venerdì 5 ottobre 2012

Serpenti e piercing

“Le cose che pensavo in quel momento, quello che avevo davanti agli occhi, la sigaretta che tenevo tra l’indice e il medio, niente sapeva di reale. Ebbi la sensazione di essere da un'altra parte, che mi guardavo da lontano. Non posso credere a niente.  Non posso sentire niente. Gli unici momenti in cui riesco a percepire chiaramente di essere viva è quando provo dolore fisico. Io il mio futuro non lo vedo, non so nemmeno se ne ho uno, di persone care non ne ho, e della vita, perennemente sbronza come sono, che ne posso sapere?“ 
Quanti di voi hanno un tatuaggio, magari una semplice farfallina su una spalla? Quanti di voi hanno un piercing, magari un semplice orecchino? Sono sicuro che siete in tanti. Vi siete mai fermati a pensare quanto può essere lontano il limite al quale possiamo arrivare? Ho appena terminato il romanzo Serpenti e piercing di Hitomi Kanehara, e da questo prendo spunto per parlare di  body art, e più in generale del contesto in cui la narrazione si svolge, ovvero il Giappone, il paese che più di ogni altro la gente ama e allo stesso tempo odia (e io non faccio eccezione alla regola).

Nella terza di copertina si dice che con “Serpenti e piercing” (era il 2004) la Kanehara ottenne uno straordinario successo di pubblico e di critica e fu la più giovane autrice ad aggiudicarsi il famoso premio Akutagawa: considerato che nacque nel 1983, all’epoca aveva appena 21 anni. Confesso che non sapevo nulla di tutto ciò e che ho voluto cimentarmi con questo libro esclusivamente perché in precedenza avevo visto il film che ne è stato tratto nel 2008, “Snakes and Earrings” (Hebi ni piasu) diretto da Yukio Ninagawa.
Libro e film sono praticamente identici, senonché il film si porta appresso una fastidiosa patina di artificiosità che nel libro è assente. Il film non è abbastanza sporco per mostrare gli abissi della mente umana, e gli manca anche quel po’ di cinismo che ad esempio ho visto in Vegetarian. Il libro l’ho trovato un po’ più interessante, anche se la scrittura è asciutta e priva di qualsiasi vezzo; non saprei onestamente che valore letterario attribuirgli, credo che il suo valore stia nel contenuto più che nella forma.

La protagonista Luì Nakazawa (“Luì da Luis Vuitton”), una ragazza di 19 anni, qui inizialmente descritta come una sorta di barbie-girl, una sera in un locale conosce Ama, un punk con una cresta di capelli rossi e il corpo costellato di piercing e tatuaggi, di cui uno in particolare, che raffigura un dragone, che gli copre gran parte della schiena. Ma quello che colpisce di più la fantasia della ragazza è che lui ha la lingua biforcuta, con due estremità indipendenti come quelle di un serpente, quella che in gergo si chiama split tongue. Per chi non lo sapesse, ci pensa l’autrice già nella seconda pagina a spiegare di cosa si tratta, per bocca proprio della sua protagonista: “Lo split tongue lo fanno soprattutto quelli un po’ fuori: modificazione corporale, come la chiamano loro. Ci si fa un piercing sulla lingua, si dilata a poco a poco il foro, poi si stringe l’estremità rimasta con un filo interdentale, o da pesca, infine si dà l’ultimo taglio con un colpo di bisturi o un rasoio e il gioco è fatto. Così mi spiegò lui la procedura. Più o meno tutti seguono questo metodo, continuò, anche se c’è qualcuno che senza mettersi il piercing si fa direttamente il taglio col bisturi. Ma non è pericoloso? Se uno si morde a fondo la lingua finisce per morire, sapevo io, no? A quella domanda I’uomo-serpente rispose come se niente fosse: ma no, l’emorragia si blocca con un colpo di saldatore. È molto più veloce, mi dirai, ma per me è andato benissimo il piercing. Ci vuole un po’ più di tempo, ma viene meglio invece che tagliarla tutta d’un colpo. A immaginare la scena del colpo di saldatore su una lingua inzuppata di sangue mi sentii drizzare i peli sulle braccia.”

