La sua stessa paura, la sua stessa infamia gli fan venire il voltastomaco, la lettera, leggera, gli pesa tra le mani. La carta della busta è sottilissima, non imbottita. Le righe si intravedono indistinte, qua e là, invano, prova a decifrarle. Leonida si sente invaso da un senso di desolazione, di dolore, di colpa e, tutt’a un tratto, da un’ira violenta contro Vera. Eppure sembrava che ormai avesse capito. Tutto era ormai superato, tutto sistemato nel migliore dei modi. Lui l’aveva apprezzata moltissimo per la sua comprensione, per essersi così bene adattata all’inevitabile. E ora questa lettera! È stato un puro colpo di fortuna che non sia capitata nelle mani di Amelie.
L’argomento del post di oggi è il tradimento: argomento tutt’altro che semplice, è evidente, ma soprattutto un argomento molto delicato da trattare in un blog, visto che si rischia di toccare nel vivo le corde più sensibili di chi anche per caso potrebbe capitare su queste pagine. Ogni riferimento a persone e situazioni reali, lo dico da subito, è completamente casuale. Precisazione dovuta al fatto che, statisticamente, il tradimento è una delle attività più comuni di noi esseri umani ed è altamente probabile che una buona parte di chi mi legge ci sia passato, in un modo o nell’altro. E quando scrivo “in un modo o nell’altro” intendo dire nella parte di uno qualsiasi dei tre attori del dramma: il/la traditore/trice, il/la tradito/a e l’oggetto del tradimento (cioè l’altro/a). L’ispirazione mi giunge dal romanzo “Una scrittura femminile azzurro pallido” (Eine blassblaue Frauenschrift), scritto nel 1941 da Franz Werfel, ma pubblicato per la prima volta soltanto 14 anni dopo e diventato un piccolo caso editoriale in Italia da quando, parecchi anni fa, fu pubblicato da Adelphi.
Franz Werfel (1890-1945), scrittore e drammaturgo austriaco di origini ebraiche, famoso soprattutto per “Il poema di Bernadette” (sulla vita della Santa che ebbe le visioni della Vergine a Lourdes), affronta qui il tema del tradimento da un punto di vista insolito: quello del traditore. Milioni sono i romanzi che sono stati scritti attorno al tema del tradimento, ma se non sbaglio la maggior parte di essi descrive la sofferenza di colui o colei che del tradimento è stato/a vittima. Altri romanzi sono trattati dal punto di vista dell’oggetto del tradimento, vale a dire quella terza persona che, spesso e volentieri, si trova a soffrire tanto e quanto la persona tradita (basti pensare alle eterne promesse, ai lunghi periodi di solitudine, centellinando le briciole di una relazione che si regge su sostegni sempre più esili). Poche volte prima di Werfel invece, per quello che ne so, si era osato affrontare il tema della sofferenza del traditore: anzi, direi che mai prima di Werfel qualcuno ha mai concesso al traditore la possibilità di avere dei sentimenti. Tutta questa maledetta faccenda, pensò con convinzione, era dovuta all’ambiguità del suo cuore, troppo tenero ma, nello stesso tempo, troppo incostante. Tutta la vita aveva sofferto per quello che chiamava il suo “cuore guasto”. L’espressione non era elegante, lui stesso se ne rendeva conto, ma esprimeva in maniera appropriata il suo disagio psichico.
La vicenda si svolge tutta in un giorno, il 7 ottobre 1936: è questa infatti la data in cima ad una lettera vergata con una “scrittura femminile azzurro pallido” che riceve Leonida, il protagonista della nostra storia, un alto funzionario ministeriale sposato a una bella e ricca dama viennese. Questa lettera fa riaffiorare, nel suo “cuore guasto”, la colpa di un amore “archiviato” dalla coscienza e cancellato dalla memoria (ma sarà davvero così?). L’amore per una giovane ebrea con la quale ebbe una breve ma intensa relazione mentre era già sposato. Un passato amore, nascosto per molti anni con attenzione, che riaffiora improvvisamente nella sua quotidianità, che rientra nella sua vita come un coltello nel burro, rimettendo in discussione tutta la sua esistenza.
