lunedì 27 aprile 2015

Capitolo 5: A Blood Pledge

Quaranta suicidi all’anno ogni centomila abitanti, quarantatre al giorno in tutto il paese: è il tasso più alto tra i paesi dell’OCSE, terzo tasso assoluto dopo Groenlandia e Lituania. Prima nazione al mondo per numero di suicidi compiuti da donne, prima causa di morte tra i giovani tra i 10 e i 30 anni, quarta causa di morte fra l’intera popolazione. Con cifre di questa rilevanza era praticamente impensabile che un capitolo dei “Whispering Corridors” non cercasse di scrutare in qualche modo nell’ingombrante fardello che le istituzioni scolastiche di Seoul si portano appresso. Abbiamo già visto qualche giorno fa che uno dei motivi più rilevanti delle costanti ondate di suicidi può essere ricercato nella struttura fortemente competitiva del sistema scolastico e nelle forti pressioni sui ragazzi per avere dei buoni risultati, per cui non ci ripeteremo. Proveremo invece a capire cosa possa esserci dietro i cosiddetti “patti suicidi”, quei singolari quanto sconvolgenti casi di cronaca nei quali diversi individui, solitamente in giovane età, cercano la forza l’uno nell’altro per raggiungere il terribile scopo che si sono prefissi. 

New York, 1995: quindici ragazzine decidono di suggellare con un patto suicida le loro ansie adolescenziali. Nel giro di un paio di settimane otto di loro tentano il suicidio: chi tagliandosi le vene, chi inghiottendo pasticche. Nessuna fortunatamente riesce nell’intento.  
Londra, 2004: due ragazzine, una di 13 e l'altra di 14 anni, decidono di uccidersi ingoiando un'overdose di sonniferi. La più piccola muore, l'altra finisce in ospedale in condizioni gravi. Si erano conosciute l’anno prima su internet.
Denver, 2010: due gemelle australiane di 29 anni si sparano a vicenda alla testa con due pistole. Una muore all’stante mentre l’altra, nonostante le gravi ferite alla testa, sopravvive. Perquisendo le loro borsette, gli ufficiali trovano servizi di riviste, ritagli e lettere collegate al massacro avvenuto alla Columbine High School.
Argentina, 2012: due ragazze, una di 16 anni e l'altra di 19, si impiccano con la stessa corda. Erano scomparse da casa il sabato e vennero ritrovate dopo quattro giorni, ormai prive di vita, in un terreno agricolo non molto lontano dalle loro abitazioni. Entrambe erano appena state lasciate dai fidanzati.
Milano, 2014: due amici trentenni comprano una bombola di elio, la collegano con un tubo a due buste di cellophane, s’infilano le buste in testa e aspettano che il gas faccia effetto. Uno dei due insoddisfatto della vita, l’altro forse solo per onorare un patto suicida.

L’elenco potrebbe andare avanti all’infinito senza tuttavia permetterci non dico di fare luce, ma nemmeno di avvicinarci vagamente alle logiche che regolano queste allucinanti vicende. 
Perché? Forse per via di un malessere dovuto a delusioni sentimentali? Forse per via dell’incertezza del futuro? Questo non spiega tuttavia come tormenti interiori così radicati possano portare, nello stesso istante, più persone ad una decisione drastica, sancita da un patto che più o meno recita “Lo faccio io ma solo se lo fai anche tu con me”. La risposta potrebbe essere ancora più semplice di quello che crediamo: è l’amicizia portata all’estremo. 
Ricordate dove eravamo rimasti alla fine del quarto capitolo? Avevamo detto che, affinché una musica possa essere piacevole all’orecchio, ogni nota deve armonizzare con le altre. Avevamo ipotizzato che così come nella musica, l’armonia è l’essenza stessa dell’amicizia, del suo inizio e della sua fine. Il quinto capitolo di “Whispering Corridors”, a livello internazionale noto come “A Blood Pledge” (patto di sangue) di Lee Jong-yong cerca di spiegarci esattamente questo concetto.

