Sono appena riemerso dalla lettura di “L’urlo” (The Shout) (sono almeno alla quinta o sesta in una decina
d’anni: è un testo molto breve) come si riaffiora dopo un’immersione prolungata, o come una foglia che
ripiombi a terra dopo essere stata a lungo in balia del vento. E già le mie dita cercano la tastiera, perché
voglio fissare le mie impressioni prima che svaniscano, frastornato da quello che forse è poco più che un
gioco letterario e tuttavia è pieno di suggestioni, e che mescola il sogno e l’inconscio, ma anche immagini,
oggetti e parole ricorrenti.
L’Autore di questo racconto, Robert Graves (ovvero Robert von Ranke Graves, 1895 – 1985), professore
e poeta inglese, fu anche un apprezzato saggista e un romanziere. Alla sua attività di saggista ho già
accennato in passato (per esempio, qui e qui), e certo ne
avrei parlato ancora, se una certa serie di post non si fosse arenata nelle sabbie mobili della mia mancanza
di tempo e d’ispirazione; stavolta mi dedico invece a una sua opera di narrativa (che è anche l’unica
incursione nel fantastico di una carriera in prosa che conta quasi solo romanzi storici), e alla trasposizione
per il cinema che ne è stata tratta.
“L’urlo” venne dato alle stampe nel 1929, portato in Italia dalla casa editrice Theoria nell’87 e riedito da
Adelphi nel 2010 (in entrambe le edizioni la traduzione è di Ottavio Fatica, autore anche della
postfazione). Di che cosa parla è presto detto. In un istituto psichiatrico britannico un uomo incontra un
paziente, Charles Crossley, che gli narra una strana storia in cui lo scatenarsi di forze occulte, o forse solo
dell’irrazionale, si insinua in un rapporto di coppia consolidato, ove il sogno fa da ponte tra realtà e
fantasia: un doppio sogno, come in Schnitzler (“Doppio sogno” fu scritto negli stessi anni de “L’urlo”,
all’incirca), dove la psicanalisi gioca però un ruolo marginale (Graves se ne dissociò, freudiana o
junghiana che fosse), in una cornice da fabula milesia sul modello di Apuleio o Petronio, o almeno è così
che la definisce l’uomo che la ascolta, il misterioso visitatore. Questo breve testo si diverte a flirtare con
la mitologia a più livelli, uno immediatamente percepibile e uno più nascosto (lo vedremo poi), il che
giustifica i suoi aspetti più surreali. Ci sono dettagli che emergono a ogni rilettura oppure si prestano a
nuove interpretazioni (almeno, per me è stato così), ma c’è anche un parallelismo tra la finzione e la storia
personale di Graves svelato nella postfazione: si tratta del triangolo amoroso che legò Robert Graves e sua
moglie Nancy Nicholson alla poetessa americana Laura Riding – che, incidentalmente, Graves credeva
una sorta di strega e il cui alter ego letterario è ovviamente Crossley.
Occorre però procedere un passo alla volta, perché la trama è abbastanza intricata. La storia di Charles si
svolge in tre fasi: all’inizio c’è l’incontro con il visitatore durante una partita di cricket nel campo del
manicomio; la seconda fase dura il tempo della partita: mentre i due segnano i punti, Charles narra del suo
incontro con Richard e Rachel, una coppia di Lampton; nell’epilogo, a partita finita termina anche il
racconto di Charles e poco dopo arriva un temporale: allo scatenarsi del tuono Charles sembra avere una
crisi d’identità, poi minaccia di uccidere tutti con il suo urlo e questo è il preludio al coup de théâtre
finale, che per ovvi motivi non rivelo e che, come tutto in questo racconto, può avere più chiavi di lettura
e lascia quindi il tutto ammantato di mistero.