Leonida, mettiamolo subito in chiaro, è un bastardo, uno che ha costruito il proprio successo grazie ad un colpo di fortuna e, soprattutto, grazie al patrimonio della bella e ricca Amelie Paradini, e lo coltiva col più bieco burocratismo. Un bastardo che tuttavia si renderà conto di essere lui a dover pagare il prezzo più alto per tutti i suoi peccati. Perché tutt’a un tratto la sua antica amante si rifiuta di essere ciò che è stata per quindici anni, una tomba interrata che nessuno riesce più a localizzare? Ma la lettera è lì, non è un incubo, è reale.
La scrittura femminile azzurro pallido appartiene a Vera Wormser. Leonida la conobbe e la amò molti anni prima, per un breve e fugace attimo, approfittando della temporanea assenza della moglie. L’amò di una passione travolgente, che tuttavia per lui non fu abbastanza: un maledetto giorno decise di troncare e, senza pensarci su due volte, ritenne che la cosa migliore fosse quella di sparire improvvisamente. Vera gli scrisse una lettera anche allora, tre anni dopo l’abbandono, ma Leonida decise di distruggerla senza nemmeno leggerla. Ora, all’inizio del romanzo, una lettera scritta con la stessa grafia femminile azzurro pallido è di nuovo tra le sue mani. Vera gli scrive dopo che lui si è comportato in un modo talmente volgare e spaventoso che nulla si può immaginare di peggio da parte di un uomo nei riguardi di una donna che ha amato.
Lì guardò a lungo con occhi atterriti la ripida e severa calligrafia femminile e, seguitando a soppesare la lettera, peraltro leggerissima, non si arrischiava ad aprirla. Con una forza espressiva che diventava sempre più peculiare, quei caratteri scarni lo guadavano fisso e a poco a poco riempivano tutto il suo essere come di un veleno che gli paralizzava il battito del cuore. Neanche nell’incubo più angoscioso, egli avrebbe mai immaginato di poter rivedere la scrittura di Vera.
Dovevano essere passati almeno quindici anni da quando lui aveva tenuto in mano per l’ultima volta una lettera di Vera, esattamente come adesso. Amelie era ovviamente dominata da una gelosia senza limiti e nella sua diffidenza subodorava ovunque i segni del tradimento. Lui non aveva dunque altra scelta, quella lettera doveva distruggerla. A quell’epoca, s’intende! Altro era il fatto che l’avesse distrutta senza neanche aprirla. Quella era stata da parte sua una miserabile vigliaccheria, una porcata senza pari. Quella volta aveva strappato la lettera senza leggerla per il semplice motivo che non voleva saperne di quel che c’era scritto, e anche oggi avrebbe fatto lo stesso, l’avrebbe strappata senza leggerla. Se uno non sa nulla, non può essere chiamato a rispondere di nulla.
Ecco dunque rivelato il vero animo di Leonida. È proprio attorno a quel “Se uno non sa nulla, non può essere chiamato a rispondere di nulla” che ruota il romanzo. Un vigliacco senza pari che non merita altro che affogare nei suoi rimorsi. Prima la più infame, la più vile delle menzogne, perché lui era sposato ormai da tre anni e non glielo aveva mai detto. Poi il lurido inganno del congedo al finestrino del treno. Per Vera fu una giornata lieta, perché pensava che dopo un breve periodo di separazione egli sarebbe venuto a prenderla per portarla via con sé per sempre. “Addio, vita mia! Due settimane ancora e poi sarai con me!”. Dette queste parole, invece, Leonida scomparve nel nulla e non volle più saperne dell’esistenza di Vera Wormser.