Tre amiche, Yu-jin, Eun-young e So-hee, decidono di  suicidarsi e scelgono di farlo assieme all'interno della scuola superiore che tutte e tre frequentano. Intrufolatesi nottetempo nella cappella dell'istituto, giurano solennemente di morire assieme, invocando una maledizione su chi fra di loro dovesse rompere quel patto di sangue. Qualcosa però impedisce loro di portare a termine il loro proposito e alla fine a perdere la vita gettandosi nel vuoto sarà Eon-ju, una quarta studentessa… Il tragico avvenimento turba profondamente So-hee, che di Eon-ju era molto amica (sebbene negli ultimi tempi le due si fossero allontanate), ma la più sconvolta, comprensibilmente, è la sorella minore di Eon-ju, che accusa apertamente So-hee. Chi c'era sul tetto con Eon-ju la notte in cui morì? Ma soprattutto, la giovane si è davvero suicidata, oppure qualcuno l’ha spinta?

Per scoprire i retroscena di quanto è accaduto occorrerà che i numerosi flashback ricompongano tutti i tasselli del puzzle, ma noi spettatori, sin dall'inizio, possiamo facilmente intuire che nessuna fra le tre ragazze che siglarono il patto di sangue è del tutto estranea a quanto accaduto. Tra queste So-hee però sembra davvero affranta e, naturalmente, le altre ragazze temono le conseguenze di ciò che l’amica, in preda al rimorso, potrebbe rivelare. I giorni successivi a scuola sono cadenzati da un estenuante rincorrersi di pettegolezzi, sospetti e accuse più o meno esplicite, mentre lo spirito di Eon-ju si aggira inquieto fino alla svolta finale che, onestamente, non riserva molte sorprese e tuttavia prelude a una conclusione poetica e commovente.

In questo quinto film della saga, forse ancor più che negli altri, i vivi si rivelano molto più terrificanti dei morti e finiranno per rivoltarsi gli uni contro gli altri. Sarà questo, e non tanto la maledizione in sé o il rancore di Eon-ju, a fare giustizia: un atto che al contempo proteggerà l'unica innocente fra le tre ragazze, o meglio la meno colpevole tra di loro. Si scoprirà infatti che Eon-ju, al corrente dei propositi suicidi di So-hee, si era offerta spontaneamente di morire con lei ed era perciò salita volontariamente su quel cornicione. Si scoprirà pure che gli avvenimenti che avevano portato a quella fatidica notte non erano affatto casuali, perché Eon-ju era la migliore studentessa della scuola e la sua prematura dipartita a qualcuno conveniva. So-hee si disporrà a saltare dal tetto per restare accanto a lei per sempre, come in passato le aveva promesso, ma il fantasma pretenderà da lei un diverso modo di onorare il loro patto…

Nel film non mancano momenti di tensione e di mistero né il solito repertorio di effetti, ma prima di arrivare a quel punto il tono resterà a lungo lento e intimista. La suspense latita per buona parte del film, ma ciò non deve sorprendere perché in fondo ciò che “A Blood Pledge” aspira ad essere è sopratutto il racconto, struggente, di un sentimento di amicizia che non conosce pausa, che lenisce e perdona e, soprattutto, che nemmeno la morte può scalfire. Ma a parte questo, a colpire è ancora una volta il contesto sociale nel quale si sviluppa la tragedia, che poi è anche la causa della futilità del movente. Yu-jin, brillante e cinica, abituata ad ottenere quello che desidera ad ogni costo, ed Eun-young la gregaria, picchiata dal padre e alla disperata ricerca di  riscatto, sono personaggi negativi ma a modo loro anche drammatici. È possibile uccidere per vedere il proprio nome in cima a un cartellone, o per avere l'onore di vedersi consegnare le chiavi della scuola, e desiderare di farlo ancora per eliminare la propria rivale in amore? La cronaca c'insegna che si uccide per questo e anche meno, eppure l'incredulità rimane. Si torna quindi riflettere, di nuovo, sull'estrema competitività della società coreana – quando il valore di una persona si misura esclusivamente con il suo status quo e con ciò che ha ottenuto, l'avere trionfa sull'essere. Non è mai un buon segno.


22 commenti:

  1. Degna conclusione per una bella saga.
    Ribadisco comunque che in una realtà sociale come quella coreana non riuscirei mai a vivere.

