sabato 19 settembre 2020

Confessioni di una maschera #6

Un nuovo episodio di “Confessioni di una Maschera” dopo quasi cinque mesi era quasi scontato. Quello che non è invece mai scontato in questa rubrica è il tema che di volta in volta si andrà ad affrontare. Denominatore comune sono però le “confessioni” citate nel titolo che, sebbene non possano essere rivelazioni apocalittiche (magari ne avessi!), sono comunque piccoli tasselli di quell’enorme mosaico che è stata la mia vita sino a ora, senza la presunzione che ci sia qualcosa di speciale che la distingua dalle altre. La normalità, piuttosto, o il tentativo di avvicinarmici, è stata tipica di questi miei (quanti sono?) “ventimila giorni sulla terra” (tanto per citare i versi di un celebre cantautore australiano). 

Vado quindi a rispolverare quella mia vecchia “Smemoranda”, già utilizzata in quest’altro post, inesauribile fonte di sciocchezze che scrivevo da ragazzo. Era il 1990, per la cronaca, e tra le tante citazioni che ricopiavo spudoratamente sulla mia “Smemo” spacciandole come farina del mio sacco (allora tutto era molto più facile) ne ho trovata una gustosa che vi riporto qui di seguito. "Domenica mattina. È solo un senso di inquietudine che mi porto dentro. Primo albeggiare, domenica mattina. Sono solo tutti quegli anni che ho appena finito di sciupare. (P.S.: C’è sempre qualcuno che ti telefona. Stai tranquillo, non è niente).” 

Al contrario della volta scorsa, quando dovetti ricorrere a internet per risalire alla fonte originale, qui la soluzione è decisamente più facile ed è suggerita da quelle due parole iniziali (Sunday Morning) che mi riconducono immediatamente all’omonimo brano dei Velvet Underground. Anche il resto della citazione proviene dalla stessa canzone, ma le parole sono prelevate qua e là dal testo originale e ricomposte a mio uso e consumo. La versione inglese recita più o meno in questo modo: “Sunday Morning [...] It’s just a restless feeling by my side [...] Early dawning, Sunday morning, It’s just the wasted years so close behind [...] There’s always someone around you who will call. It’s nothing at all”.  

Salta subito agli occhi che quel “c’è sempre qualcuno che ti telefona” non fu la miglior traduzione che avrei potuto fare. Probabilmente dovrei chiedermi se quella piccola “licenza” me la presi consapevolmente o se semplicemente fu la mia sommaria conoscenza dell’inglese a ingannarmi.


Ripensando a quegli anni, tuttavia, mi verrebbe da propendere per una traduzione fatta con lucidità. Non ho mai particolarmente amato le domeniche; più che altro le vedevo come orrende anticamere del lunedì, come una pressa che scendeva sopra di me e che si abbassava nel corso delle ore, lasciandomi abbastanza tranquillo di mattina e nel primo pomeriggio e facendosi sempre più incombente con il passare delle ore, fino al sipario che giungeva la sera, al termine del mio irrinunciabile appuntamento con “La Domenica Sportiva”. Non mi andava di sprecare le domeniche, in altre parole, e quella specie di obbligo sociale che, preannunciandosi con una telefonata mattutina, mi costringeva a trascorrere i pomeriggi di festa in discoteca, era una specie di incubo. Senza contare che in discoteca già ci andavo il venerdì sera ed è ovvio che la domenica non avessi alcuna voglia non solo di ficcarmi nuovamente in una bolgia, ma nemmeno di uscire di casa. Tanto più che la domenica pomeriggio lo scopo dei miei compagni di allora era quello di broccolare a tappeto qualunque essere vivente di sesso femminile avesse avuto la sventura di entrare nel raggio minimo di dieci metri. 
L’attività, che si è sempre rivelata piuttosto inefficace, a me tra l’altro è sempre riuscita particolarmente male quelle volte che l’ho tentata (e penso anche che si notasse il mio agire in maniera profondamente svogliata). Non sto dicendo che il broccolamento a tappeto fosse universalmente vana cosa, ma semplicemente che non era la maniera in cui avrei preferito trascorrere il mio tempo libero. Sarò onesto: a tutto ciò contribuiva il mio sentirmi profondamente inadeguato in una situazione del genere. Il mitologico “Zanza”, all’anagrafe Maurizio Zanfanti, playboy riminese idolo di un’intera generazione, la pensava diversamente, ma è chiaro che lì eravamo su livelli non umani. 