Siamo a Vienna e nella vicina Germania sono iniziate le persecuzioni del Reich contro gli Ebrei. Sullo sfondo delle vicende di Leonida si mette in scena il processo ad una società che precipita, per mediocrità morale e desiderio di benessere, verso la tragedia del Nazismo. Nella lettera, in poche righe molto formali, la scrivente chiede l’aiuto del potente funzionario per trasferire in una scuola viennese un giovane tedesco di diciotto anni. Ma, per il destinatario, quelle righe potrebbero contenere un significato nascosto. Un ragazzo di diciotto anni, diciotto come gli anni trascorsi da quella vecchia storia. Un ragazzo tedesco da aiutare. Tedesco sì, ma di madre ebrea? Se è così, diviene subito chiara la necessità di strapparlo al più presto dagli artigli della Storia. Il suo antico amore, Vera, sta forse rivelando a Leonida l’esistenza di un figlio in comune? Ecco quindi che si fa largo nell’animo dell’uomo un malessere confuso, forse un accenno di pentimento. Un figlio non è una cosa sulla quale si può passar sopra tranquillamente. Ma nemmeno i sentimenti di una persona dovrebbero esserlo, al di là del fatto che questa persona conti davvero qualcosa per noi oppure no. È sincero Leonida quando dice: “La mia stessa infedeltà e vigliaccheria mi hanno legato a lei, pur impedendomi di cercarla e di trovarla. Lei, Vera, di sicuro non pensa a me da anni. Io invece ho pensato a lei quasi ogni giorno, sia pure con angoscia e rimorso. La mia infedeltà è stato il più grande dolore della mia vita.” ?
Viene subito da pensare di sì. Leonida non può che essere sincero. Come può una persona, finanche la più meschina, non fermarsi anche solo per un attimo a riflettere sul male che ha fatto? Voi ne sareste capaci? Franz Werfel a questo punto lascia che il lettore trovi da sé la risposta al suo più grande quesito: quale dei protagonisti del suo romanzo è quello che ha sofferto di più? Forse la moglie che, pur vivendo nel dubbio, ha trascorso la propria vita accanto all’uomo che ha scelto per sé? Forse Vera, della quale non si sa nulla se non che è sopravvissuta all’abbandono, e ne è stata cambiata profondamente pur rimanendo, nel profondo, la stessa donna? O forse Leonida, al quale viene presentato finalmente il conto per una vita trascorsa nella menzogna?
Leonida afferrò tra le sue le mani senza peso di Vera e se le strinse al petto. Gli sembrava di riannodare adesso l’esperienza che aveva vissuto diciotto anni prima proprio nel punto in cui lui stesso l’aveva ignominiosamente troncata. “Vera carissima, carissima Vera! Sospirò “sapesse come mi sento male qui di fronte a lei. Non esistono parole per esprimere ciò che provo. Mi ha perdonato? Ha potuto perdonare? E, ancora adesso, può perdonare?”. Vera guardò da un lato voltando la testa con un movimento quasi impercettibile. “Perdonare,” fece Vera riprendendo la domanda di lui “che parola retorica. Io non la sopporto. Chi ha rimorso per un proprio atto, solo da sé potrà darsi il perdono.” ” Io non mi sono mai perdonato e mai mi perdonerò, mai e poi mai…”. Ma ancora non aveva finito di parlare che già si era perdonato tutto una volta per sempre e aveva cancellato il proprio peccato dalla tavola della coscienza.
A questo punto lascio a voi giudicare. Se avete letto quello che ho scritto, e siate arrivati fino a questo punto, sono sicuro che vi sarete fatti un’opinione. Qual è il ruolo più scomodo in una situazione del genere? Qual è la parte che non vorreste mai recitare? Il tradimento è la cosa più simile alla morte. Non solo è la fine di qualcosa, è anche la negazione della possibilità di qualsiasi nuovo inizio, perché non c’è scampo nella morte come non c’è scampo nel tradimento.