Neanche Luì sa bene perché, ma non appena la vede scatta qualcosa dentro di lei e decide di farsi dividere la lingua. La ragazza si trasferisce nell’appartamento di Ama e Ama le presenta Shiba, il suo tatuatore di fiducia che è anche dedito alla body modification. Luì decide di farsi fare anche un tatuaggio simile a quello di Ama, e comincia così a trasformare il suo corpo e parallelamente ad isolarsi sempre di più, scomparendo a poco a poco dalla società, mentre è sempre più travolta dalla sua ossessione. Nonostante il suo aspetto Ama ha una personalità un po’ naïf e le si affeziona subito, mentre lei apparentemente è più distaccata. A quanto mi hanno detto questo “ribaltamento” dei comportamenti maschile e femminile in Giappone non è raro. Luì lavoricchia saltuariamente, è anoressica, beve troppo, e soprattutto ha tendenze masochiste. Shiba invece è un sadico e la violenta relazione sessuale che si crea tra loro scatenerà in Luì il desiderio di essere uccisa da lui.
Si potrebbe avere la tentazione di pensare che Luì abbia una personalità debole e si dedichi alla body modification per puro spirito di emulazione, ma in realtà c’è molto più di questo. Per gran parte della storia, che lei racconta in prima persona, Luì non ci dice molto di se stessa, solo verso la fine accenna al fatto che ha dei genitori, una famiglia. “Una volta terminato il tatuaggio e lo split tongue come mi sarei sentita? Andare avanti e cambiare da sola quelle cose che se si campasse normalmente non cambierebbero mai nel corso della vita. Può voler dire ribellarsi a Dio, o anche solo credere in se stessi.” 

Serpenti e piercing è il racconto di una gioventù smarrita, disillusa, incapace di affrontare il presente e impossibilitata a sperare in un futuro, nell’insicurezza di quello che sono e di quello che vorrebbe essere. Luì è consapevole che modificare il suo corpo non le permetterà di reinserirsi nella società neanche se lo volesse, e persino di avere un lavoro normale. Non lo dice apertamente, ma noi lo capiamo: ha bisogno di sentire il dolore per sentirsi viva, per conservare un’identità, fosse anche un’identità avulsa dalla società, e per questo è disposta a manipolare il proprio corpo, fino alle estreme conseguenze. Vuole avere il pieno controllo della situazione, come avviene del resto anche nei rapporti codificati all’interno della famiglia giapponese, in cui la donna viene perlopiù relegata in casa nel ruolo di moglie e madre e in compenso esercita sulla vita domestica un controllo completo e totale. 
Luì mi ricorda Shannon McFarland, la protagonista di “Invisible monsters” di Chuck Palaniuk, ma con una differenza sostanziale. Luì ha bisogno di mostrare il proprio dolore agli altri e questo credo abbia molto a che fare con il fatto che sia giapponese, che viva in una società nella quale i formalismi contano più di ogni cosa e non si mostrano mai i propri sentimenti agli altri, menchemeno il dolore, dove esistono i rapporti di convenienza ma quelli umani e basta sono rari. Sì, magari non ne è consapevole, ma secondo me Luì vuole scrivere sulla sua pelle, modificare il suo corpo per parlare di sé, come chi scrive mette i propri pensieri su carta, proprio come Murasaki Shikibu, la donna che scrisse il “Genji monogatari” ovvero il “padre” di tutti romanzi giapponesi… come Hitomi Kanehara ha scritto “Serpenti e piercing? Ho letto che la Kanehara ha un passato di ragazza inquieta, di scuole frequentate saltuariamente e di liceo interrotto e sapendo questo è facile pensare che il libro sia in parte autobiografico, se non per gli avvenimenti narrati, quantomeno per i sentimenti.

L’isolamento nel quale il Giappone visse per secoli – tra l’altro protraendo il feudalesimo ad oltranza, quando in Europa c’erano già stati il Rinascimento e la Rivoluzione industriale - le norme morali di comportamento e i rigidi rapporti gerarchici apportati dal confucianesimo, uniti al fatto che si facesse discendere la famiglia reale direttamente dalla dea Amaterasu, tutto ciò diede vita in tempi antichi al fenomeno dei samurai e al suicidio rituale, e in tempi più recenti al patriottismo, nazionalismo e spirito di sacrificio portati agli eccessi. Proprio sullo spirito di sacrificio il Giappone fece leva per risollevarsi dalla batosta della seconda guerra mondiale, e se questo portò ottimi frutti dal punto di vista materiale, rendendolo nel giro di pochi anni una superpotenza economica, dall’altra non fece altro che aumentare il senso di smarrimento dei cittadini, acuito col passare degli anni dalla disillusione verso il capitalismo. Visti da fuori, i giapponesi sembrano tristi, inquieti, frustrati e stanchi. Il Giappone è oggi sinonimo di paese ipertecnologico ed è lì che nascono le mode e i fenomeni più assurdi, dalle miriadi di sette religiose che hanno grandissima influenza sulla vita di tutti i giorni  - o forse assurgono solo a pretesto per condizionamenti sociali – al fenomeno degli hikikomori, ovvero coloro che si isolano volontariamente dalla società, al sesso vuoto praticato ed esibito con la moda dei love hotel e della prostituzione giovanile, al grande numero di suicidi e di siti internet per aspiranti tali e la lista potrebbe continuare.

