venerdì 20 giugno 2025

Cinema, metacinema, miniature e manie di controllo (Pt.2)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Ma veniamo - senza alcuna intenzione di paragonarle, neppure fra loro, a livello qualitativo, ma solo in merito a come usano l’espediente oggetto del post - a opere ben più recenti. 
Nel bellissimo “Hereditary – Le radici del male” di Ari Aster (2018), la famiglia di Annie è un microcosmo in cui, in un meccanismo da tragedia greca, si manifesta il karma familiare, quel male ereditario che suo malgrado la stessa Annie contribuisce a perpetrare. Non a caso Annie costruisce miniature, e il modellino a cui sta lavorando è proprio la casa del film, come ci mostra la telecamera che, nelle scene iniziali del film, ci porta al suo interno e poi scivola fuori, nella realtà filmica (una tecnica, quella della telecamera che precede gli attori negli ambienti e vi indugia, che sarà usata anche in altri momenti nel lungometraggio). 
Qui la presenza del modello consente un gioco di specchi, non solo in senso fisico ma anche esoterico: ciò che è dentro, è fuori. L’ereditarietà si manifesta anche nella propensione artistica, diciamo così, delle donne di famiglia, nella loro urgenza di rappresentare il reale; ma traslando, il talento di Annie nella figlia si deforma, diventando grottesco (pensiamo all’armonia delle sue miniature a paragone con i brutti e inquietanti ritratti di famiglia abbozzati da Charlie, così come l’aspetto fisico di quest’ultima è una distorsione della bellezza materna). Tutta la famiglia, osservata nel dettaglio, porta i segni di qualche trauma psicologico, a partire proprio da Annie. Sappiamo che la strega, colei da cui tutto è partito, è la madre di Annie, nonna di Charlie e Peter, ma è l’ansiosa e depressa Annie a fallire nell'intento di eliminare il male (il mostro, il demone): al contrario è lei, padrona e creatrice del plastico e quindi del nucleo familiare, a consentirgli di scivolare ancora al suo interno. 
Nel suo incessante e apparentemente eterno lavoro sulle miniature Annie riflette l’impossibile compito di tenere assieme la sua famiglia. Rileviamo, en passant, come ci sia anche un’altra versione in miniatura della casa di famiglia, la casa sull’albero inquadrata in apertura del film; ma questa avrà un ruolo più diretto nello svolgimento della storia, dato che il finale è ambientato proprio al suo interno. 

Hereditary (Ari Aster, 2018)
Più recente, “Holland” (2025) di Mimi Cave è invece un film con una trama affatto nuova (si veda ad esempio “A good marriage” di Peter Askin, del 2014, tratto da un racconto di Stephen King) il cui maggior motivo di interesse potrebbe anche essere la presenza di Nicole Kindman, per quanto plastificata, nella parte femminile principale. La trama verte sulla scoperta da parte una moglie che suo marito e padre di suo figlio è in realtà uno spietato serial killer. 
Fred, oculista, Nancy, insegnante, e il figlio Harry abitano a Holland, una piccola città americana dove feste come il “Tulip Day” dimostrano gli sforzi dell’amministrazione pubblica per tener vivo il legame folcloristico con l’Olanda del XVIII secolo. La sua illusione di una vita perfetta viene meno quando Nancy trova nelle tasche del marito la prova che le ha mentito a proposito di una trasferta di lavoro e che forse la tradisce: comincia quindi a indagare, e mentre cede all’attrazione che prova per Dave, un collega messicano, sembra quasi cercare un pretesto per lasciare Fred senza troppi sensi di colpa. Altre ricevute e qualche Polaroid avallano i suoi dubbi e anzi le fanno sospettare qualcosa di peggio. 
Anche in questo caso abbiamo un modello che viene ripreso fin dai titoli di testa: si tratta di una riproduzione della città di Holland a cui Fred lavora con suo figlio nel garage di casa. Ci sono sequenze oniriche in cui Nancy, da sola o con il figlio, cammina per le strade del plastico di Holland che personalmente ho trovato molto disturbanti e non esito a definire una delle cose migliori del film. La terribile verità è che non si tratta di un innocente hobby: esaminandolo, Nancy scopre che ognuna delle case riprodotte nel plastico apparteneva a una vittima di omicidio (una delle Polaroid di Fred raffigura un’insegna presente anche nel modellino). Mappare le case nel plastico la porta a ripercorrere le tracce di diversi omicidi; Nancy inchioda Fred proprio grazie ad esso. Qui il titolo del film ha un doppio riferimento, alla città in cui è ambientato e alla città nella città in miniatura, che è poi la sequenza delle scene del crimine, e il plastico diviene la rappresentazione di una realtà perfetta che si infrange a contatto con la verità. 