C’è quindi il tipico espediente da racconto gotico, una cornice metanarrativa in cui una storia nella storia
viene narrata a beneficio sia del visitatore di Charles che del lettore di Graves. Richard e Rachel, la coppia
menzionata sopra, sono due persone molto affini e la loro “singolare comunanza” è simboleggiata proprio
dalla contingenza dei loro rispettivi sogni: una notte, infatti, Richard ha sognato di passeggiare sulle dune
con un uomo con cui discettava sull’ubicazione dell’anima, e Rachel di incontrare sulle dune proprio suo
marito e un altro uomo che si tenevano a braccetto e di essere scappata via, perdendo nella fuga la fibbia
di una delle sue scarpe, che lo sconosciuto aveva poi raccolto.
Il mattino dopo i due si raccontano i propri
sogni e quello di Richard si rivela premonitore: mentre passeggia (Rachel è rimasta a letto), l’uomo
incontra un individuo che non ha mai visto prima e che risponde al nome di Charles Crossley. Crossley è
rimasto colpito dal sermone che ha appena ascoltato in chiesa, in cui il pastore asseriva che l’anima
immortale dell’uomo risiede in pianta stabile nel corpo, tesi che lui confuta con forza («L’anima non era
né il cervello né i polmoni né lo stomaco né il cuore né la mente né l’immaginazione. Insomma era una
cosa a parte. Era perciò più probabile che risiedesse fuori dal corpo anziché dentro.»).
Con Richard
rievoca il suo passato presso una tribù di aborigeni australiani: da un “diavolo” ha appreso un dono, se
così vogliamo chiamarlo, la capacità di emettere un “urlo terrificante” in grado di uccidere o portare alla
pazzia chi lo sente. Infine, si autoinvita a casa della coppia. Richard, che è sia incuriosito che spaventato
dal racconto dell’altro uomo, gli chiede di fargli udire il suo famoso urlo; ma alla fine non sentirà nulla,
perché all’ultimo secondo, per la paura, deciderà di tapparsi le orecchie. Nel mentre Rachel, sola a casa,
ha avuto un incubo che risuona dello stesso terrore appena sperimentato da suo marito.
Qui Graves ci ha già servito la prima stranezza, perché l’incontro e il ménage à trois sembrano narrati da
un narratore esterno e onniscente, dato che in alcun modo Charles, a meno di avere delle facoltà
paranormali, potrebbe conoscere i sogni, i pensieri e i dialoghi privati dei due coniugi. Se anche fosse non
possiamo averne la certezza, perché Crossley è pur sempre un paziente psichiatrico e quindi un narratore
inaffidabile: non sappiamo fino a che punto dica la verità o non esprima, invece, un suo desiderio
inconscio o un incubo. Secondo i suoi medici è solo un mitomane, in fondo innocuo, convinto di avere
ucciso tre persone in Australia con il suo urlo di “male puro” ma di essere ormai rimasto senza poteri
perché ha l’anima in frantumi.
Solo nella misura in cui l’abilità di confezionare sogni, i propri e quelli
altrui, può essere considerata una forma di magia, allora Crossley è davvero un mago, capace di gettare
immagini oniriche strampalate (sogni di serpenti e torte di mele, il tentatore e il frutto proibito) in pasto al
suo medico, alimentando quella “fissazione antipaterna”, che questo gli ha affibbiato, solo per sbeffeggiare
la psicanalisi; per gli internati e i visitatori è solo una persona con una fantasia molto fervida, un
affabulatore che confeziona recite e spettacoli di magia. Ma pure il suo visitatore, colui che ci riporta il
suo racconto, è inaffidabile (scopriremo poi che quando incontra Charles è ospite di Richard e Rachel
eppure, inspiegabilmente, non mostra di conoscerli) e potrebbe benissimo aver mal compreso o travisato
le parole di Crossley. Come vedete, sbrogliare la matassa è una missione quasi impossibile.
A un certo punto, all’improvviso, Rachel s’innamora di Charles, che possiede la fibbia della sua scarpa.