L’uomo di legno guardava al di là della finestra con gli occhi sbarrati. Credeva di non sentir altro che il vuoto trascorrere dei secondi. […] Tutto era ridicolo, tutto assurdamente ottuso e bugiardo. Non disse una parola. I suoi occhi bruciavano. Quando poi, assai più tardi, si voltò indietro, Vera se n’era già andata. Niente era rimasto di lei nella stanza ormai immersa nelle tenebre.[…] Ma giunti sulla porta del salotto ci ripensò e tornò indietro per posare nelle tenebre quei fiori di morte.
L’argomento del post di oggi è il tradimento: argomento tutt’altro che semplice, è evidente, ma soprattutto un argomento molto delicato da trattare in un blog, visto che si rischia di toccare nel vivo le corde più sensibili di chi anche per caso potrebbe capitare su queste pagine. Ogni riferimento a persone e situazioni reali, lo dico da subito, è completamente casuale. Precisazione dovuta al fatto che, statisticamente, il tradimento è una delle attività più comuni di noi esseri umani ed è altamente probabile che una buona parte di chi mi legge ci sia passato, in un modo o nell’altro. E quando scrivo “in un modo o nell’altro” intendo dire nella parte di uno qualsiasi dei tre attori del dramma: il/la traditore/trice, il/la tradito/a e l’oggetto del tradimento (cioè l’altro/a). L’ispirazione mi giunge dal romanzo “Una scrittura femminile azzurro pallido” (Eine blassblaue Frauenschrift), scritto nel 1941 da Franz Werfel, ma pubblicato per la prima volta soltanto 14 anni dopo e diventato un piccolo caso editoriale in Italia da quando, parecchi anni fa, fu pubblicato da Adelphi.
Franz Werfel (1890-1945), scrittore e drammaturgo austriaco di origini ebraiche, famoso soprattutto per “Il poema di Bernadette” (sulla vita della Santa che ebbe le visioni della Vergine a Lourdes), affronta qui il tema del tradimento da un punto di vista insolito: quello del traditore. Milioni sono i romanzi che sono stati scritti attorno al tema del tradimento, ma se non sbaglio la maggior parte di essi descrive la sofferenza di colui o colei che del tradimento è stato/a vittima. Altri romanzi sono trattati dal punto di vista dell’oggetto del tradimento, vale a dire quella terza persona che, spesso e volentieri, si trova a soffrire tanto e quanto la persona tradita (basti pensare alle eterne promesse, ai lunghi periodi di solitudine, centellinando le briciole di una relazione che si regge su sostegni sempre più esili). Poche volte prima di Werfel invece, per quello che ne so, si era osato affrontare il tema della sofferenza del traditore: anzi, direi che mai prima di Werfel qualcuno ha mai concesso al traditore la possibilità di avere dei sentimenti. Tutta questa maledetta faccenda, pensò con convinzione, era dovuta all’ambiguità del suo cuore, troppo tenero ma, nello stesso tempo, troppo incostante. Tutta la vita aveva sofferto per quello che chiamava il suo “cuore guasto”. L’espressione non era elegante, lui stesso se ne rendeva conto, ma esprimeva in maniera appropriata il suo disagio psichico.
La vicenda si svolge tutta in un giorno, il 7 ottobre 1936: è questa infatti la data in cima ad una lettera vergata con una “scrittura femminile azzurro pallido” che riceve Leonida, il protagonista della nostra storia, un alto funzionario ministeriale sposato a una bella e ricca dama viennese. Questa lettera fa riaffiorare, nel suo “cuore guasto”, la colpa di un amore “archiviato” dalla coscienza e cancellato dalla memoria (ma sarà davvero così?). L’amore per una giovane ebrea con la quale ebbe una breve ma intensa relazione mentre era già sposato. Un passato amore, nascosto per molti anni con attenzione, che riaffiora improvvisamente nella sua quotidianità, che rientra nella sua vita come un coltello nel burro, rimettendo in discussione tutta la sua esistenza.