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    1. Manca ancora un ultimo post. Ancora poche righe per cercare di tirare le somme e cercare di allacciare tra di loro i fili lasciati in sospeso. Se ci penso già mi vengono le lacrime agli occhi per la nostalgia....

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  2. Be', in altri modi e in altri contesti, si uccide sempre per qualche ragione folle. Quindi, non mi stupiscono le motivazioni che hai citato.
    Quello che mi dà da pensare è che la pressione sociale, che là si concretizza nell'estrema competitività estrema, è presente sotto altre forme ovunque: complessi d'inferiorità e inadeguatezza a vari livelli sono piuttosto diffusi, sia in senso materiale che non.
    Comunque, che i vivi spesso siano più terrificanti dei morti, è verità :P

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    1. Infatti non mi stupisco che tanta gente scelga il gesto estremo come soluzione al cosiddetto "mal di vivere". Esistono situazioni che, se portate all'eccesso, diventano insopportabili. Inferiorità e inadeguatezza sono un discorso a parte e, intervenendo prontamente, si potrebbe ovviare al problema, perlomeno in una società abbastanza attenta ai suoi cittadini.

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  3. Una volta ho letto un libro di un giornalista americano ("Il punto critico" di Malcolm Gladwell) nel quale si parlava del suicidio fra i giovani in termini diversi. Nel libro in generale si parlava di comportamenti diffusi nati dall'influenza portata da personaggi particolarmente carismatici (non necessariamente star, anche persone comuni ma carismatiche all'interno di un gruppo, come un gruppo di amici o una scolaresca). Secondo lui persino un gesto estremo come il suicidio può diventare "trendy" per così dire. Riportava l'esempio di una comunità di un isola polinesiana, una specie di riserva indiana o aborigena portata a forza nel mondo moderno con ragazzi che frequentano le scuole ma vivono in baracche e si vestono coi loro costumi tradizionali solo in occasione di feste della comunità, ma per il resto potrebbero essere adolescenti di un qualunque paese moderno. Era un luogo dove il suicidio era praticamente sconosciuto, fin quando un ragazzo si è tolto la vita. Nel giro di qualche mese ci sono stati numerosi altri suicidi fra i suoi coetanei.
    Questo tipo di approccio può valere penso anche per la Groenlandia, mentre per paesi come Corea e Giappone credo che sia la conseguenza di un retaggio culturale molto più antico. Nel caso del Giappone ne sono sicuro.

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    1. Credo che Gladwell si riferisca al suicidio di massa che avvenne a Jonestown, in Guyana, nel 1978, uno dei più terribili di sempre. Avevo una mezza idea di citare alcuni di questi casi nel post ma, pensandoci bene, mi sono parsi fuori contesto. Il suicidio che volevo analizzare è quello che viene da dentro, da un malessere crescente che sorge da una sofferenza o da una disillusione, piuttosto che da un lavaggio del cervello.

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    2. No, non quel suicidio di massa. Una serie di suicidi "da emulazione" per così dire, di alcuni giovani polinesiani a distanza di pochi giorni l'uno dall'altro.
      Comunque credo che oltre alla disillusione individuale giochi un ruolo anche la sensazione di condividere il gesto con qualcun altro.

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    3. Un fenomeno davvero spaventoso. Si direbbe che in tutto questo ci sia anche un pizzico di desiderio di protagonismo....

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  4. Che storie assurde, quantunque spesso a quell'età ci si suicida spesso per sciocchezze che agli occhi di un adolescente appaiono più grandi di quel che sono.
    Un contesto sociale opprimente e competitivo come quello orientale, si presta ancora di più al disagio giovanile.
    Certo che storie come queste proprio perché a!bientate nel reale disturbano molto più di una storia soprannaturale tout court.

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    1. Ognuno definisce i suoi drammi grandi o piccoli a seconda della propria esperienza. Per comprendere il problema bisognerebbe essere in grado di usare lo stesso metro di misura di coloro che in esso ci sono immersi.

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  5. C'è come un sentimento morboso legato ad azioni estreme in queste culture asiatiche. La morte legata all'eros, all'adolescenza, diventa un gioco perverso in cui tutto viene preparato come allestendo un palcoscenico ideale.
    Inquietante.