E così, capitava che non rispondessi neppure al telefono in certe domeniche mattina, fino a smettere di rispondere del tutto il giorno che trovai di meglio da fare. La mia vita oggi non è peggiore. Almeno, non lo so… nel senso che non ho un metro di paragone. Diciamo che avrei voluto fare quello che mi andava di fare e alla fine l’ho fatto. E poi, in fondo, la vita non ti chiederà conto delle tacche incise sul calcio del tuo fucile. Che ho da preoccuparmi? 

A proposito della frase “Sono solo tutti quegli anni che ho appena finito di sciupare” (It’s just the wasted years so close behind), non ho una spiegazione. Non credo volessi riferirmi a qualcosa di particolare, anche se pensandoci bene il periodo tra il mio diploma (1986) e il mio primo lavoro “a libri” (1988) indubbiamente si può considerare sciupato. A intuito pare essere una di quelle frasi tipiche da “Smemoranda”, classiche della cultura dark dell’epoca a cui rivolgevo lo sguardo. In fondo qui accanto, nella colonna di destra, è presente da anni una frase di Bukowski non molto diversa nella sostanza da quel passaggio di “Sunday Morning”. È qualcosa che hai nell’anima, una specie di mood che probabilmente in ambito filosofico qualcuno chiama esistenzialismo e che è tra l’altro saldamente legato a quelle atmosfere ben descritte dai Velvet Underground di Lou Reed: alienazione urbana, solitudine cronica, violenza morale e fisica, degradazione e disperazione tipiche di quella generazione di "losers" newyorkesi a loro contemporanea. Da noi in Italia, ma mi riferisco in realtà alla mia esperienza personale, la musica dei Velvet era apprezzata perché opprimente e claustrofobica, l’ideale per un ascolto solitario in cuffia all’interno di una stanza buia. Un genitore troppo apprensivo avrebbe potuto interpretarlo come un campanello d’allarme, ma per noi, per me, era semplicemente una medicina per alleviare i malanni dell’adolescenza. 

10 commenti:

  1. Una canzone peraltro usata anche in uno spot pubblicitario che voleva essere rassicurante (mi pare fosse una compagnia di assicurazione) senza che evidentemente sapessero che dentro quella musica così dolce si dipanava un testo tutt'altro che ottimistico... (o forse lo sapevano, ma hanno scommesso sulla cronica ignoranza della lingua inglese dell'italiano medio).
    Ognuno giudica la sua vita in base alle proprie esperienza. Ti posso dire: tu almeno avevi degli amici che ti cercavano la domenica, io sono sempre stato deficitario in quel settore. Colpa in gran parte mia, beninteso. Anche se qualche merito posso darlo ai miei compagni di classe delle medie e delle superiori che mi hanno spinto a diffidare con sempre maggior convinzione della presunta "naturale bontà" degli esseri umani; e mi hanno anche costretto a ingegnarmi per passare il tempo libero da solo senza annoiarmi, e ormai sono diventato talmente esperto in tale attività che qualunque hobby in cui possa imbarcarmi deve avere una caratteristica imprescindibile: poter essere praticato anche in solitudine, senza necessità di coinvolgere altri individui.

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    1. Ora che mi ci fai pensare ricordo vagamente quella pubblicità a cui ti riferisci. Sono andato a verificare e ho scoperto che il committente era ENEL (avrebbe potuto anche essere uno spot del Mulino Bianco per quanto sdolcinato era il messaggio).
      Sul discorso del diffidare dei presunta bontà di certe persone la pensiamo allo stesso modo. Tra l'altro ero abbastanza certo che uno dei motivi per cui mi cercavano in quelle domeniche pomeriggio fosse il mezzo di trasporto: in quegli anni infatti ero uno dei pochissimi ad aver la macchina (niente di che: una scassatissima Fiat 127 a molla) e faceva senz'altro comodo a molti il poter andare nei posti senza dover saltare su e giù dai mezzi pubblici (specialmente i sabati sera).

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  2. Per anni ho sofferto la sindrome da domenica anticamera del lunedì. Poi sono arrivate occupazioni in cui lavoravi di domenica e avevi un giorno feriale libero. Incredibilmente la malavoglia e l'apatia domenicali sparirono perché preferivo andare a lavorare e, poi, godermi una giornata feriale come volevo mentre tutti gli altri andavano a lavorare.
    A ben vedere non era solo una questione di punti di vista, ma anche di avere la licenza di evitare i classici riti e impegni domenicali.

