domenica 24 agosto 2014

L'uomo che restò solo sulla terra

Avete notato che dei romanzi si riporta sempre l'incipit, molto spesso degli estratti e quasi mai la fine? Certamente questo ha a che fare col fatto che, in qualche maniera, riportare il finale di un libro rischia di rovinare la sorpresa a chi dopo di noi volesse cimentarsi con la sua lettura; se sono molte le storie che non riservano un colpo di scena proprio all'ultima pagina, che magari hanno già svelato le proprie carte strada facendo, che addirittura cominciano dalla conclusione per poi raccontarne l'antefatto, è vero però che le ultime parole di uno scritto spesso, anche sottilmente, ne contengono il senso più profondo. Non una rivelazione, no, ma un pensiero che aiuta a quadrare il cerchio, che offre una chiave di lettura a volte inedita, che tradisce i sentimenti dell'autore o ne è la summa. Il mio dilemma, dunque, nel parlare di “L'uomo che restò solo sulla terra” era profondo: citare o non citare le parole che chiudono il racconto, e che costituiscono il vero testamento morale del personaggio di Sam Magruder? Ho scelto una via di mezzo: ne citerò solo una parte, lasciandovi il piacere, se lo desiderate, di recuperare il romanzo e leggere il resto da voi.

“Non vi è molto altro da dire. Non ho avuto gioie, ma solo qualche piccola soddisfazione, da questa lunga, durissima prova. Spesso mi sono domandato perché continuassi a vivere. Quello, perlomeno, l'ho imparato, e ora che sono alla fine lo so.”

“L'uomo che restò solo sulla terra” di George Gaylord Simpson, famoso paleontologo americano, pubblicato postumo nel 1996, è in bilico tra fantascienza e fantastico e vira decisamente, fin dall'inizio, verso l'esistenzialismo. Non siamo certo di fronte ad un capolavoro, ma ad un libro ben scritto sì, scorrevole e in grado di offrire diversi spunti di riflessione. Dal mio punto di vista, non è poco.
Il tema portante è il viaggio del tempo, motivo per il quale fu paragonato al ben più famoso “La macchina del tempo” di Herbert George Wells, ma vengono affrontati anche altri temi come la descrizione dei dinosauri e del loro ambiente e la teoria evoluzionistica.
Con il romanzo di Wells, per la verità, la trama del libro di Simpson non ha nulla in comune. L'unica similitudine degna di nota è anche qui ci sono personaggi che, con l'eccezione di Sam Magruder e un paio d'altri, non hanno una precisa identità ma vengono descritti usando degli stereotipi (ad esempio il capitolo 1 “Come rimanere soli” comincia con una conversazione tra lo Storico Universale, il Pragmatista, l'Etnologo e l'Uomo Comune).

George Gaylord Simpson
I paradossi del tempo mi hanno sempre affascinato, ma non è questo a mio parere l'aspetto  più interessante di questo racconto, non lo adesso così come non lo è stato quando lo lessi per la prima volta, diversi anni fa. Né lo è in generale l'aspetto scientifico (la scienza fa continui passi avanti e talvolta le nuove scoperte sembrano più incredibili della finzione!), nonostante io, come altri bambini mai cresciuti, abbia tuttora un debole per i dinosauri.
Ma innanzitutto, chi è Sam Magruder e perché ha un nome e un cognome? Sam Magruder è un cronologo, lo scopritore nonché l'unica vittima accertata della decronizzazione, un fenomeno che causa lo scivolamento nel tempo: dall'universo tempo-moto al tempo-dimensione (ovvero, semplificando il concetto, dal presente al passato). In sintesi, mentre sta facendo esperimenti relativi alla teoria dei quanti, nel tentativo di rallentare il flusso del tempo egli si ritrova catapultato in un punto imprecisato del nostro passato remoto, nudo e disarmato. Così comincia la sua strabiliante avventura senza ritorno... Magruder è anche l'unico, in virtù di questa peculiare esperienza, ad avere acquisito un più ampio senso del significato della propria esistenza - e con questo si ritorna al finale “monco” del racconto, quello riportato qualche paragrafo fa.

Quest'uomo nato nel passato (il passato del romanzo, ovviamente, ma che corrisponde al nostro futuro, il XXII secolo) e morto in un passato di molto anteriore, lasciando una testimonianza di sé che ha resistito al trascorrere del tempo, è diventato, in un certo senso, un personaggio storico: per dirla con le parole dell'Autore “Una volta che qualcosa esista nell'universo tempo-dimensione, una volta che si sia materializzato e incorporato per crescita alla sommità di ciò che ora si muove, esiste per sempre e in assoluto”. In altre parole, poiché il futuro non esiste in alcun universo è possibile scivolare solo all'indietro e Magruder, che naturalmente lo sa, una volta scivolato fino a ottanta milioni di anni prima della comparsa della vita umana (al Cretacico) ha la certezza di essere “l'unico uomo che esista e che finora sia mai esistito” e che non rivedrà mai più un altro essere umano per tutto il resto della vita.