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    1. Interessante l'immagine del palcoscenico: ci sono effettivamente alcuni aspetti della cultura orientale che a noi arrivano ricodificati e in maniera superficiale. Basti pensare al Giappone e alla pratiche del Seppuku e dello Jigai, eseguite secondo un preciso rituale ed entrambe praticate per salvaguardare l'onore della persona.
      Benvenuta sul blog, by the way ^_^

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    2. Ecco, quello che mi ha sempre stupita (e impressionata) è proprio la ritualizzazione della morte, in ultima analisi del suicidio. Eppure la cultura nipponica, e in generale le culture d'estremo Oriente, non hanno fatto dell'Oltretomba quel luogo tanto celebrato dalle nostre culture. Insomma, la morte diventa ossessione ma viene giocata tutta nel momento del trapasso, in questa cerimonia macabra legata a valori affini a quei valori cavallereschi di impronta medievale. Amo molti aspetti di queste culture, ma non riesco a farmi piacere questo, sebbene sia affascinata in generale dal gotico, a partire dai meravigliosi Poemi di Ossian che ispirarono l'aspetto umbratile del Romanticismo. Ho notato che hai scritto un articolo su Norwegian Wood di Murakami, appena ho un attimo per dedicarmici bene, lo leggo. Anch'io ne ho scritto uno sul mio blog (sono una neofita di questo mondo, devo imparare tante cose), mi piacerebbe un tuo parere. Bentrovato tu. :)

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    3. L'aspetto più interessante delle religioni orientali è quello che conferisce maggiore importanza al raggiungimento di un equilibrio in questo mondo, piuttosto che cercare, come facciamo noi occidentali, un certo tipo di salvezza dopo la morte. E' il principio su cui poggia lo shintoismo, spesso in contrasto con gli insegnamenti di altre culture religiose orientali. In questo contesto il suicidio trova una logica nel fallimento dei propositi che si è invitati a seguire in vita. Gli ultimi non saranno i primi, come sostiene il cristianesimo: gli ultimi, in buona sostanza, rimarranno gli ultimi.
      Passo a curiosare prestissimo dalle tue parti: hai un blog giovane giovane ma, a colpo d'occhio, decisamente promettente

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    4. Ecco, questo è il nucleo di queste religioni-filosofie. Il concentrarsi sul raggiungimento di un equilibrio "qui e ora", l'hic et nunc dei Latini, che finisce con il significare un perfetto connubio fra l'essere umano e tutti gli esseri viventi. Ciò è decisamente interessante. La morte irrompe come se fosse essa stessa vita, in questo contrasto dialettico scioccante.
      Sarebbe bello dedicare a questa discussione un post. Saresti disposto a sottoporti a una intervista sulle tue passioni legate a questo mondo singolarissimo? Ovviamente col tempo, sarebbe da preparare.

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    5. Sorprendentemente la morte è stato uno dei punti che sono meno stati sottolineati in un mese di commenti a questa serie. Intendo la morte nel senso di perdita, la morte come prospettiva.
      Il mio indirizzo email lo trovi là in alto, nella pagina "About". Sentiti libera di contattarmi quando vuoi. ^_^

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  6. Quanto mi piace la tua iniziativa! Ho ripreso il filo con il cinema asiatico, grazie mile! Causa family affair pubblicherò il mio post sul K-Horror day nel pomeriggio, stay - tuned!

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  7. Quest'ultimo capitolo mi sembra più giallo e meno horror degli altri, ma lo trovo il più inquietante. Mi porta alla mente un'infinità di film che parlano di omicidi/suicidi in ambito scolastico.

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    1. Più giallo e meno horror? Difficile dirlo. Diciamo che le sensazioni che si ricevono da questi cinque film sono sempre molto personali, impossibile fare una demarcazione netta tra i generi.

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  8. Mi è venuto in mente un episodio legato alla competizione quando ho letto "per avere il nome sul cartellone", cioè il fattaccio delle pattinatrici americane Tonya Harding e Nancy Kerrigan, avvenuto nel gennaio 1994. Anche quello fu un vero e proprio giallo!

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    1. Una storia che non conoscevo, anche se Simona, qui accanto, sostiene che sia piuttosto famosa. Ora che l'ho recuperata su wikipedia dovrei aver colmato una lacuna...

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