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    1. Avere i giorni feriali liberi non deve essere male. Mi è capitato pochissime volte, quando per esempio mi capita di lavorare l'intero weekend e mi scatta di diritto il giorno compensativo, ma è solo un episodio sporadico e, in genere ho sempre qualche noiosa commissione da fare. Evitare i riti è poi la mia specialità, come quella che mi tiene lontano dai capodanni e festività del genere...

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  3. Zanza, che citazione! :D
    Comunque, la domenica è sempre stata il giorno del calcio, per me. Il che non significa, preciso, il dover sempre mettere il calcio davanti a tutto, eh, sia chiaro.
    Però per dire, ai tempi dell'università la domenica pomeriggio ero a vedere la partita della squadra del mio paese, poi così la sera mi riposavo prima della "levataccia" del lunedì mattina per prendere il treno.
    Con il lavoro è inevitabilmente divenuta..una domenica di lavoro.
    La concezione di domenica come anticamera del lunedì è stata celebrata, dal punto di vista pop, dagli 883 in Weekend..canzone che è facile cucirsi addosso.

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    1. Il periodo delle domeniche calcistiche l'ho attraversato anch'io nella prima metà degli anni Ottanta. Ci sono stati anni in cui mi aggregavo a quell'amico abbonato a San Siro (interista o milanista, a seconda di chi giocava in casa) e passavo delle ore in compagnia molto piacevoli (ai tempi non ci si preoccupava di gufare o di essere gufati... era tutto molto più easy).
      Mi hai dato comunque un ottimo spunto per un prossimo "Confessioni di una maschera"!

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  4. Dunque...da bambino per me la domenica era il giorno in cui non si andava a scuola, di conseguenza vivevo una mattinata spensierata: andavo in edicola a comprare il Topolino settimanale o altre riviste, le passeggiate o le partite con a calcio con gli amici a pranzo c'erano le pietanze della domenica, quelle più laboriose che non si potevano preparare nei giorni feriali con i parenti più grandi che passavano il pomeriggio attaccati alla radio per vedere se finalmente erano riusciti a realizzare quel 13 che gli avrebbe cambiato la vita ma che puntualmente si faceva attendere e poi però mano a mano che si avvicinava la sera cresceva la depressione per l'arrivo dell'imminente lunedì. Sensazioni mai più abbandonate, col lavoro. Come Ariano però anche io ho lavorato per anni su turni e devo dire che la soddisfazione di avere due giorni liberi feriali per fare con tranquillità di lunedì o martedì le cose che gli altri non potevano fare (o dovevano fare di corsa al sabato o alla domenica) non ha prezzo. :D Il ricordo di quelle domeniche in B\N però non mi abbandona mai. ;)

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    1. Le mie domeniche di bambino non riesco a distinguerle dagli altri giorni, probabilmente perché il lunedì non aveva ancora il significato che avrebbe avuto successivamente (alle elementari a me piaceva andare a scuola: era praticamente una festa). Non ricordo quando fu che presi consapevolezza che la scuola non fosse un gioco divertente, ma probabilmente fu in quel momento che in me scattò la sindrome della domenica sera.
      PS. Una volta ho preso un 12 in schedina con un sistema giocato facendo colletta coi compagni di scuola. Portammo a casa 14.000 lire da dividere in dieci.

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  5. Anch'io avevo uno smemoranda che infarcivo di frasi, citazioni, testi musicali e quant'altro, oltre che barzellette un po' stupidotte ( soprattutto i primi due anni delle superiori), senza dimenticare le infinite frasi dedicate all'innamorata di turno.
    Pensa che ogni tanto pesco quel diario per rileggermelo ( almeno quello degli ultimi anni ).
    La frase che citi comunque è molto bella e simbolica, anche se io ho sempre associato la domenica, nel periodo scolastico, alla tranquillità assoluta, sebbene la mattina in genere o giocavo a calcio oppure bighellonavo nel bar o in piazzetta.
    Insomma scuola a parte, era una giornata canonica, non certo come quelle che ci raccontano spesso nei libri, serie tv, cartoni animati del passato.

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    1. La Smemoranda rappresentava ciò che eri, ciò che avresti voluto essere e ciò che speravi che gli altri credessero di te. Quelle citazioni apparentemente prive di senso, dalla frase di Vasco ai versi di Baudelaire, venivano scritti nella speranza che potessero esser letti (casualmente) dalla compagna di scuola carina. In altre parole lo scopo della Smemo era evocare una figaggine che a conti fatti non c'era...

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