La punteggiatura di "Io?" presenta caratteristiche uniche. Si è cercato, in questa edizione italiana, di renderla più fedelmente possibile (salvo alcune inevitabili licenze).
Ecco, se avessi letto questa nota prima di recarmi in cassa, probabilmente questo Adelphi sarebbe rimasto sullo scaffale da dove l'avevo preso. Invece, mannaggia a quei furbacchioni dell'editore che fu di Roberto Calasso, il libro è finito tra le quattro pareti di casa mia e di quella nota, scritta in carattere minuscolo là dove non mi sarei mai sognato di andare a leggere, mi sono accorto solo mentre ero comodamente stravaccato sul divano.
Non ho nulla, per carità, contro un certo tipo di scrittura sperimentale (chiamiamola così), ma chi ha letto per esempio qualcosa di José Saramago sa bene quanto possa essere difficile, e spesso sconfortante, intraprendere un percorso che con il piacere della lettura un po' fa a cazzotti. "La punteggiatura è come la segnaletica stradale, troppa distrae dalla strada su cui si viaggia." disse l'autore portoghese in un'intervista rilasciata al The Economist. E infatti la sua caratteristica più peculiare era proprio quella di infrangere tutte le regole della punteggiatura, e ciò che a una persona normale potrebbe causare qualche problema di comunicazione a lui portò un Premio Nobel.
Lo scrittore berlinese Peter Flamm non è certo famoso come José Saramago, e la sua prosa nemmeno si avvicina a quella di uno scrittore come Roberto Bolaño, il "cui "Notturno Cileno" (lettura dalla quale sono fresco reduce) sfiora vette ancora più estreme dal punto di vista ortografico. Il suo stile tuttavia è più o meno simile e, se vale qualcosa, Flamm può vantarsi di aver anticipato di qualche decennio la tecnica dei suoi più illustri colleghi.
Con il libro già tra le mie mani, le possibilità erano due: lasciar perdere e dedicarmi ad altro oppure fare un tentativo nella speranza di ricavarci qualcosa. Ho optato per la seconda possibilità, complice il fatto che era un giorno di festa, che fuori pioveva, e che non avevo nessuna intenzione di alzarmi dall'abbraccio di quel divano per prendere un altro libro.
L'esperienza, ma anche il "segreto" rivelato da Saramago nella frase riportata sopra, insegna come comportarsi in queste occasioni: badare alla strada e non fare troppo caso alla segnaletica, il che equivale a dire che bisogna tapparsi il naso e gettarsi a capofitto nella lettura, come se si stesse cercando di battere un record di apnea in assetto variabile. Detto in altro modo, occorre leggere a perdifiato senza preoccuparsi di assorbire tutto quello che si legge. Se dopo cinquanta pagine non ci sarà rimasto nulla la scommessa sarà da considerarsi già persa; viceversa, se proveremo lo stimolo di proseguire nella lettura, allora lo scrittore avrà già vinto, e noi con lui.
Siamo in una trincea della prima guerra mondiale, non troppo dissimile da quelle ben descritte da Céline o da Remarque nei loro più iconici capolavori. La notizia della fine della guerra è appena giunta e quella sarà per tutti l'ultima notte. Inizia la festa, ma c'è ancora una pallottola, un'ultima pallottola che, sibilante, cerca disperata il suo bersaglio. E così il soldato, il più sfortunato di tutti, muore. Un secondo soldato lo guarda negli occhi, che lo fissano, morti, ammiccanti dietro palpebre socchiuse. Con il cuore che batte all'impazzata, il secondo soldato si porta una mano al petto; sopra il battito, in una tasca della divisa, un passaporto, quello stesso passaporto che pochi istanti prima riposava nella tasca del soldato morto.
Qualcosa di strano è appena accaduto, ve ne sarete accorti, qualcosa che noi lettori non metabolizziamo immediatamente ma che accende una spia in un angolo della nostra mente, una spia luminosa come quella che indica il livello dell'olio sul cruscotto, che non possiamo non notare ma che per quieto vivere preferiamo ignorare. Ce ne accorgiamo poche pagine più avanti quando scopriamo che il sopravvissuto, anziché prendere un treno per tornare a Francoforte dalla sua famiglia, salta su un treno per Berlino, città dove vive l'altra famiglia, quella del caduto.
