"Rocco Costanzo, Angelo Tiraboschi e Gustavo Nicolis sono insegnanti e colleghi presso una scuola di
Verona. Nascondono un segreto tremendo: tutti e tre hanno commesso tremendi delitti proteggendosi
con un codice di comportamento creato appositamente. Ma quando una domenica pomeriggio Angelo
Tiraboschi infrange le regole per soddisfare i propri istinti, uccidendo un ragazzo che si prostituiva, il trio
piomba nell'orrore. Angelo Tiraboschi è il primo a morire in modo violento e impressionante. La
maledizione che l'ultimo giovane assassinato gli ha lanciato prima di spegnersi inizia a mostrare il suo
alone di minaccia. E Rocco Costanzo, il leader del gruppo, comincia ad avere degli incubi, nei quali le
loro vittime tornano a visitarlo."
Quella che avete appena letto qui sopra è la sinossi dell’ultima fatica di Fabrizio Valenza, autore
veronese già apparso un paio di altre volte da queste parti. Parlare di “ultima fatica” in realtà non è del
tutto corretto, in quanto una prima versione di questo testo era già stata mandata alle stampe una
decina di anni fa dai tipi di Dunwich Edizioni. Questa nuova uscita, riveduta, corretta e rinnovata dal
punto di vista grafico (sono state anche aggiunte alcune illustrazioni interne, ma solo nella versione
cartacea), è quindi un re-launch che Valenza ha inserito nella sua collana autoprodotta con l’etichetta
“Albero del mistero”, attraverso la quale l’Autore, ormai da qualche anno, sta mettendo ordine in tutti i
suoi lavori. Una nuova edizione che, a differenza della prima, è passata sotto i miei radar e che ha fatto
crescere in me, memore delle esperienze precedenti, la voglia di accaparrarmela.
Si è trattato di una lettura piacevole e piuttosto veloce che mi ha impegnato per il tempo corrispondente
a un volo di linea Milano-Bari (inclusa l’attesa al gate). Ora è giunto il momento di scriverne sul blog e
qui iniziano le prime difficoltà, perché mi accorgo che è difficile non fare spoiler, visto che la sinossi è
volutamente piuttosto vaga su quale sia il “tremendo segreto” dei tre protagonisti.
Per fortuna, spulciando qua e là in rete, mi accorgo che nessuno ha avuto la mia stessa esitazione e
anzi lo stesso Valenza, sul suo sito internet, parla esplicitamente di “pedofilia” in relazione a questo
libro. D’altra parte, mi viene da dire, non serviva una laurea per arrivare subito al nocciolo della
questione.
In questo articolo non utilizzerò ulteriormente il termine che poco fa ho messo nel virgolettato, anche
perché a mio parere non descrive completamente la tara mentale degli individui ai quali si riferisce. Se
nella letteratura scientifica i predatori sessuali di questo tipo vengono catalogati come “persone malate
che si autoconvincono che le proprie inclinazioni sessuali siano una forma d’amore”, nella realtà
delle cose, e questo ben lo mette in luce il romanzo di Valenza, la definizione più corretta è “figli di
puttana fatti e finiti”, che è poi l’appellativo che userò da qui in avanti al posto di termini più generici
come “protagonisti” o “personaggi”.
I tre figli di puttana in cui Valenza ci chiede di immedesimarci
rispondono ai nomi di Rocco, Angelo e Gustavo. Il primo è il più figlio di puttana di tutti, un individuo
freddo e calcolatore con un lungo curriculum di malefatte impunite che non hanno fatto altro che
esaltarne l’ego; un uomo cinico, imperturbabile, preciso e metodico che avrebbe potuto andare avanti
all’infinito se non avesse incrociato la sua strada con altri due figli di puttana uguali a lui, ma più
maldestri. Il secondo è un figlio di puttana medio, simile al primo ma con un fardello di incertezze che
aumenta esponenzialmente con la consapevolezza di essere a sua volta braccato. Il terzo, dei tre, è il
figlio di puttana più malato, uno che segue il suo istinto predatorio senza badare a nulla e che,
sistematicamente, si ritrova a dover mettere insieme i pezzi che la sua impulsività ha seminato
tutt’attorno a lui.
Quando i tre si incontrano nella scuola dove in teoria sono stati assunti per insegnare delle cose,
riconoscono subito l’uno nell’altro lo stesso perverso istinto sessuale. Sarà una questione di chimica, o
forse di cenni o di sguardi che altri non colgono, ma a ogni singolo membro del terzetto certe cose non
sfuggono e i tre colgono l’occasione per unirsi in una sorta di diabolica compagnia di merende
all’interno della quale tutti possono continuare a compiere misfatti con la certezza di poter disporre
dell’infame supporto di altri figli di puttana uguali a loro. Le cose vanno bene per un po’, ma sarà
proprio il terzo componente, il più problematico del gruppo, a infrangere il codice di condotta al quale i
tre affidavano la loro sicurezza.
