Ho sempre pensato che ci sono film che non andrebbero mai rifatti, ma al massimo omaggiati. “Point
Break” di Kathryn Bigelow (1991) rientra a pieno in questa categoria, e se tempo fa mi aveste chiesto il
titolo di un film che per scelta non avrei mai visto, nella lista avrei di certo incluso il suo remake realizzato
nel 2015 da Ericson Core, direttore della fotografia e regista specializzato in film d’azione: come si dice in questi casi, era
un’operazione, questa, di cui non sentivo nessun bisogno.
E invece, durante una pigra serata a casa di parenti, sotto le feste di Natale, mi sono rassegnato a guardarlo:
le due ore di durata tutto sommato sono volate e qualcosa di positivo nel film (con mia sorpresa) l’ho pure
trovato. E ora che sono passati abbastanza anni dal momento della sua uscita da permettermi di
compararlo con l’originale senza rischio di farmi influenzare da altri (sono sicuro che all’epoca fioccassero le
recensioni, qui sulla blogosfera), posso dire anch’io la mia. Ovvero, innanzitutto, che sono solo lo spunto di
base, i nomi dei personaggi e poco altro ad accomunare i due lavori, e questo è allo stesso tempo il difetto
maggiore (per chi sostiene che un remake debba essere il più possibile fedele al capostipite) e il maggior pregio di questa nuova
versione (per chi è invece alla ricerca dell'originalità a tutti i costi).
Nel primo film, l'agente dell'FBI Johnny Utah si finge un surfista in erba per infiltrarsi nel mondo del surf e
inchiodare quattro uomini sospettati di far parte di una banda che da oltre tre anni rapina banche celando i
volti dietro maschere di gomma. Il suo antagonista principale, Bodhi, è l’erede spirituale degli hippy, e non
è casuale che il film sia ambientato nella culla della controcultura e centro nevralgico della summer of love
(e, tristemente, anche dell’«estate di Charles Manson»): la California.
Da Los Angeles parte infatti il viaggio che
Billy e Wyatt intraprendono nel manifesto generazionale di Dennis Hopper “Easy Rider”, del 1969. Ma non solo: la vicina San Francisco fa da sfondo a "Fragole e sangue" (Stuart Hagmann, 1970), altro grande classico della cultura hippy tratto da un saggio di James Simon Kunen; in California, e più precisamente nella Death Valley, c'è lo "Zabriskie Point", un luogo che deve parte della sua fama all'omonimo film diretto da Michelangelo Antonioni nel 1970; e nel
vicino Laurel Canyon un numero incredibile di band e di rock star si formarono e divennero famose a livello
nazionale e spesso anche planetario negli anni ‘60, finendo per sovrapporre i loro ideali a quelli del
movimento pacifista.
L’equazione surf uguale natura uguale libertà è un leitmotiv di quegli anni, nella
musica come al cinema, ma, musicalmente parlando, il surf, celebrato da gruppi come i The Beach Boys, alfieri di un movimento noto come "Surf Music", iniziò un lento declino attorno al 1964, come ci conferma Jimi Hendrix nel brano "Third Stone from the Sun" del 1967 (dove lo si sente lamentarsi che “you’ll never hear surf music again”). Fortunatamente l'equazione rimase, trasferendosi gradualmente verso concetti come automobili, velocità, donne (e stupefacenti) celebrati, ora gli uni ora gli altri, da un'intera generazione di songwriter stregati dal sole della California (Mamas And Papas, Byrds, Jefferson Airplane, Grateful Dead, CSN&Y). Da qualunque parte lo si guardasse, il rock era soprattutto un simbolo di libertà individuale da contrapporre
all’american way of life e al suo stereotipo dell’automa fagocitato dal lavoro, il businessman votato al
successo e al Dio denaro tipico della società capitalistica e conformista che due decenni dopo produrrà la
generazione degli yuppies.
