lunedì 21 marzo 2022

Orizzonti del reale (Pt.33)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Ora, seguendo l’esatta sequenza di argomenti di “Invisible landscape…”, è tempo di accennare anche al modello olografico, così in auge negli anni ’80 e ’90 (risale ad allora anche la maggior parte delle mie letture sull’argomento); d’altra parte, era allora un concetto ancora relativamente nuovo per il grande pubblico, che l’aveva scoperto presumibilmente con la visione di “Guerre Stellari”. Ricordate tutti, penso, come comincia il coinvolgimento di Luke Skywalker nella resistenza: dalla visione di un ologramma con l’immagine tridimensionale della principessa Leila che implora l’aiuto di Obi-Wan Kenobi. Come si ottiene un ologramma non è forse altrettanto noto. Lo scienziato ungherese Dennis Gabor scoprì come realizzarlo per caso, nel 1947, mentre cercava di migliorare il microscopio elettronico, usando la luce verde dello spettro di una lampada a vapori di mercurio, ma fu solo con la diffusione della luce laser negli anni ’60 (e di apposite lastre o pellicole olografiche) che la tecnica si poté perfezionare. 
In sintesi, per produrre un ologramma occorre dividere con uno specchio, o beam splitter, un’unica luce laser in due raggi separati, il primo dei quali viene fatto rimbalzare dall’oggetto per essere fotografato, mentre il secondo viene fatto collidere con la luce riflessa del primo: lo schema d’interferenza che si crea, e che viene registrato sulla pellicola, a prima vista non somiglia affatto all’oggetto fotografato, ma una volta illuminato da una luce intensa o da un altro raggio laser svela una sua riproduzione in tre dimensioni incredibilmente realistica. Ma la cosa più notevole dell’ologramma, e che lo differenzia da una normale fotografia, è che ogni porzione di pellicola conserva intatta l’informazione completa dell’oggetto rappresentato, perciò se questa viene tagliata, divisa o danneggiata, è comunque possibile ricostruire l’intera immagine di partenza (anche se inevitabilmente questa diverrà sempre più offuscata al diminuire della porzione residua). Inoltre, l’ologramma è in grado di immagazzinare un numero enorme di informazioni, semplicemente mutando l’angolazione con la quale i due laser colpiscono una porzione di pellicola (o inclinando la lastra ad angoli diversi rispetto ai raggi laser: l'effetto è il medesimo), di modo che illuminando la pellicola dagli angoli appropriati è poi possibile recuperare immagini diverse generate da diversi raggi originali.

Dennis Gabor (1900-1979)
Furono il neurochirurgo Karl Pribram e il fisico David Bohm i primi a elaborare un modello cerebrale olografico della funzione cognitiva, o “paradigma olografico”, teorizzando che le informazioni non vengono immagazzinate nel cervello nei neuroni bensì sotto forma di figure (pattern) d’onda interferenti. Fin dai primi anni ’40, l’ossessione di Pribram (e di altri scienziati come lui) era stata quella di comprendere il meccanismo di conservazione dei ricordi e delle cosiddette tracce di memoria (engrammi), giacché si considerava assodato che questi fossero localizzati in qualche punto specifico del cervello: alcuni esperimenti del neurochirurgo Wilder Penfield risalenti agli anni ’20 sembravano confermare che effettivamente alcuni ricordi avessero una locazione specifica, perché stimolando elettricamente alcune aree del cervello i soggetti evocavano sempre gli stessi eventi, tuttavia né lui né altri riuscirono mai a replicare i risultati su soggetti non epilettici. Vent’anni più tardi, gli esperimenti sui ratti effettuati dal neuropsicologo Karl Lashley mostrarono che la memoria delle cavie restava intatta anche dopo l’asportazione di grandi porzioni del loro cervello (sigh). Lo stesso avveniva quando si effettuava una riorganizzazione della sua anatomia (come dimostrato in seguito da Pietsch nei suoi famigerati esperimenti con le salamandre). Non solo, Lashley dimostrò che anche la capacità visiva non viene intaccata dall’asportazione di gran parte della corteccia visiva, mentre fino ad allora si pensava che le singole immagini recepite dall’occhio venissero rappresentate (come sorta di proiezioni) in specifiche aree del cervello. 