Sorge a questo punto una riflessione. Siamo tutti d’accordo che in letteratura (ma è così anche nel
cinema) l’eroe bello e senza macchia non attira più il pubblico e che, specialmente negli ultimi anni, v’è
stato un proliferare di personaggi cattivi ai quali scrittori e registi hanno affidano le redini delle loro
opere, protagonisti malvagi a cui però, e questo è il punto principale, spesso viene assegnato un
passato tragico e qualche buona qualità per renderlo accettabile. Detto in altro modo, si cerca di
spostare il cattivo in una sorta di zona grigia, che lo rende un po’ meno cattivo e che fa di lui un
personaggio in cui ci si possa identificare e per cui si possa in qualche modo parteggiare. Anche
perché, è bene ricordarlo, le motivazioni che muovono i passi di alcuni degli antieroi letterari più celebri,
prima tra tutte la gelosia o la sete di vendetta, sono perfettamente riconoscibili e accettabili in quanto
parte dell'animo umano.
Se poi l’antieroe ha un bell’aspetto e carisma da vendere, allora è ancora più facile cadere vittime della
seduzione del male.
La tendenza di elevare a eroe un antieroe è esplosa certamente negli ultimi anni,
ma ha origini ben più lontane. Mi vengono in mente, così sui due piedi, esempi celebri come “Intervista
col vampiro” di Anne Rice, “Il silenzio degli innocenti” di Thomas Harris, “American Psycho” di Bret
Easton Ellis, ma potrei risalire a veri caposaldi del genere come “Cime tempestose” della Brontë e
“Notre-Dame de Paris” di Hugo.
Non v’è invece alcuna “zona grigia” in “Codice infranto” di Fabrizio Valenza (così come non ve n’è, per
esempio, in “Il popolo degli alberi” di Hanya Yanagihara, che con il libro di Valenza ha in comune il tema
della pedofilia, e solo quello, e che cito qui solo perché so che, proprio per il tema controverso, una
parte dei lettori l’ha trovato rivoltante).
I tre personaggi di cui seguiamo le vicende sono figli di puttana a
tutto tondo. In loro non c’è alcuna traccia di umanità, non c’è pentimento, non c’è nemmeno un passato
burrascoso che possa aver agevolato la loro discesa nelle tenebre, davvero non c’è nulla per cui il
lettore possa provare anche solamente un minimo di empatia. E infatti Valenza non offre loro alcuna
possibilità di redenzione, anzi ci tiene a riservare loro l’uscita di scena che il lettore si aspetta.
Sono
certo che non è stato facile, per l’Autore, affrontare un testo così fuori dalle righe, ma il risultato è sotto
gli occhi di tutti e bastano pochi click su una qualsiasi piattaforma di e-commerce per ritrovarselo nel
lettore e averne conferma.
C’è naturalmente anche un pizzico di soprannaturale, come ci si aspetta da un qualsiasi romanzo di
Fabrizio Valenza. Su “Codice infranto” aleggia l’ombra sinistra di Gerione, mostro dantesco
caratterizzato da volto di uomo, zampe di leone e corpo di serpente. Posto a guardia dell’ottavo cerchio
infernale, Gerione è allegoria della falsità proprio per il suo essere serpente che si cela dietro un
rassicurante volto umano, che in questo caso è ancora più rassicurante in quanto appartenente a chi
dovrebbe essere una guida per gli anni più critici della nostra giovinezza.
Una giovinezza infranta che
viene in parte descritta (per quanto la si possa descrivere) utilizzando un artificio apprezzabilissimo,
quello di inserire nel testo dei piccoli richiami a una delle opere più angosciose di E.T.A. Hoffmann,
“L’uomo della sabbia” (Der Sandmann, 1815), storia di una progressiva schizofrenia che affonda le sue
radici in un trauma infantile. Ma il leggendario Sandman, che si diceva rubasse gli occhi dei bambini
che non andavano a letto, una volta tanto non emerge dinanzi a piccoli protagonisti con un passato
rimosso e non risolto (di questi il libro di Valenza proprio non ne parla), ma evolve, si trasforma e si
materializza agli occhi di coloro che alla vita hanno deciso di non dare alcun valore.
Capisco che si possa avere un moto di sollievo quando un autore, anziché glorificare i cattivi come sembra andare di moda, chiama finalmente gli str... col loro nome e li descrive per quello che sono. Non conosco comunque il libro salvo quello che ne scrivi tu qui.
RispondiEliminaA costo però di essere fastidioso, credo che si debba ricordare che "anche" il mostro è una vittima.
Cito a proposito un bellissimo film purtroppo (per me) sottovalutato, The Cell (del 2000) dove al "cattivo" viene offerto un misericordioso addio.
Non discuto l'ipotesi psicanalitica secondo la quale l'esposizione del bambino a stimoli sopraffattori è strettamente collegata a difetti nella formazione e, in seguito, a gravi disturbi nel controllo sugli impulsi. Ciononostante non riesco a riconoscere una vittima come tale nel momento in cui si trasforma in un mostro, anche se non nego che la mancanza di un corretto percorso terapeutico possa aver inciso.
EliminaComunque sia è imprescindibile mettere per sempre il mostro in condizione di non nuocere e oggi questo lo non lo si fa quasi più.