La body modification mi ha sempre incuriosito. Penso che, tranne per che per chi la pratica, sia del tutto incomprensibile. Qui si parla però di qualcosa di davvero irreversibile: i piercing lasciano dei segni, ma si possono pur sempre togliere. Molti tatuaggi si possono cancellare con il laser, e anche questo lascia dei segni. La split tongue invece è qualcosa di molto, molto più estremo. Naturalmente la body modification non è un fenomeno solo giapponese (tra l’altro credo che certe pratiche siano illegali in alcuni paesi). Dopotutto, non è forse vero che la prima forma di body art, il tatuaggio, nacque nella società tribale, ora come simbolo del passaggio all’età adulta a simboleggiare il perpetrarsi di antichi valori, ora come celebrazione di fasti o successi? È anche vero che il tatuaggio era pratica maschile, è un caso quindi che Luì, una donna dai sentimenti “maschilizzati”, ne voglia uno? E che poi si spinga a una pratica più estrema, esibendo una sopportazione del dolore superiore a quella di molti uomini?

La body art potrebbe essere un modo per uccidere simbolicamente il proprio io e crearsene uno nuovo, uno slegato dalla perfezione estetica canonizzata dalla moda e dalla pubblicità, uno che ci renda unici. E per ritornare, anche se solo nelle intenzioni, ad un’era primigenia, “vergine”, che forse ad alcuni calza meglio di quella moderna. Per alcuni forse il tatuaggio (o altro) è l’esperienza più spirituale, mistica possibile. Un’esperienza di libertà. Ecco, nel libro tutto questo manca e forse è questo il suo più grosso difetto. È un libro monco. Il finale aperto non ci mostra il compiersi della trasformazione di Luì, né fisica né emotiva. Che sia stata mancanza di coraggio dell’autrice, o incapacità, o cosa? Questo è per me il vero mistero. Perché alla fine della storia vorrei sapere cosa ne sarà adesso di Luì, e invece il libro finisce improvvisamente lasciandomi il rimpianto delle cose lasciate a metà.

17 commenti:

  1. Io credo che il desiderio di modificare il proprio corpo nasca dalla disperata ricerca di un identità, di un appartenenza da parte di chi la pratica.
    Molti sentono il bisogno di appartenere a una "tribù".
    Probabilmente è una risposta alla crescente "spersonalizzazione" della società moderna, personalmente però non lo proverei mai...non mi ritengo abbastanza spersonalizzato per provare il desiderio di aderire a questa pratica.

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    1. Sono d'accordo. Dopo aver cercato "split tongue" su google ed aver visto alcune immagini davvero vomitevoli, credo che più che di spersonalizzazione si possa parlare di demenza.

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  2. Ho cinque tatuaggi, mia madre uno fatto da "grande", mio fratello, ho perso il conto. Credo tu abbia centrato il senso ( almeno il mio) del tatuarsi. Desiderio di libertà, di essere unico, di avere sulla pelle un tratto indelebile di vita, che sta lì, eternamente, a dispetto del tempo che passa. Ogni tatuaggio ha un senso, un percorso e mentre tutto scorre, mentre tutto passa, lui ti resta appiccicato addosso, lui non ti lascia. Per me non è ricerca di identità, è la firma della mia identità che cambia, si evolve, eppure è presente a me stessa come un tratto indelebile. Legegrò il libro. E' pericoloso il confine tra la trasformazione e la ricerca del se. Sempre, anche quando non è esteriormente palesata.
    Raffaella

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    1. Il tatuaggio di per sè è la fotografia di un momento. Se poi appartiene ad un momento che vale la pena ricordare, assume un ulteriore valore. Detto questo, io non ho tatuaggi.

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  3. Il corpo tatuato come fosse un libro sacro che trasmette riti e tradizioni mi affascina; come mi affascina la decorazione non permanente di un sua parte, però "un tatuaggio è per sempre" e per me sarebbe troppo, anche i nomi, a parte i nomi dei figli e dei genitori, per gli altri dovrebbe esserci la possibilità di cancellarli. Se poi penso che un tatuaggio, con il tempo perde colore (presumo)è come avere, oltre alle rughe, ai capelli bianchi e al corpo flaccido (ok mi fermo qui) un altro elemento che ti ricorda che stai invecchiando, che non è una cosa negativa, però perchè sottolinearlo ulteriormente?