Magruder comincia col fare quel che chiunque al suo posto farebbe: si fa prendere dalla disperazione. Poi, però, svuota la mente e si estranea, dedicando tutte le sue energie a costruirsi una vita, a risolvere i piccoli e grandi problemi di tutti i giorni. La sua priorità, per molto tempo, è restare vivo, ma poi arriva il giorno in cui ha di nuovo l'occasione di sentirsi di nuovo uno scienziato e darsi uno scopo: è quando incontra i primi mammiferi, i progenitori dell'uomo. Accarezza, solo per un attimo, l'idea di accelerarne l'evoluzione, ma poi ci rinuncia. Il suo senso morale è rimasto intatto. A un certo punto nel suo animo si sedimenta la malinconia che, insieme alla meraviglia per la sua sopravvivenza, lo accompagnerà per il resto dei suoi giorni; l'unica, magra consolazione, per lui, è la contemplazione di una natura selvaggia e ancora incontaminata, e la redazione di un diario inciso su delle tavole che riesce fortunosamente a far pervenire ai posteri.

Ma perché Magruder si ostina tanto a rimanere in vita, e nel contempo a mantenersi sano di mente? Perché rifugge i sogni ad occhi aperti, i ricordi, la follia autoindotta e tutte le scappatoie mentali che avrebbero tentato qualsiasi altro individuo? “Perché, fin dall'inizio, ritenni che valesse la pena di sopravvivere? Perché dopo anni continuo a lottare in questa solitudine? Nell'altro tempo, il mio tempo fra gli uomini, non avevo mai pensato che la mera sopravvivenza avesse un valore. […] Che cosa ho adesso, e che cosa avrò mai, finché vivrò? Lettura, musica, compagnia?”. Immaginate una solitudine totale, non la solitudine dell'eremita, non quella della clausura, ma quella involontaria, reale ed eterna, creata dall'invalicabile barriera del tempo.

Io sono il tipo che, se si trova in casa da solo, spesso mangia in piedi davanti al lavandino e se si siede a tavola si dimentica di usare la tovaglia. Sono il tipo che non sistema né pulisce se non ho qualcuno accanto che mi dia un motivo per farlo. (Anche se, a un certo punto, devo pur destarmi dal mio torpore per aprire una busta di cibo per gatti o la confezione delle crocchette, perché in fondo qualcuno di cui prendermi cura c'è sempre). Le persone accanto a me invecchiano, si ammalano, muoiono. Sono destinato a perdere tutti coloro che amo, o molti di loro. Io stesso subirò lo stesso destino, ma finché sono vivo avrò sempre qualcuno che si occupi di me o di cui occuparmi, e la possibilità di un contatto con un altro essere umano – un contatto qualsiasi, fosse anche per caso, per convenienza o per pietà. Dunque come attribuire valore a una vita spesa da soli, senza nessuno che vi osserva e interagisce con voi e senza la speranza di tornare alla normalità? “Dovevo riprendere a fare ogni cosa. Dovevo trovare del cibo e consumarlo. Dovevo inventare degli strumenti e fabbricarli. Dovevo accudire il fuoco. Dovevo sfuggire agli attacchi degli animali o combatterli. Nessuna di queste attività vale la pena, perché non c'è nessuno a guardare. Non c'è nessuno a cui raccontare la giornata di lavoro o le mie avventure quando, la notte, torno al mio riparo. È stupido che io mi dedichi tante cure quando non c'è nessun altro a cui importi se lo faccio o no. Ma bisogna farlo ugualmente.”
La risposta è lì, nelle pagine del racconto, suggellata delle sue ultime righe, così definitive. In tutto e per tutto, un epitaffio.

5 commenti:

  1. Sembra un libro decisamente strano. Magari qualche paleontologo fondamentalista pagherebbe per trovarsi al posto del protagonista...

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    1. Piacerebbe anche a me. Ma solo cinque minuti, giusto il tempo di fare qualche fotografia.

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  2. Amo i viaggi nel tempo, come tematica, ma ammetto che in questo caso l'idea mi ha provocato una grande inquietudine. Quel passaggio che hai riportato è la prospettiva di qualcosa che sarebbe terribile provare sulla propria pelle.

    Nonostante (o forse proprio per) questo, mi hai incuriosita molto: credo proprio che cercherò di procurarmi questo libro. Grazie per averne parlato :)

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    1. Tutti effettivamente vedono il viaggio nel tempo come un'ipotesi affascinante, e vero. Nella teoria. Nella pratica non deve essere piacevole trovarsi da solo in un mondo sconosciuto. Tantomeno nel cretaceo.

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