Da quel momento egli, Wilhelm Bettuch, di professione fornaio, cambia identità, diventa quell’altro uomo, Hans Stern, un rispettabile medico borghese. "Il suo passaporto, il suo nome, il suo destino", sono le parole che gli ronzano per la testa in quell'allucinante primo capitolo. Giunto a Berlino egli riconosce, o crede di riconoscere, la propria moglie, il proprio figlio e la propria madre, che sono però rispettivamente moglie, figlio e madre dell'altro. Di ciò trova conforto nel fatto che tutti sembrano riconoscerlo... tutti tranne uno, il cane. Anche il tempo si contrae e si dilata: «Non è forse un anno esatto che sono tornato» egli si (e ci) domanda: e a quel punto anche a noi cade la mascella, perché pensavamo che al massimo fossero passati pochi giorni dall'ultima trincea.
E mentre il lettore sprofonda in un buco nero, la mente del protagonista esplode in un turbinio di sensazioni distorte. Egli infatti ricorda, o crede di ricordare, altrettanto bene l'altra sua famiglia, quella di Francoforte, l'altra sua madre e la sorella che egli aveva a carico, e che ora che lui non ha fatto ritorno dal fronte è precipitata nella più totale disperazione. E che rientra prepotentemente nella sua vita.
"Il passaporto, il nome dell'altro, il nome che ha trascinato con sé l'altro, è misteriosamente congiunto a lui, indissolubili volto e nome, e ora io sono l'altro e devo vivere fino in fondo la sua morte, la sua vita, mentre lui giace laggiù sotto terra nel fango, e io mi infilo nella sua vita come in una cornice..."
Il romanzo di Peter Flamm può essere interpretato in molti modi e non sarò certo io a suggerire quale tra quelli sia il migliore; anche perché l'Autore stesso sembra divertirsi a depistare continuamente il lettore aggiungendo nuovi elementi che smentiscono i precedenti, e che a loro volta verranno smentiti da quelli successivi. Solo il cane sembra essere sempre perfettamente consapevole di ciò che sta accadendo, e non per niente è proprio lui la chiave che spingerà il protagonista a riflettere su sé stesso e sulla propria vita, a cercare delle risposte a domande che nemmeno è così facile porsi, a ciò che sembra incombere su quelle pagine che forse intendono solo descrivere la vicenda di due uomini, un borghese e un proletario, che la guerra aveva avvicinato e che la fine della stessa avrebbe separato se non fosse accaduto ciò che è accaduto. Qualcosa di, come dire, strano, forse soprannaturale, o forse tremendamente umano.
Peter Flamm, pseudonimo dietro cui si cela lo psichiatra tedesco Erich Mosse (1891-1963), scoprì la passione per la letteratura quando era ancora un giovane studente di medicina e "Io?" (Ich?, 1926) è il suo romanzo d'esordio, a cui seguirono altri tre romanzi che scrisse parallelamente alla sua attività di medico. In quanto ebreo fuggì dalla Germania nel 1933, ai primi soffi del vento nazionalsocialista. Transitò da Parigi e si stabilì definitivamente negli States nel 1934. Tra i suoi pazienti nomi di rilievo come William Faulkner, Albert Einstein e Charlie Chaplin. Morì a New York nel 1963.
E dell'uso della punteggiatura in questo romanzo? Che dire? Dovrei a questo punto ammettere che non è andata così male. Pagina dopo pagina i miei iniziali timori hanno iniziato a svanire. Non fatevi quindi spaventare, come me, da quell'avvertimento dell'editore. Non era davvero necessario.
Io pure non impazzisco per per le scritture "sperimentali". Ho letto Saramago (che comunque almeno rispettava l'ordine narrativo in "Le intermittenze della morte"), ho letto Marinetti (sebbene "Come si seducono le donne" sia forse il libro meno futurista del creatore del futurismo), ho provato e mollato subito "Ulisse" di Joyce, mi sono messo a ridere leggendo alcuni estratti di Gertrude Stein, e a vomitare leggendone alcuni di Joyce Carol Oates, ho condiviso in pieno l'affermazione di Truman Capote secondo il quale quello di Jack Kerouac "non è scrivere, è dattiloscrivere, sono due cose diverse"...
RispondiEliminaInsomma, per creare una prosa particolare e non banale non serve andare oltre il buonsenso e la norma: un bravo scrittore sa creare la sua prosa senza dimenticare che esiste anche la narrazione, e che il testo non si esaurisce nelle singole parole ma occorre che si sia un senso compiuto nella loro sequenza.
La sperimentazione può essere anche accettabile ma non bisognerebbe perdere di vista il lettore, che ci mette un attimo a mettere da parte il libro. Qualcuno potrebbe anche avere pazienza e proseguire, dando magari fiducia al nome dell'autore, ma il più delle volte ciò non accade.
Elimina