Pierre Bonnard, Young Woman Writing, 1908 |
La scrittura femminile azzurro pallido appartiene a Vera Wormser. Leonida la conobbe e la amò molti anni prima, per un breve e fugace attimo, approfittando della temporanea assenza della moglie. L’amò di una passione travolgente, che tuttavia per lui non fu abbastanza: un maledetto giorno decise di troncare e, senza pensarci su due volte, ritenne che la cosa migliore fosse quella di sparire improvvisamente. Vera gli scrisse una lettera anche allora, tre anni dopo l’abbandono, ma Leonida decise di distruggerla senza nemmeno leggerla. Ora, all’inizio del romanzo, una lettera scritta con la stessa grafia femminile azzurro pallido è di nuovo tra le sue mani. Vera gli scrive dopo che lui si è comportato in un modo talmente volgare e spaventoso che nulla si può immaginare di peggio da parte di un uomo nei riguardi di una donna che ha amato.
Lì guardò a lungo con occhi atterriti la ripida e severa calligrafia femminile e, seguitando a soppesare la lettera, peraltro leggerissima, non si arrischiava ad aprirla. Con una forza espressiva che diventava sempre più peculiare, quei caratteri scarni lo guadavano fisso e a poco a poco riempivano tutto il suo essere come di un veleno che gli paralizzava il battito del cuore. Neanche nell’incubo più angoscioso, egli avrebbe mai immaginato di poter rivedere la scrittura di Vera.
Dovevano essere passati almeno quindici anni da quando lui aveva tenuto in mano per l’ultima volta una lettera di Vera, esattamente come adesso. Amelie era ovviamente dominata da una gelosia senza limiti e nella sua diffidenza subodorava ovunque i segni del tradimento. Lui non aveva dunque altra scelta, quella lettera doveva distruggerla. A quell’epoca, s’intende! Altro era il fatto che l’avesse distrutta senza neanche aprirla. Quella era stata da parte sua una miserabile vigliaccheria, una porcata senza pari. Quella volta aveva strappato la lettera senza leggerla per il semplice motivo che non voleva saperne di quel che c’era scritto, e anche oggi avrebbe fatto lo stesso, l’avrebbe strappata senza leggerla. Se uno non sa nulla, non può essere chiamato a rispondere di nulla.
Ecco dunque rivelato il vero animo di Leonida. È proprio attorno a quel “Se uno non sa nulla, non può essere chiamato a rispondere di nulla” che ruota il romanzo. Un vigliacco senza pari che non merita altro che affogare nei suoi rimorsi. Prima la più infame, la più vile delle menzogne, perché lui era sposato ormai da tre anni e non glielo aveva mai detto. Poi il lurido inganno del congedo al finestrino del treno. Per Vera fu una giornata lieta, perché pensava che dopo un breve periodo di separazione egli sarebbe venuto a prenderla per portarla via con sé per sempre. “Addio, vita mia! Due settimane ancora e poi sarai con me!”. Dette queste parole, invece, Leonida scomparve nel nulla e non volle più saperne dell’esistenza di Vera Wormser.
Johannes Vermeer, A lady writing, 1666 |
Viene subito da pensare di sì. Leonida non può che essere sincero. Come può una persona, finanche la più meschina, non fermarsi anche solo per un attimo a riflettere sul male che ha fatto? Voi ne sareste capaci? Franz Werfel a questo punto lascia che il lettore trovi da sé la risposta al suo più grande quesito: quale dei protagonisti del suo romanzo è quello che ha sofferto di più? Forse la moglie che, pur vivendo nel dubbio, ha trascorso la propria vita accanto all’uomo che ha scelto per sé? Forse Vera, della quale non si sa nulla se non che è sopravvissuta all’abbandono, e ne è stata cambiata profondamente pur rimanendo, nel profondo, la stessa donna? O forse Leonida, al quale viene presentato finalmente il conto per una vita trascorsa nella menzogna?