Questo sembrava suggerire che i ricordi fossero non localizzati, ma distribuiti su tutta l’area del cervello, e la notizia della realizzazione del primo ologramma fece capire a Pribram che ciò era facilmente spiegabile attribuendo al cervello proprietà olografiche, date dagli impulsi elettrici dei neuroni che, espandendosi, si incrociano l’uno con l’altro creando una rete di schemi d’interferenza. L’olografia spiega anche com’è possibile che il cervello possa immagazzinare nuove informazioni per tutta la vita di un individuo in assenza di riproduzione delle cellule nervose (poiché, come sappiamo, queste non si dividono e se danneggiate non si rigenerano, anche se, in determinate condizioni di stimolazione prolungata o ripetuta, una cellula nervosa può moltiplicare la sua produzione di fibre nervose, creando così nuove giunzioni sinaptiche). 

Anche la capacità di ricordare e dimenticare può essere spiegata in chiave olografica. Ricordate quanto detto sopra a proposito del fatto che mutando l’angolazione con la quale i due laser colpiscono una porzione di pellicola e re-illuminando poi la pellicola dalla stessa angolazione è possibile recuperare un’immagine piuttosto che un’altra? Bene, possiamo paragonare la capacità di ricordare al puntare la luce su una parte del cervello dall’angolazione giusta, e quella di dimenticare al puntarla da quella sbagliata. Una particolare tecnica di registrazione olografica offre anche una spiegazione all’associazione di memoria, quel peculiare, proustiano fenomeno per il quale un oggetto, un profumo, un gusto particolare possono scatenare uno specifico ricordo: se un singolo raggio laser viene fatto rimbalzare da due oggetti allo stesso tempo, anziché uno, e si fa sì che la luce riflessa da entrambi collida, il particolare schema d’interferenza che si crea è tale che ogni volta che si illumina il primo oggetto con il laser e la luce riflessa viene fatta passare attraverso la pellicola, comparirà un’immagine tridimensionale del secondo oggetto, e viceversa. 

A sinistra: Karl Pribram (1919-2015) - A destra: David Bohm (1917-1992)
L’argomento non si esaurisce certo qui, ma tanto basta per capire da quale assunto siano partiti i McKenna per le loro elucubrazioni. Se già il DNA della cellula ha qualità olografiche, perché contiene tutte le informazioni necessarie per rigenerare l’intero organismo, questo può dirsi anche del cervello. Nella loro concezione il cervello fisico è analogo a una piastra olografica e, se questo è vero, si può supporre che non esista una vera antitesi tra i nostri sensi (vista e udito, per esempio), di conseguenza i suoni in un certo intervallo di frequenza potrebbero essere in grado di generare una sorta di ologrammi udibili (immagini visive) in uno spazio tridimensionale o nel sistema mente-cervello di chi li sente. Questo spiegherebbe le visioni di La Chorrera, ma resta un’ipotesi non comprovata, benché teoricamente possibile, dal momento che l'olografia non dipende dalla presenza fisica delle onde luminose, ma da uno schema di interferenza, un rapporto di relazioni armoniche: è possibile realizzare un ologramma da onde sonore e persino da onde infrarosse. Il processo olografico è stato espresso in equazioni matematiche, e sono state fatte simulazioni al computer della memorizzazione olografica sulla base delle sole equazioni (integrali voluttuari e trasformazioni di Fourier). 

Senza che io mi addentri ulteriormente in questi dettagli, per esempio sul ruolo effettivo dei centri neurali del cervello, consci della consapevolezza degli stessi McKenna di essere ben lontani dal poter fornire ogni spiegazione dell’organizzazione del cervello in chiave olografica, possiamo comunque trarre da tutte queste premesse alcune considerazioni: se l’ologramma è un modello del cervello, deve essere anche un modello della mente; la mente stessa, cioè, deve essere un costrutto olografico. In altre parole, la generazione della mente dal substrato cerebrale olografico è analoga alla costruzione di un’immagine dal substrato della piastra olografica. Ma se l’immagine olografica riflette un oggetto fisico, la mente cosa riflette? 

