Come forse già saprete, alcuni fanno risalire l’etimologia della parola amore ad a-mors, dove la a
privativa nega la parola che segue: amore, quindi, vorrebbe dire “senza morte”. Non importa ora stabilire
quanto questa interpretazione sia corretta o verosimile, ma bisogna ammettere che è convincente, perfino
invitante, perché ognuno di noi sa, intuitivamente, che l’amore può sconfiggere la morte, che dove c’è
amore non c’è morte e viceversa.
Purtroppo, come nel libro di cui vi parlo oggi, l’equazione funziona
anche al contrario: l’amore negato porta la morte nel cuore e, spesso, anche nel corpo.
“Jans deve morire” (Jans muß sterben), è il titolo di un racconto del 1925 di Anna Seghers (1900-1983)
ed è anche la frase che una madre, Marie, mormora quando suo figlio Jans si ammala di una malattia che
sembra lasciargli poche possibilità di guarigione.
A quelle fatidiche parole (fatidiche in senso letterale:
premonitrici, profetiche), il padre, Martin Jansen, s’indigna, ma è un sentimento fuggevole che lascia
presto il posto a una prematura rassegnazione. Sarebbe forse comprensibile (ma anche no) se solo Jans
non avesse appena sette anni e non fosse stato, fino al giorno prima, un bimbo sano e robusto impegnato
in cose da bambini, tra la scuola e i giochi nei pressi del ponte sul fiume attiguo; ora è invece uno spettro
che vegeta prima nel suo letto, poi su una poltrona accanto alla finestra, raggrinzito e rattrappito come un
vecchio.