Bestije (ovvero “bestie”) sono gli abitanti, alla deriva fisica e morale, di un'isola non meglio identificata della ex Jugoslavia. Una parata di personaggi senza dignità e quanto mai stereotipati (la ninfomane, il giullare, l'ubriacone, il vecchio sciroccato, eccetera), ritratti ora con verosimiglianza, ora con tragicomica vena surreale. Nessuno sembra avere davvero uno scopo in quel luogo dal fato incerto, e la vita scorre monotona nell'attesa di qualcosa che non accade mai, tra chi veglia il Capitano sul suo sempiterno letto di morte, chi mal sopporta logori ménage coniugali, chi ciondola tra l'osteria e le viuzze del paese, e chi non vive, ma s'accontenta di spiare la vita altrui alla ricerca di qualcosa da ridicolizzare e di peccati veri o presunti, pronto a lanciare la prima pietra. In una notte di tempesta però quel “qualcosa” avviene: una graziosa giovane approda, sola, sull'isola. Nonostante il suo aspetto angelico c'è chi la definisce da subito una strega, un mostro, un diavolo o più banalmente una prostituta usata e poi scaricata da marinai di passaggio. Per tutti è quasi più un'entità che una persona. Chi è, da dove viene questa misteriosa sconosciuta? È una naufraga, è in fuga da qualcuno o qualcosa, è stata abbandonata lì di proposito? Nessuna di queste domande troverà una risposta, ma da quel momento in poi nulla sarà più uguale a prima: sull'isola ognuno ha un personale motivo per bramarla e per tentare, in qualche modo, di possederla... È stato impossibile, per me, non vedere nella figura di questa giovane donna la stessa ambivalente natura dell'intera comunità isolana, un misto di innocenza e malizia, baldanza e paura, così come è impossibile non considerare il film tutto come un esercizio di satira politica oltre che morale, un'aperta critica a quell'apatia che tanta parte ha avuto nella storia (recente e meno recente) dell'ex Jugoslavia. In questo senso, un'isola in balia delle onde è la perfetta metafora di un'esistenza lasciata nelle mani del caso. O del destino. Si sa che il vulcano che non erutta mai è il più pericoloso. E quando lo fa, le conseguenze sono terribili.
Quello di cui ho parlato qui sopra è il primo film di un’ideale trilogia del regista montenegrino Živko Nikolić, scomparso nel 2001 appena sessantenne. La definizione è mia, quindi non pendetela come un assioma: il fatto è che “Bestije” (1977) e le altre due che tratterò in questo articolo sono le uniche opere di Nikolić che sia riuscito a reperire in una lingua che conosco (ed è un peccato non aver potuto visionare almeno "Samo jednom se ljubi" ovvero "The Melody Haunts My Reverie", da molti ritenuta il suo capolavoro; ma non demordo), e avendole viste in un arco di tempo relativamente breve è stato quasi automatico per me identificare alcuni fili conduttori, come ad esempio il tema della “corruzione morale” nelle sue varie accezioni.
Ma prima di procedere oltre con questo argomento vorrei spendere due parole sull’autore, la cui scarna biografia ci dice che fu un personaggio fuori dagli schemi e perciò scomodo, inviso alle autorità e a certa critica per le quali ciò che mostrava del suo paese risultava fin troppo imbarazzante. Si sa infatti che la censura è tanto più severa quanto più la storia di un paese è criticabile e la libertà personale, per ragioni contingenti o ideologiche, è limitata, ed è innegabile che, dalla seconda guerra mondiale in avanti, i territori dell’ex Jugoslavia non abbiano mai conosciuto requie - con la dittatura di Tito ed il suo tentativo di accorpare la Jugoslavia all'Unione Sovietica, la successiva disgregazione del paese e le guerre intestine che hanno riempito le cronache per anni – fornendo al regista più materiale a cui attingere di quanto potesse mai pensare di sfruttarne in una vita intera. Non che sia un caso isolato, questo…
Devo dire però che queste tre opere hanno un taglio più sociale che politico e, per quanto le due cose siano intimamente collegate, sul piano della rappresentazione questo ha sicuramente una sua rilevanza.