Holland (Mimi Cave, 2025)
Gli altri due lungometraggi che ho preso in esame sono entrambi del 2024. Il primo, “The beast within – Il male dentro” di Alexander J. Farrell, è un buon film ma è anche poco incisivo, perché un pelino troppo indeciso fra l’essere un horror (gli unici veri momenti di paura sono nella parte finale) o un dramma familiare. 
Noah (Kit “Jon Snow” Harington), Imogen, la figlia Willow e il nonno materno Waylon vivono assieme in una proprietà isolata. Si respira un generale clima di depressione: Willow ha un problema respiratorio (a volte la vediamo attaccata a una bombola di ossigeno); una volta al mese i genitori passano la notte fuori e il padre rientra a casa con i vestiti sporchi di sangue; Noah ha crisi di rabbia improvvisa e incontrollata; la madre ha spesso lividi sul corpo. Insomma, lo spettatore intuisce subito che il segreto da cui i genitori cercano di proteggere Willow è una terribile eredità familiare: Noah è un lupo mannaro, una volta al mese si trasforma e anche quando è normale ha un’indole violenta e lunatica. 
Tutto il film è teso a mostrare la scoperta di Willow, ma la cronologia altalenante e i flashback cercano anche di insinuare che in realtà la licantropia non sia altro che una metafora che nasconde una “ordinaria” situazione di abusi domestici. E il modellino? Ce n’è uno della casa di famiglia, in legno: un passatempo per Willow che, abitando in culo ai lupi, non ha neanche un amico con cui giocare. Non è solo un gioco, però, perché vi sono riprodotti anche i membri della famiglia, Willow rivolge alla miniatura del padre la domanda che non può fare a lui direttamente (“Dove te ne vai sempre?”) e riproduce nel piccolo gli avvenimenti che immagina stiano accadendo fuori dalla sua vista. Una porta che si apre, una che si chiude nella casa di famiglia trovano un parallelo nei rispettivi close-up sul modello. Manca, toh, solo una scena in cui viene distrutto dalla furia del “patriarca”, prefigurando l’ineludibile dissoluzione della famiglia, ma immagino non si possa avere proprio tutto. 

Heretic (Scott Beck e Bryan Woods, 2025)
Ed eccoci arrivati all’ultimo film. Forse non tutti ci avranno fatto troppo caso, perché non compare su schermo molto a lungo, ma c’è un modello anche in “Heretic” (2024) di Scott Beck e Bryan Woods, il film del rilancio (e della consacrazione) attoriale di Hugh Grant al di fuori della sua zona di confort, cioè quella del belloccio delle commedie romantiche inglesi. Un film che, per molti versi, sfiora il capolavoro. 
La storia comincia nel modo più classico: due ragazze bussano alla porta sbagliata. Ad aprire alle mormone Sorella Barnes e Sorella Paxton è Reed, un affascinante signore agé che le riceve nel suo soggiorno per discettare di religione. La casa è isolata, vetusta ma ben tenuta, eppure una sensazione strisciante di inquietudine e di allarme si insinua nelle due giovani donne e nello spettatore: è tutto molto curato, preciso, ma si vede fin troppo il tentativo di renderlo accattivante e accogliente. L’uomo, poi, si rivela tutt’altro che ingenuo in fatto di religione e con la sua dialettica cerca di convincerle della fallacia delle loro credenze in modo sempre più aggressivo: i ruoli si scambiano, la logica si trasforma in dogmatismo e l’ateo si dimostra più fanatico delle credenti. 
Oppresse dall’ambiente e dal padrone di casa, le due cercano di andarsene, ma si accorgono che non ci sono vie d’uscita. L’uomo allora getta la maschera: le lascerà andare solo se rinnegano la propria fede. Ma quando le mette di fronte a due porte ("Belief" e "Disbelief"), le due scelgono quella della fede, e finiscono imprigionate in un sotterraneo labirintico, scoprendo peraltro che entrambe le porte conducono allo stesso luogo. Reed crede che “siamo in balia del caso e del caos”: è ossessionato dalla religione, che accusa di non avere nulla di spirituale e di essere soltanto un sistema di controllo delle masse; paradossalmente, però, è lui stesso affetto da mania del controllo. 
Il plastico della sua proprietà, a cui lavora nel suo studio, e che riempie di piccole figurine grezze, esprime proprio questa fissazione. Molto bello il set del film che ricostruisce la casa di Reed e i suoi sotterranei di sapore dantesco. A un certo punto Sorella Paxton, risalendo dalla parte più profonda del sotterraneo, rientra di corsa nello studio e la scena è girata in modo singolare, con la telecamera che la segue dall’alto come se si trovasse all’interno del plastico, per riprenderla di nuovo a dimensioni naturali quando varca la porta - da una finzione all’altra, da una scatola cinese all’altra. Di sicuro è un vezzo del regista, molto bello da vedere, ma ha anche un suo senso narrativo, perché Paxton lo esamina per trovare una via d’uscita, certa che, con la sua mania per i dettagli, il suo carceriere l’avrà certo riprodotta fedelmente nel plastico. E così è. 

Questa piccola carrellata, che spero abbiate apprezzato, termina qui. Naturalmente siamo ben lontani da ogni qualsivoglia pretesa di completezza. Se mi fossi fermato a pensarci un po' di più (o se avessi fatto una ben più banale e furbetta ricerca in rete) sicuramente avrei trovato altri esempi, magari anche più calzanti, ma non era quella la mia intenzione. Il rischio di finire per scrivere uno speciale lungo tre mesi era davvero dietro l'angolo e, conoscendomi, sarei finito ad analizzare film le cui "miniature" sarebbero state addirittura più suggerite che reali. Chi mi avrebbe impedito di citare esempi nei quali un essere onniscente guarda al mondo come una persona normale guarda un modellino? E senza scomodare il divino sarei forse arrivato a citare "The Truman Show", chiaramente una forzatura di cui sono certo nessuno dei miei sporadici lettori avrebbe sentito il bisogno. Mi sono quindi fermato solo dopo pochi esempi che, da un lato, sono certamente i primi che mi sono venuti in mente, dall'altro lato rappresentano alcune delle visioni più sorprendenti a cui abbia assistito nel recente passato. 
In futuro non è impossibile che io possa riprendere uno dei fili di questo discorso, ma se mai dovessi farlo sarebbe solo per "fotografare" queste opere da un'altra angolazione, visto che i motivi di interesse che essi offrono vanno ben oltre il particolare che ho catturato qui.

Heretic (Scott Beck e Bryan Woods, 2025)

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