Cacciato da casa in malo modo, Richard si convince di essere impazzito («Siccome non poteva credere
che Rachel e Charles fossero impazziti contemporaneamente, il pazzo doveva essere lui.») e va alla
ricerca della propria anima per distruggerla, ma non la trova («Ora, ammesso che si possa riconoscere
l’anima di un altro essere umano, uomo o donna, non è mai dato riconoscere la propria.»), spaccando al
suo posto “una brutta selce deforme di un marrone screziato” che appartiene a qualcun altro.
Rimane l’interrogativo su chi abbia sognato chi e cosa, che perfino in chiusura non trova una risposta
univoca. È Charles a essersi intrufolato e ad aver manipolato i sogni della coppia? O sono marito e
moglie ad averlo evocato in sogno, forse alla ricerca di distrazione da un rapporto troppo chiuso, troppo
esclusivo, monotono? Se Laura Riding è l’immagine speculare di Charles Crossley e la moglie di Graves
quella di Rachel, Graves è Richard oppure è forse l’uomo senza nome che conosce Charles in manicomio?
Ottavio Fatica scrive nella postfazione che “tentativi di lettura [della storia] in chiave mitica andranno a
urtare contro un muro cieco”, argomentando ampiamente il suo pensiero: il racconto mitico dei gemelli
chiaro e scuro che, uccidendosi a turno, si succedono nel matrimonio con la dea-regina (il riferimento è
naturalmente a “La Dea Bianca” dello stesso Graves) cozza con la vicenda de “L’urlo”, in cui la coppia
per rimanere unita deve per forza di cose “far fuori” il terzo incomodo; e il risveglio nel “tempo del
sogno” degli aborigeni (tra cui Charles ha affinato le sue capacità, o così dice) non avviene, non c’è
progresso o evoluzione («[...] i coniugi non fanno che dormire e risvegliarsi.» scrive Fatica «Ma non è
vero risveglio, non si dà illuminazione. Quando escono dal sogno è per entrare in in un incubo
peggiore»).
Tuttavia, lo stesso Fatica ammette anche che tutta la narrazione è permeata di riferimenti
mitici, e io aggiungo che alcuni di questi non sono ancora forse stati svelati: in molte religioni antiche
c’era la concezione dell’anima come di qualcosa di esterno al corpo, come testimoniato da Frazer nella
sua opera omnia “Il ramo d’oro”, un concetto che ha qualche punto di contatto con quello ben più recente
di non-località; quanto all’urlo terrificante, l’urlo “panico” è centrale nel mito di Pan così come il grido di
guerra lo è nelle cronache di guerra dei popoli antichi (i Berseker del corpus mitologico norreno, i
guerrieri del “Mabinogion”, gli spartani, gli Apache, eccetera). Non solo, perfino quello che in teoria è l’elemento
risolutivo della nostra storia, il tuono, si ricollega al mito. Il tuono, infatti, veniva concepito come la
parola creatrice del dio - nel teatro antico, il dio era il deus ex machina che veniva in soccorso dei
protagonisti e delle loro umane vicende. C’è poi la questione della famosa fibbia persa da Rachel (in
sogno?) che sembra il viatico di quella magia simpatica sempre illustrata da Frazer; e così via.
Ma dopo tanto cianciare, è giunto il momento di dedicare un po’ di spazio anche alla trasposizione
cinematografica del racconto di Graves: “L’australiano” (The Shout, 1978). La regia viene offerta in
primis a Nicolas Roeg, ma il regista inglese deve rinunciare per via di impegni pregressi e il progetto
viene quindi affidato al polacco Jerzy Skolimowski, che firma anche la sceneggiatura assieme a Michael
Austin. I protagonisti sono tutti attori già affermati all’epoca, quali Alan Bates nei panni di Crossley,
John Hurt in quelli di Richard (qui ribattezzato Anthony) e infine Susannah York in quelli di Rachel. Il
regista riconferma un talento visivo che valorizza al massimo gli splendidi paesaggi naturali del Devon, in
Inghilterra, e vi innesta una colonna sonora composta da due terzi dei Genesis (Tony Banks e Michael
Rutherford) alternata a rumori ambientali e diegetici molto evocativi (ovvero i suoni della natura: il
vento, il rumore delle onde, il ronzio delle api...); non solo, come Richard nel racconto, Anthony è un
musicista e quanto sperimenta con il suono, questo sembra quasi scaturire dal suo inconscio (Crossley, che si
ritiene superiore a lui, gli dirà infatti che la sua musica è vuota e priva di spessore, o qualcosa del genere).