“Jovana Lukina” è del 1979. È un film, questo, dalle atmosfere realmente malsane. Una coppia di sposi vive una vita dura ma felice sulle montagne montenegrine. Nell’arco di un tempo relativamente breve i due vengono in contatto con diverse persone (un gruppo di sconosciuti che impiccano un uomo, una coppia formata da un vecchio e la più giovane e disinibita moglie, un’ambigua suora, un gruppo di zingari ecc.) che turbano il loro idillio. La bella Jovana sembra tentata dalle attenzioni di un altro uomo, e con l’adulterio accennato (o forse solo immaginato) sembra quasi che il film stia prendendo la forma del racconto di una tentazione erotica, ma ben presto si intuisce che non è tutto lì: la corruzione a cui stiamo assistendo è morale e non carnale. Neanche il marito ne è immune. A poco a poco Jovana e Luka sembrano cambiare personalità e perdere di vista lo scopo della propria esistenza e l’interesse reciproco. La loro vita va a rotoli. La maggior parte di ciò che viene fatto e detto nel film sembra non avere una ragione. Personaggi compaiono e scompaiono dalla scena spesso senza una logica apparente, e senza alcun nesso con quel che è avvenuto prima e che avverrà poi. Ad un certo punto i due protagonisti, insieme agli abitanti del vicino villaggio, demoliscono, letteralmente, il simbolo della propria fede. La scena in cui Jovana, spoglia degli abiti e delle proprie inibizioni, danza sulle note di una musica gitana è un vero pezzo da antologia del cinema. È solo un attimo: l’emergere del femminile in maniera così prepotente in un ambiente tanto conservatore non è possibile, e la donna è costretta ad indossare nuovamente i suoi vecchi abiti. Ma le scene emblematiche sono tante, troppe per poterle citare tutte. Jovana, che all’inizio sembra impaurita, diventa indifferente a quel che sta accadendo e infine consenziente. La vicenda comincia, si delinea e finisce con un omicidio: il primo casuale, il secondo voluto per vergogna e per paura, e l’ultimo anch’esso voluto come atto finale di un processo ormai irreversibile. E così il cerchio si chiude. È emblematico che Jovana, alla fine del film, dichiari il proprio nome usando il patronimico, guardando in camera, quasi un atto politico che avviene proprio nel momento in cui è ormai libera dalla presenza del marito e quindi il ritorno alla normalità è solo apparente, è un’illusione. Nel film ci sono pochi dialoghi, quasi tutto è affidato alle immagini. C’è chi ha scomodato paragoni con il Jodorowski meno allucinat(ori)o, resta il fatto che questo raccontare soprattutto per immagini è piuttosto suggestivo e l’aspro paesaggio montano si rivela ideale per rappresentare una solitudine e un isolamento fisico che in realtà sono prima di tutto interiori. Per me questo film potrebbe benissimo essere una lunga allegoria universale sul Paradiso perduto, ma anche rappresentare la perdita dell’innocenza di un solo popolo perso nel turbinio della Storia e disperatamente desideroso di affrancarsene.
In entrambi i film la natura – là il mare, qui la montagna - ha molto peso: non solo circoscrive l’esistenza dei vari personaggi, ma costituisce un invisibile legame con la tradizione e tutti gli schemi mentali ad essa collegati. Sarà banale dirlo, ma io credo che Nikolić sarebbe stato orgoglioso di essere definito non un regista o un regista europeo, ma un regista montenegrino, proprio perché se l’arte ha una valenza universale, è innegabile che sia possibile ed anzi auspicabile trattare tematiche universali anche e soprattutto filtrandole attraverso l’occhio dell’analisi sociale, lucida e impietosa, della realtà che meglio si conosce: quella di casa propria.
Ma Nikolić era un pessimista che sapeva ridere di se stesso (un po’ alla maniera italiana), e così una carrellata tra le sue opere è un’esperienza insieme triste e allegra, tragica ma anche comica. È il caso di “Bestije” ma anche di “Lepota poroka” (aka “The Beauty of Sin”, aka “The Beauty of Vice”, 1986), dove ritornano i temi della tradizione e del cambiamento.
