenuto insieme da una maglia di tela strettamente cucita, era composto da un leggero scheletro imbottito di canapa. Le giunture, incavicchiate, non possedevano alcun meccanismo. Le mani, una volta smontate, si riducevano a frammenti di legno. Non c’era spazio per un’armatura in cui un nano malfattore avesse potuto nascondersi, perché le membra erano piene e la cavità toracica era inabitabile, fosse anche da un nano. Nulla nemmeno di un automa, perché nessuna macchina era alloggiata nel cavo del torso o nello spessore dell’imbottitura. Niente fili conduttori di corrente, nessun gancio, nessuna traccia di un trucco qualsiasi. Un manichino e basta. Neanche una marionetta.
Oscar è davvero un comune manichino o è qualcosa di più? È davvero possibile che uno spirito abbia trovato il modo di impossessarsene e di uccidere per suo tramite? E se così fosse, a quale scopo l’avrebbe fatto? L’ispettore Cointre sembra scettico e così anche Rosine, che mantiene il segreto sui recenti avvenimenti che l’hanno turbata non sapendo che suo marito, a sua volta, ha parecchio da nascondere. Per esempio, perché la camera delle mani è sempre chiusa a chiave? E perché quei continui incubi, o visioni, che perseguitano entrambi i coniugi? Ma soprattutto, chi è la Banda degli Infrarossi?
In questa vicenda dove niente è quello che sembra, l’abilità di Renard sta nel creare una soluzione in aspettata e convincente e perfino commovente, che salva insomma capra e cavoli. Ma non dico altro, così che, se lo vorrete, e naturalmente se già non conoscete il romanzo, possiate godervi la suspense fino all’ultima pagina.
In questo caso, gli adattamenti cinematografici che nel corso del tempo sono stati ricavati dall’opera sono addirittura quattro: “Le mani dell'altro” (Orlacs Hände, 1924) di Robert Wiene, “Amore folle” (Mad Love, 1935) di Karl Freund, “Le mani dell'altro” (The Hands of Orlac, 1961) di Edmond Gréville e “Le mani dell'assassino” (Hands of a Stranger, 1962) di Newton Arnold.
Sarò banale, o forse è solo che mi piace vincere facile, ma per rappresentare il manichino ho scelto il celebre uomo con la bombetta, protagonista di innumerevoli tele di Magritte e suo indubbio alter ego.
A questo punto credo abbiate intuito tutti qual è il famoso filo conduttore a cui accennavo in apertura. No, non è l'origine francese dei tre diversi autori. E non è nemmeno la scelta delle opere di uno stesso artista, René Magritte, con cui ho voluto illustrare quanto scritto.
In queste tre storie, tre oggetti di natura diversa che rappresentano a loro modo l'essere umano, cercano di imitarlo, riuscendoci solo parzialmente. Tutto qui? No, non è nemmeno tutto qui. Tre oggetti di origine diversa - la statua che è il ricettacolo di un antico potere, il quadro che contiene la volontà dell’occultista e il manichino che esprime una volontà omicida - vengono tutti utilizzati per perpetrare un qualche tipo di crimine: sono, in un certo senso, delle armi del delitto.
Ma il bello è che scegliendo oggetti di tipo diverso, legati da affinità diverse, le scelte che si potrebbero operare sono virtualmente infinite! Proprio per questo Cristina ha dato un seguito al suo progetto, ed è per lo stesso motivo che un giorno tenterò di nuovo io stesso questo esperimento.
Questo romanzo dall’atmosfera inevitabilmente retro è pur sempre un classico che sa avvincere ed emozionare a dovere, peccato solo che l’edizione più recente, a cura di Profondo Rosso, contenga fin troppi refusi per il prezzo a cui viene proposta (ben 19 euro) – un esempio, e nemmeno dei più fastidiosi, è il cognome Crepin, che talora diventa Crèpin, Crépin, Crèvin e chissà cos’altro. Ma tant’è.
Stéphen Orlac è fra le vittime di uno spaventoso incidente ferroviario: si salva a stento grazie alla sua giovane moglie, che lo affida alle cure di un famoso luminare, il Dottor Cerral, ma le sue mani sono gravemente compromesse e nonostante la lunga e faticosa riabilitazione è chiaro che non potranno mai più suonare il piano come prima. Mentre sua moglie Rosine si trova da un lato a dover gestire un patrimonio familiare che si assottiglia inesorabilmente, e dall’altro a fronteggiare bizzarri e agghiaccianti avvenimenti, Stéphen alimenta l’ossessione per le sue mani creando una “camera delle mani” nella quale trascorre la maggior parte del suo tempo.