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    1. L'inflaccidimento del corpo è una cosa da mettere assolutamente in conto. Forse ha fatto bene il cantante dei Deicide (un gruppo death metal americano) quando, proprio per evitare questo problema, ha scelto di farsi marchiare a fuoco una croce rovesciata sulla fronte. ^_^

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  4. mi piacciono i tatuaggi, e anche i piercing, ma non ne ho, almeno per il momento,...però in effetti bisogna guardare bene fino a dove è lecito spingersi, la "split tongue" è effettivamente una cosa da dementi, ma conosco gente che l'ha fatta :(

    Grande rece, cmq!

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    1. Chi lo ha fatto avrà sicuramente messo in conto di non poter mai più aspirare a trovarsi un lavoro normale. Potrà solo finire a scaricare pesce al mercato oppure a buttare fuori ubriachi dalle discoteche (cosa che non tutti possono peraltro fare, visto che è richiesto un certo "fisico")

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  5. Un post un po' inquietante, se devo essere sincera. Io conosco molte persone che hanno tatuaggi o piercing ma non riesco a capirli fino in fondo. Secondo me nella vita c'è già troppa sofferenza per volersene arrecare dell'altra, anche solo per un istante. Non ho tatuaggi o piercing, ovviamente. Credo però che chi li fa debba farli con un significato e non per il capriccio del momento o per una moda, anche perché fare qualcosa che fanno tutti per distinguersi dalla massa mi sembra a dir poco incoerente.

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    1. "Fare qualcosa che fanno tutti per distinguersi dalla massa". Direi che hai perfettamente centrato il punto.

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  6. Un mio amico, che ora ha tre tatuaggi, mi ha raccontato la storia del tatuaggio nel mondo europeo. Come hai accennato, viene proprio dal mondo tribale e approda negli ambienti d'elite non so se nel 600 o giù di lì. Da lì l'evoluzione è stata complessa e il significato odierno arriva è un po' discorde rispetto a quello originario, che forse ancora sopravvive in qualche popolazione non troppo contaminata dalla cultura europea.
    Io non credo che mi tatuerò mai. Non saprei cosa farmi, e sarebbe uno spreco di tempo. Il mio amico ha voluto sintetizzare tre aspetti della sua vita, per cui rispetto la sua scelta. E li ha fatti per sé, dato che sono piuttosto discreti e non in bella vista.

    Ha ragione anche @Nick che parla di identità. Un altro mio amico, che studia psicologia e da curriculum deve fare qualche ora di terapia, aveva un piercing che ha deciso di rimuovere per... boh, complicate giustificazioni sul proiettare qualcosa su un oggetto.
    Come vedi, non so nulla di prima mano! ^^

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    1. Interessante questa cosa del "proiettare qualcosa su un oggetto". Non faccio fatica a credere che lo abbia dovuto rimuovere.

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  7. Sulla modificazione del corpo non so bene cosa dire. C'è sicuramente chi la fa per sentirsi parte di una tribù, come c'è anche chi la fa solo per stupire chi gli sta attorno... ma non avendone alcuna, e non avendo intenzione di farne, non credo di riuscire a capire completamente.

    Per quanto riguarda i tatuaggi, io ne ho uno. E' piccolo, su una parte del corpo che non s'inflaccidisce né rovina troppo (il polso). Per quanto mi riguarda, rappresenta il mio obbiettivo, il mio faro, la mia certezza. Lo guardo e anche nei momenti più neri mi dà lo sprone per risollevarmi di morale, oppure per arrabbiarmi ancora di più e trasformare la delusione in energia.
    Era un'idea che mi portavo dentro da tempo e il viaggio di ritorno dal tatuatore a casa mia è uno dei miei ricordi più belli :)

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    1. Un tatuaggio in grado di trasformare la delusione in energia deve essere proprio speciale. Un pochino ti invidio...

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    2. Lo è per me :) per molti è solo una scritta stupida, ma onestamente me ne frega poco.

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  8. Un libro che lessi parecchio tempo fa e che mi rimase impresso,scolpito nella testa e nel cuore. Non ne comprendo bene il Motivo,ma mi lasciò qualcosa. La malinconia e tristezza che vivevo in quel periodo sicuramente mi influenzó nella scelta del libro(passatomi da un'amica) e lo lessi e rilessi una miriade di volte. Parla di sofferenza d'animo,e da quella poco o mai di guarisce.

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    1. È un testo amaro e malinconico, che se letto in un momento particolare della propria vita può fare davvero male...

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