Questa è secondo me l’opera più debole del lotto, con pochi momenti davvero memorabili, eppure godibile, sincera e stimolante, prima di tutto emotivamente. Ancora una volta una coppia proveniente da un contesto rurale e retrogrado si ritrova ad affrontare qualcosa di imprevisto che agisce da elemento di rottura, scompigliando le carte in tavola. È una storia semplice, quella di due persone qualunque che un giorno decidono di lasciare il natio villaggio per inseguire il miraggio di una vita migliore sulla costa, di cui un parente racconta meraviglie. Jaglika e Luka hanno l’aria di due che, più che spostarsi di qualche chilometro, abbiano attraversato una breccia temporale: timorosi, anacronistici nell’aspetto e nel comportamento, si muovono a disagio nel nuovo ambiente. Đorđ, il loro parente, è però un millantatore e un bugiardo interessato solo ai soldi e alle donne. Per interesse, Đorđ fa sì che Jaglika accetti un lavoro di cameriera presso un villaggio di nudisti, sebbene sia consapevole della gelosia del marito e della ritrosia della donna verso un ambiente tanto liberale (immorale). All’inizio è un calvario e Jaglika va al lavoro come se andasse al patibolo, ma dentro di lei palpitano desideri inconfessati e passioni sopite che l’incontro con una coppia inglese farà emergere. Questo film viene definito un dramma erotico, ma l’erotismo è tutto mentale, appena suggerito nella seconda parte, quando Jaglika (come già Jovana) si disfa degli abiti, per unirsi ai suoi amanti in un caldo abbraccio con il mare - a simboleggiare la natura tutta - come in un quadro naturalista. E Luka? Anche se sembra immune dalle tentazioni della carne (vedesi la fuga dalla prostituta, uno dei momenti di “comicità” del film, a dire il vero), si ritrova suo malgrado a cambiare, forse si rassegna… tanto che alla fine, appreso il tradimento della moglie, rigetterà la tradizione, rinunciando a fare giustizia (vendetta). Sembra, questo, un segno dei tempi, finalmente un segnale del regista, se non positivo, possibilista - sulla possibilità di accettare il cambiamento, mediare tra due eccessi (puritanesimo e libertà sessuale più sfrenata), vivere liberamente i propri sentimenti, abbracciare l’evoluzione della società senza per forza doversi omologare totalmente ad essa. Non è un caso forse che, dei film di cui ho trattato, questo sia anche il più recente.
Riscoprire oggi il cinema balcanico, specialmente quello proveniente dai paesi dell'ex Jugoslavia, è una grande opportunità per affacciarsi su un mondo che abbiamo sempre, ingiustificatamente, considerato lontano. La visione di alcuni film, come quelli citati in questo articolo (ma non solo), possono forse aiutarci a capire i meccanismi che hanno portato alla tragica disgregazione del paese, una sequenza di avvenimenti che ancora oggi sorprende la maggior parte di noi. Si è sempre parlato vagamente di "polveriera balcanica", ma cosa ha significato viverci sopra non siamo mai riusciti a capirlo del tutto. La risposta forse ce la suggerì lo stesso Zivko Nikolic, il quale, negli ultimi anni della sua vita, era solito ripetere: "People feel a much greater need for an embellishing mirror than for one that reflects their reality".
Sono d'accordo sul' interesse per il Cinema balcanico, un Cinema che attualmente sta cercando di rinascere, dal'altro si sta "occidentalizzando" con esiti a dir poco stranianti come "A Serbian Film". Un film che, per la cronaca, non ho ancora avuto il coraggio di vedere fino in fondo.
RispondiEliminaCercherò di vedere qualcosa di Zivko Nikolic in giro.
Lascia perdere "A Serbian film". Sarebbe come cercare di giudicare il cinema francese guardando "Baise Moi - Scopami". Praticamente è pornografia travestita da film d'autore. Assolutamente perdibile.
EliminaDa cercare sicuramente. Grazie della segnalazione TOM :)
RispondiEliminaPrego, prego ^_^
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