Leonida afferrò tra le sue le mani senza peso di Vera e se le strinse al petto. Gli sembrava di riannodare adesso l’esperienza che aveva vissuto diciotto anni prima proprio nel punto in cui lui stesso l’aveva ignominiosamente troncata. “Vera carissima, carissima Vera! Sospirò “sapesse come mi sento male qui di fronte a lei. Non esistono parole per esprimere ciò che provo. Mi ha perdonato? Ha potuto perdonare? E, ancora adesso, può perdonare?”. Vera guardò da un lato voltando la testa con un movimento quasi impercettibile. “Perdonare,” fece Vera riprendendo la domanda di lui “che parola retorica. Io non la sopporto. Chi ha rimorso per un proprio atto, solo da sé potrà darsi il perdono.” ” Io non mi sono mai perdonato e mai mi perdonerò, mai e poi mai…”. Ma ancora non aveva finito di parlare che già si era perdonato tutto una volta per sempre e aveva cancellato il proprio peccato dalla tavola della coscienza.
A questo punto lascio a voi giudicare. Se avete letto quello che ho scritto, e siate arrivati fino a questo punto, sono sicuro che vi sarete fatti un’opinione. Qual è il ruolo più scomodo in una situazione del genere? Qual è la parte che non vorreste mai recitare? Il tradimento è la cosa più simile alla morte. Non solo è la fine di qualcosa, è anche la negazione della possibilità di qualsiasi nuovo inizio, perché non c’è scampo nella morte come non c’è scampo nel tradimento.
L’uomo di legno guardava al di là della finestra con gli occhi sbarrati. Credeva di non sentir altro che il vuoto trascorrere dei secondi. […] Tutto era ridicolo, tutto assurdamente ottuso e bugiardo. Non disse una parola. I suoi occhi bruciavano. Quando poi, assai più tardi, si voltò indietro, Vera se n’era già andata. Niente era rimasto di lei nella stanza ormai immersa nelle tenebre.[…] Ma giunti sulla porta del salotto ci ripensò e tornò indietro per posare nelle tenebre quei fiori di morte.
Io sto dalla parte del tradito e parlo perchè una volta mi è capitato- da figlio- di tradire la fiducia di mio padre. Potrei avere tutte le giustificazioni possibili, ma la vittima non sono io rimane mio padre. Per questo non credo poi molto nelle giustificazioni sulla "presunta sofferenza" esposte da chi tradisce, qualsiasi sia il tipo di tradimento effettuato.
RispondiEliminaParere personale ovviamente.
Parere personale assolutamente condivisibile. Tra l'altro credo che questa sia la prima volta che sento parlare della "sofferenza del traditore" (Giuda Iscariota a parte, naturalmente)
Eliminaio parlo da tradita, e tradita nel peggiore dei modi. Per me il tradimento equivale a un omicidio, perchè chi tradisce uccide la fiducia, la dignità e soprattutto la stima della persona tradita...io non perdonerei mai un tradimento, perchè non ne sarei capace. Così come ovviamente non sarei mai e poi mai in grado di tradire...mi sentirei un verme :(
RispondiEliminaUn tradimento non è assolutamente perdonabile. Forse per un attimo saresti anche disposto a perdonare, magari nell'illusione che nulla sia successo. Ma è successo. E ciò che è successo non si può cancellare.
EliminaOra che ho letto capisco meglio il tuo commento. Beh sì, alla luce di questo romanzo le parole di Werfel assumono un altro significato ma, se ci pensi, non poi così differente da quel che si diceva nel mio blog. Il tradimento è "qualcosa di simile alla morte", la morte è la perdita di una persona cara e nel momento in cui la si perde non resta altro che cullarsi nell'idea di averla posseduta, quell'idea è il vero possesso, l'unico che, ora, si può rivendicare.
RispondiEliminaSi, direi che hai proprio ragione. Grazie per il commento. ^^
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