Quando un amico di famiglia viene assassinato, appare chiaro che ci sono forze all’opera contro di loro, perché l’uomo era in procinto di svelare a Rosine una verità che la riguarda molto da vicino. Ma le circostanze del crimine sono così strane che la vicenda resta a lungo sospesa fra reale e soprannaturale: l’arma del delitto è un manichino dei più grossolani che l’uomo, pittore e convinto spiritista, teneva nel suo appartamento-atelier al secondo piano di un palazzo di proprietà del padre di Stéphen, e a cui aveva ritoccato il viso (quegli occhi verde chiaro, quel pelo rosso, le sopracciglia biforcute che risalivano sulla fronte, il piccolo baffo conquistatore e la barbetta biforcuta...) per farlo rassomigliare al Mefisto del “Faust”.
René Magritte, Il pellegrino, 1966, olio su tela |
In questa vicenda dove niente è quello che sembra, l’abilità di Renard sta nel creare una soluzione in aspettata e convincente e perfino commovente, che salva insomma capra e cavoli. Ma non dico altro, così che, se lo vorrete, e naturalmente se già non conoscete il romanzo, possiate godervi la suspense fino all’ultima pagina.
In questo caso, gli adattamenti cinematografici che nel corso del tempo sono stati ricavati dall’opera sono addirittura quattro: “Le mani dell'altro” (Orlacs Hände, 1924) di Robert Wiene, “Amore folle” (Mad Love, 1935) di Karl Freund, “Le mani dell'altro” (The Hands of Orlac, 1961) di Edmond Gréville e “Le mani dell'assassino” (Hands of a Stranger, 1962) di Newton Arnold.
Sarò banale, o forse è solo che mi piace vincere facile, ma per rappresentare il manichino ho scelto il celebre uomo con la bombetta, protagonista di innumerevoli tele di Magritte e suo indubbio alter ego.
A questo punto credo abbiate intuito tutti qual è il famoso filo conduttore a cui accennavo in apertura. No, non è l'origine francese dei tre diversi autori. E non è nemmeno la scelta delle opere di uno stesso artista, René Magritte, con cui ho voluto illustrare quanto scritto.
In queste tre storie, tre oggetti di natura diversa che rappresentano a loro modo l'essere umano, cercano di imitarlo, riuscendoci solo parzialmente. Tutto qui? No, non è nemmeno tutto qui. Tre oggetti di origine diversa - la statua che è il ricettacolo di un antico potere, il quadro che contiene la volontà dell’occultista e il manichino che esprime una volontà omicida - vengono tutti utilizzati per perpetrare un qualche tipo di crimine: sono, in un certo senso, delle armi del delitto.
Ma il bello è che scegliendo oggetti di tipo diverso, legati da affinità diverse, le scelte che si potrebbero operare sono virtualmente infinite! Proprio per questo Cristina ha dato un seguito al suo progetto, ed è per lo stesso motivo che un giorno tenterò di nuovo io stesso questo esperimento.
Innanzitutto grazie di aver aderito al mio folle esperimento e complimenti anche per la scelta del tema. I racconti e i romanzi che proponi sono tutti e tre ammalianti, ma non li conoscevo: che prosa raffinata! Avevo sentito parlare del terzo probabilmente attraverso le trasposizioni cinematografiche.
RispondiEliminaPer quanto riguarda il filo conduttore, avrei pensato a qualcosa come ai "legami pericolosi": infatti nel primo c'è una statua e un uomo che le ha messo l'anello al dito, nel secondo c'è una coppia in luna di miele e il terzo incomodo che s'introduce nella loro esistenza; e, nel terzo, di nuovo una coppia ma con modalità differenti. Proprio quest'ultima opera mi ha fatto capire che ero fuori strada nelle mie elucubrazioni. Magritte era troppo facile.
Il secondo lavoro è quello che mi ha conquistato maggiormente, forse per la presenza di questo Patrick nella narrazione, davvero un'anima nera. L'estratto che hai proposto è meraviglioso.
Vado ad aggiungerti in calce al mio post!
Grazie mille, ma ora con la seconda parte del “progetto” le cose si fanno davvero difficili!!! Chissà fin dove riuscirò a seguirti. In un certo senso hai ragione, in tutte le opere che ho citato ci sono dei legami pericolosi, anche il manichino in questo legame c’entra poco (mi riferisco ovviamente al terzo caso). Già che ci sono, stavo pensando che "I giochi del diavolo. Storie fantastiche dell'Ottocento” non sfigurerebbe affatto nella carrellata di sceneggiati Rai che ci stai proponendo… la butto lì, nel caso :-D
EliminaHo provato a guardare su Youtube e ci sono tutte e sei le storie! Tra l'altro non le ho viste, per cui so che cosa guardare se rimango a corto di sceneggiati. :-) Ho giusto concluso I Grandi Camaleonti con immensa soddisfazione... e anche un po' di malinconia per le cose belle quando finiscono.