Il personaggio di Utah, bravo ragazzo senza ombre che serve il suo paese, avrà un’evoluzione psicologica
che alla fine lo porterà, se non proprio ad abbracciare la filosofia di Bodhi, quantomeno a rispettarla e a
comprenderla nel profondo. Un tema che, mi pare, manchi nel remake, che quasi inverte i fattori: Johnny
Utah è qui un ex pilota di motocross che amava mettersi alla prova in condizioni estreme, ha visto morire il
suo migliore amico proprio durante una di queste gare ed è diventato un agente anche forse per espiare il
suo senso di colpa per quella morte, ma dentro di sé sente ancora forte il richiamo di quello stile di vita
libero e ribelle e a mio parere è per questa sua inclinazione innata, più che per un vero contrasto
ideologico, che permette a Bodhi di seguire “la sua via”, anche se questo avviene al di fuori di quella legge
che come federale dovrebbe adoperarsi per far rispettare. Il primo Utah è influenzato dal carisma di Bodhi
quanto basta per volersi allontanare dal sistema che a quest’ultimo ha dato la caccia, il secondo Utah
continua a far parte di quel sistema anche se ne avverte i limiti.
Non c’è neppure più una netta connessione
geografica con l’America: se il film di Bigelow è profondamente radicato nella (contro)cultura americana,
quello di Core è globalista per concezione - e per svolgimento, con un Bodhi venezuelano e una narrazione
che si snoda tra diverse zone e continenti.
Nel remake l’azione comincia sulla costa nord della Francia, dove
la banda è intenta a cavalcare un’onda gigantesca, ma si sposterà ben presto in giro per il mondo, perché il
surf è solo la quarta di otto prestazioni sportive estreme note come le otto prove di Ozaki che il gruppo di
poliatleti/rapinatori sta tentando di portare a termine (ne vedremo poi altre come il base jumping con tuta
alare, lo snowboarding e l’arrampicata libera); non si tratta solo di sport e di superamento fisico dei limiti
umani, ma di un percorso di crescita spirituale che accantona preghiere e teologie e passa per una sfida
alle forze della natura, come esplicita l’intenso dialogo tra Johnny e Bodhi alla vigilia della quinta prova:
«Quindi saltiamo giù e raggiungiamo il Nirvana?» «Non è così semplice. Osaki parlava di equilibrio. Ma non si tratta di rischiare la vita per un proprio tornaconto, si tratta di diventare parte di qualcosa che è molto più grande di noi. Le otto prove onorano le forze essenziali della Terra, e Osaki voleva compierle per riportare l'attenzione del mondo sulla bellezza di questo pianeta, sul fatto che sta morendo. Dobbiamo dare più di quanto si riceva, se vogliamo fermare la distruzione del posto che ci ha dato la vita. Questa è la via che seguiamo, questo è quello che cerchiamo, questo è quello che inseguiamo. Non siamo qui per avere l'illuminazione, per trovare il Nirvana, siamo qui per salvare questo posto diventando tutt'uno con esso. E per farlo devi riuscire a dimenticare te stesso, completamente. Non si torna indietro.»
Bigelow dipinge Bodhi come un uomo fondamentalmente buono, non violento (se non per necessità) e che
rapina banche solo per potersi permettere di inseguire l’onda perfetta in giro per il globo senza dover
lavorare. Questa, diciamo così, purezza d’animo del Bodhi originale svanisce del tutto nel remake: il nuovo
Bodhi è un individuo disincantato, ben conscio dei mali del mondo e desideroso di giustizia (eco)sociale (ad
esempio per la morte di Ono Ozaki per colpa delle manovre di una baleniera, di cui come suo amico e
discepolo è stato testimone impotente, o per lo sfruttamento delle miniere da parte di una multinazionale)
ma anche dell’ottenimento di vette spirituali altissime, e ben deciso a usare la violenza per raggiungere i
suoi scopi, partendo dalla stessa disciplina del corpo (per questo la prova di “iniziazione” di Johnny per
l’ingresso nel gruppo non può essere che quella lotta a mani nude, à la Fight Club, mostrata nella parte
iniziale del film). In altre parole, quello che nell’originale poteva essere letto in modo un po’ ingeneroso
come un inno al superomismo edonista (ingeneroso perché lo vedo come una scelta filosofica e ideologica,
come mi pare di aver già implicitamente affermato) è nel remake una sorta di fanatismo ecologista che
spinge Bodhi e gli altri a voler restituire alla natura e ai poveri ciò che l’uomo e i ricchi capitalisti,
rispettivamente, hanno loro sottratto, come dei novelli Robin Hood – due forme diverse di hybris.