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo prendere a prestito due concetti. Il primo è il motto ermetico “ciò che è qui è ovunque, ciò che non è qui non è da nessuna parte” o anche “ciò che è sotto è sopra”, ovvero l'uomo come microcosmo, la monade alchemica. Il secondo è l’inconscio collettivo di Carl Gustav Jung: alla base della mente della specie ci sarebbe un substrato olografico di archetipi non formati dell'inconscio collettivo; l’individualità deriverebbe da una frammentazione dell'ologramma totale. Ogni individuo mente-cervello è quindi come un frammento dell'ologramma totale, contiguo a tutti gli altri, e poiché ogni frammento contiene il tutto, come il principio olografico c’insegna, ma la frammentazione è tale che la realtà che ne è riflessa è deteriorata nel dettaglio fino a essere inintelligibile, essa può essere rappresentata e compresa nella sua vera interezza soltanto quanto tutti i frammenti dell'ologramma collettivo vengono riuniti. Ma se non siamo a nostro agio con il concetto di inconscio collettivo, possiamo parlare benissimo di universo, o di Dio. Prima di Jung, già Gottfried Leibniz aveva riflettuto sugli stessi concetti elaborando la definizione di Monade cosmica: Leibniz vedeva l’universo come una camera (un ambiente) a pressione, composta di una sostanza semplice che è ovunque e la stessa in ogni sua parte, ed è in virtù dell’influenza e interazione fra le sue parti, o monadi (sorta di “atomi spirituali”, tutte identiche perché appartenenti alla stessa sostanza-Monade), che nascono la specificità e la particolarità. Ne consegue che il concepimento non è altro che una trasformazione, importante finché si vuole, ma non una generazione, perché l’anima esiste già prima del concepimento e precede il corpo fisico. Se supponessimo che il substrato monadico esistesse in una quinta dimensione einsteniana, ovvero in una quarta dimensione spaziale, sarebbe possibile far coesistere i principi olografici con le leggi della relatività. 
Altre considerazioni che possiamo trarre da queste premesse sono che la realtà ha una natura vibratoria, e che il mondo così come lo percepiamo non è che un prodotto della mente: il cervello non farebbe altro che dare una forma a una serie di onde d’interferenza (come il segnale di una tv non sintonizzata, per intenderci) sulla base di forme che è stato programmato a riconoscere come reali.

L'universo è un'illusione


5 commenti:

  1. Concetti complessi è decisamente al di là delle mie capacità cognitive.
    Però, stando sul semplice, mi riesce difficile immaginare l'esistenza di un "elemento" collettivo preesistente alla nascita individuale dal quale ogni singolo "attinge" senza sapere, essendone inconsapevolmente una parte.
    Ma ammetto che mi piacerebbe se fosse vero.

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    1. Ci sono numerosi fenomeni che sembrano invece avallare una tale ipotesi, ma ammetto che una simile concezione delle cose è (forse) più concepibile spiritualmente che razionalizzabile tramite il nostro intelletto.

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  2. "Altre considerazioni che possiamo trarre da queste premesse sono che la realtà ha una natura vibratoria, e che il mondo così come lo percepiamo non è che un prodotto della mente: il cervello non farebbe altro che dare una forma a una serie di onde d’interferenza (come il segnale di una tv non sintonizzata, per intenderci) sulla base di forme che è stato programmato a riconoscere come reali. "
    E' una teoria che spesso torna, in un certo senso è stato anche da base della serie dei film di "Matrix", facendo ovviamente i debiti paragoni.

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    1. A riprova che anch'io (giustamente) ho pensato alla saga di Matrix c'è quell'immagine che campeggia là in cima al post. ^_^

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