EliminaFortunatamente oggi si trova un po' tutto, perlomeno ciò che non è andato perduto. Ricordo che ci avevo messo vent'anni per poter finalmente rivedere Ritratto di donna velata, lo sceneggiato che più di ogni altro aveva terrorizzato il piccolo Obsidian...
Elimina... e che difatti ho menzionato nel mio ultimo post dedicato agli sceneggiati!
Elimina...e che ho letto il giorno stesso senza aver tempo di lasciare un segno del mio passaggio... dio come sono indietro!
EliminaSpunti particolarmente originali per i quali condivido in pieno l'abbinamento continuato con opere di Magritte, che è uno dei pittori che prediligo.
RispondiEliminaPer quanto riguarda le opere, Merimée l'ho studiato ai tempi dell'università ma non ricordo granché. "La Venere d'Illé" mi ha proprio incuriosito.
La Venere d'Illé di Merimée era da un po' che incuriosiva anche il sottoscritto, al punto che avevo già pensato di passare in libreria o di cercarmelo su qualche store on-line. A sorpresa poi ho scoperto di possederlo già, all'interno di quella vecchia edizione che avevo dimenticato di avere. Mi sta succedendo spesso ultimamente di perdere la cognizione di quello che ho comprato (e mai letto) nel corso dei decenni.
EliminaTra l'altro La Venere d'Illé si riesce a leggere integralmente anche sul web, in una traduzione anche più decente di quella che ho trovato in quel mio vecchio e polveroso reperto archeologico...
Wow, che magnifico e articolato viaggio.
RispondiEliminaNel mondo francese si può attingere a piene mani.
Sinceramente era da molto che non mi dilettavo coi francesi. Questo recupero è in parte merito della serie di post sul "pulp di inizio secolo" che il nostro collega "etrusco" sta portando avanti sul suo blog da qualche settimana a questa parte...
EliminaFantastico, e per me interessantissimo questo esperimento: non ho letto nulla di ciò che hai proposto :O
RispondiEliminaMi è piaciuto il tuo utilizzare l'"immaginario" di Magritte, lo trovo perfetto per le associazioni da te fatte!
Magritte si adatta benissimo a questi e a molti altri romanzi o racconti. Ho fatto davvero fatica, te lo assicuro, a sceglierne alcuni e a scartarne altri.
EliminaOltre a complimenti generali per il post e l'iniziativa, il cuore ovviamente mi spinge a lodare caldamente la scelta di parlare di un romanzo troppo dimenticato come "Le mani di Orlac": il che mi consente la marchetta di far notare che il mio romanzo "Le mani di Madian" cita apertamente quel titolo ;-)
RispondiEliminaLa narrativa cine-letteraria delle "mani" è strepitosa e consente molti "giochi"...
Devo poi appuntarmi il "ritratto" per la ricerca che sto facendo sui "dipinti misteriosi", così come la statua della Venere dovrei aggiungerla alla mia ricerca sulle ginoidi: in fondo è un oggetto "a forma di donna" al centro di una storia!
Un ricerca sui dipinti misteriosi? Sembra interessante... non vedo l'ora di saperne di più...
EliminaPS: Non dimenticarti di Oliver Onions e di Daniele Oberto Marrama, eh? E nemmeno dello sceneggiato citato qualche commento fa...
Ohhh vedi che sei sempre prodigo di consigli e segnalazioni? Mi ero dimenticato dei citati e corro a segnarmeli :-P
EliminaTemevo già di essere fuori tempo massimo... :)
EliminaNon ne conoscevo nessuno quindi questo post mi è utile per prendere nota. ;-)
RispondiEliminaSulla bontà dello scritto evito di ripetermi.
Chissà perché ero convinto che quel racconto di Mérimée fosse famoso... ^_^
EliminaAnche per me tutti racconti sconosciuti. D'altronde la diversità delle esperienze e delle letture è il bello di questo bel gioco.
RispondiEliminaA differenza di chi mi ha preceduto, non prendo nota perché non ho più neanche posti in piedi a disposizione ^^
Anch'io ho problemi di spazio, ma continuo ad aggiungere irresponsabilmente...
EliminaIo intendevo però nel senso dei progetti di letture future e non di spazio fisico nei mobili di casa.
EliminaAnch'io intendevo in quel senso. ^_^
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