Quando Skolimowski decide di girare il suo lungometraggio, si trova davanti alla difficoltà di dover
adattare un testo molto breve e con una trama risicata e suo grande merito è quello di aver saputo ricavare
da un materiale così scarno uno dei migliori film della sua carriera. So che molti non saranno d’accordo
con me, ma pazienza. Mi consola, per una volta, essere d’accordo con la critica, che ha premiato il suo
lavoro con il Gran Premio Speciale della Giuria al 31° Festival di Cannes, ma mi fa comunque male al
cuore leggere le tante opinioni contrarie scritte da persone che ritengono che la sceneggiatura sia carente, la
trama confusa e il film di una lentezza esasperante.
Ho la sensazione che nessuno possa capire appieno il film senza aver prima letto “L’urlo”. Ad esempio,
noto che dettagli come la funzione della fibbia e delle pietre nella magia di Crossley spesso non vengono
colti oppure vengono ritenuti irrilevanti, quasi come se i personaggi agissero in maniera irrazionale, senza
alcuna ragione plausibile. E poiché il film, sfrondato dei suoi elementi soprannaturali, non sembra che
l’ennesima riproposizione (da “Teorema” in poi*) della storia dell’ospite inatteso venuto a turbare la
quiete di un nucleo familiare per distruggerlo dall’interno, è chiaro che resta un’unica interpretazione
possibile: la passione dionisiaca, pagana che spazza via il puritanesimo ammuffito, o, detto in altri
termini, l’irrazionalità del desiderio sessuale che smaschera, antropologicamente, i limiti della religiosità e
della morale borghese, con queste che cedono alle “sirene” delle culture più primitive, come quella
aborigena, espresse proprio da quell’urlo allo stesso tempo ancestrale e liberatorio (che, difatti,
Anthony/Richard non riesce a riprodurre neanche volendo).
Ma nel film c’è anche un accenno al
materialismo, alla “carestia morale” della società odierna** (vedesi la predica del sacerdote), e c’è,
innegabilmente, anche l’intrusione del potere di un ordine spirituale diverso e in teoria superiore, o, se
vogliamo, della superstizione (l’urlo liberatorio di Charles, ma anche la fortuna di Anthony, anche se a
memoria mi pare un aspetto più sviluppato nel racconto), che mostra anche i suoi limiti (con tanto di
morale finale: ogni dono deve essere meritato e non usato per scopi subdoli, come la fine infausta di
Crossley dimostra). Mentre quello che difetta al film è, se vogliamo, quell’essere sempre in bilico tra
realtà e sogno che è proprio solo del racconto di Graves. Sebbene io non abbia voluto dire troppo in
proposito (per non anticipare troppo della trama), lo svolgimento della storia è tutt’altro che acclarato,
perché Graves ha giocato con il lettore fino all’ultimo, suggerendo che Richard potrebbe aver sognato
alcuni fatti; mentre Skolimowski non ha saputo o voluto mantenere l’ambiguità, dando alla sua storia uno
svolgimento più lineare e creando un film che sa sì essere grossomodo fedele all’originale, ma anche
molto personale.
* Pier Paolo Pasolini, 1968
** Si spiega così, nel film, la questione delle pietre: in momenti di carestia spirituale, l’anima può
trovare rifugio in un albero o in un sasso. Come se la terra avesse una sua saggezza ancestrale che,
magari sempre in virtù di quella magia simpatica tanto cara a Graves, può cedere agli uomini alla
bisogna.
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