La critica velata alla degenerazione del Buddismo zen/new-age in ecologismo radicale è ben centrata, anche
se non è proprio un tema così originale.
In generale la trama del remake, incluso ciò che lo differenzia dal
primo “Point Break”, è interessante, e, cosa che mi ha fatto gioire, incentrata sul legame mentale e quasi
trascendente tra Johnny e Bodhi e soprattutto non depotenziata (parer mio) dall’inutile storia d’amore tra
Johnny e Tyler, una delle poche cose che nel film di Bigelow ho sempre trovato superflua e che qui non ho
rimpianto; la stessa Tyler/Samsara nel nuovo “Point Break” non è la ragazza carina e con la testa sulle spalle
della porta accanto, ma una sorta di groupie che segue il gruppo dedicandosi, come gli altri, agli sport
estremi e alle rapine. Stimolante è anche il tema delle scelte e della responsabilità personali nei confronti di
queste scelte, che è poi il senso ultimo del crearsi un proprio percorso e seguirlo a dispetto di tutto e tutti
senza rimpianti e a prescindere dalle conseguenze.
C’erano insomma tutte le premesse perché il film non
dico uguagliasse l’originale, ma almeno si reggesse sulle proprie gambe con dignità. In parte lo fa – anche se
forse a dirlo è quella parte di me che riesce a vedere del buono in tutto, o quasi; tuttavia, dove questo
rifacimento di un classico fallisce è nell’elemento forse più importante di un film, la sceneggiatura. Una
sceneggiatura che predilige l’azione e l’adrenalina a scapito della coerenza narrativa.
Si pensi per esempio a
come il Johnny di Ericson Core intuisce come per ispirazione divina che i rapinatori “benefattori” stanno
eseguendo le prove di Ozaki, riuscendo quindi a prevedere quando e dove si troveranno per la prossima
prova nel vasto mondo, mentre la Bigelow aveva perlomeno fatto basare l’avvio dell’indagine su degli indizi
concreti (i campioni di sabbia e terra ritrovati sulla scena del delitto, e riconducibili a una specifica parte
della costa, e la ripresa delle natiche di uno dei rapinatori esibite a favor di telecamera con i segni
tipici dell’abbronzatura dei surfisti e dei frequentatori di spiagge); in Francia, poi, Johnny identifica subito i
nostri uomini in mezzo a moltissimi altri appassionati di surf; e così via.
A parte questo, manca del tutto lo
sviluppo di alcune premesse della trama, come la promettente invettiva ecologista che poteva tradursi in
una critica ragionata e ficcante allo strapotere delle multinazionali e della finanza e invece si stempera in
qualche frase moraleggiante o poco più.
Anche il finale mi ha deluso, perché uno Utah che si riconferma
tutore dello stato e della legge non è, secondo me, coerente con lo sviluppo psicologico (che in realtà
coincide con un suo ritorno alle origini, ovvero all’amore per lo sport estremo e per la libertà che questo
consente) che il personaggio dovrebbe aver raggiunto dopo tutto quello che ha visto e fatto, ma
soprattutto visto fare. Come detto, il “doppelgänger” di Utah non getta via il distintivo e resta nelle maglie
di un sistema che si identifica con quello giusto, quello delle regole del vivere civile, ovvero della legge e
dell’ordine, ma che cela anche molte falle e ingiustizie (non a caso le maschere dei rapinatori raffigurano
figure istituzionali (*), come a dire che il primo ladro, che rapina risorse ai cittadini, è proprio lo stato). La
libertà creativa è sacrosanta, ma se c’è un elemento che nel remake non avrebbe stonato è proprio quel
gesto di Utah, quello con cui l’uomo compie il dovere che era stato chiamato a fare ma poi ripudia quel
meccanismo, se ne chiama fuori. Per concludere, mi pare che il regista non abbia saputo scegliere tra il
tema ambientale e quello spirituale, finendo per non approfondire a dovere nessuno dei due. Se lo scopo
era fare un film pieno d’azione e che intrattenesse, direi che ci è riuscito appieno; viceversa, anche se non
tutto è da buttare, forse qualcosa era da rivedere.
(*) Nell’originale si tratta di maschere degli ex presidenti Johnson, Nixon, Carter e Reagan: per par condicio, due
democratici e due repubblicani.
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