La nuova vita di Obsploitation inizia oggi e, come annunciato qualche giorno fa, proveremo a fare un piccolo ripasso di quanto era apparso sul blog omonimo che chiuse i suoi battenti un migliaio di giorni fa. Senza pretendere di realizzare un "best of" che, senza ombra di dubbio, risulterebbe piuttosto discutibile, proverò a riproporre alcune cosette che, a memoria, non riuscirono troppo male. L'articolo di oggi fu uno dei primissimi ad uscire su Obsploitation: era esattamente il 16 febbraio 2014 e, dannazione, mi sembra quasi passato un secolo.
I primi giorni di vita di Obsploitation furono piuttosto frenetici: il materiale che avevo preparato prima ancora di iniziare era parecchio ma, non per questo mi feci prendere dalla frenesia della pubblicazione a ritmi serrati (avendo già una discreta esperienza, prevedevo già da allora che sarebbero arrivati periodi di magra). Avevo già scritto parecchia roba, come stavo dicendo poc'anzi, e immagino sia un po' come quando sai che arriverà la cicogna e inizi con largo anticipo a infognarti la casa di fuffa ingombrante che poi, nel giro di qualche anno, non saprai come fare per liberartene. L'articolo che proverò a riproporre oggi, tra i tanti, era stato uno di quelli a mio parere più interessanti. Innanzitutto perché l'argomento trattato affondava le sue radici in documentati fatti di cronaca italiana che, come sapete, sono un'inesauribile fonte di spunti per un blogger come il sottoscritto; in secondo luogo "Banditi a Milano" (1968), il film che quei fatti Carlo Lizzani provò a mettere in scena, divenne il capostipite di un genere (il poliziottesco) che da lì a qualche anno sarebbe diventato di culto. E non solo per me.
Il parto di quell'articolo non fu semplicissimo, lo devo ammettere. Ricordo che spesi un sacco di tempo a cercare e a studiare vecchi articoli dell'epoca perché, come è ovvio che sia, non me la sentivo di sparare sentenze su quel Pietro Cavallero esclusivamente sulla base di un film. Ancora oggi, per inciso, conservo nei "preferiti" del mio browser questo articolo di Repubblica curato da una delle firme più note del giornalismo italiano del secolo scorso. Immagino che mi fu di grande ispirazione...
Ma bando alle ciance. Ecco quindi, subito dopo il banner di "Rewind", cosa scrissi all'epoca a proposito del celebre film di Carlo Lizzani...
Tecnicamente “Banditi a Milano” arriva un po’ prima degli anni Settanta (è datato infatti 1968), ma è a lui che tutti i film del decennio successivo faranno riferimento. Carlo Lizzani ebbe l’intuizione di aprire una strada vincente che i vari Alberto De Martino, Bruno Corbucci, Damiano Damiani, Enzo Castellari, Fernando Di Leo, Sergio Martino, Umberto Lenzi e chi più ne ha più ne metta, avrebbero percorso in seguito. Qualcuno potrebbe obiettare che prima di “Banditi a Milano” ci furono altri tentativi di aprire il genere (sto pensando a Elio Petri, per esempio), ma preferisco riferirmi a quei titoli come agli ultimi colpi di coda di quella corrente nota come “neorealismo” di cui il poliziottesco, senza comunque discostarsene troppo, rappresenta la variante “noir”.
La pellicola prende spunto da un fatto di cronaca che insanguinò il capoluogo lombardo nel lontano 1967 e che monopolizzò i titoli dei quotidiani per diversi mesi. Probabilmente il nome di Pietro Cavallero non dirà molto alla maggior parte di voi, ma se c’è qualcuno tra i miei lettori che anagraficamente veleggia attorno al mezzo secolo, allora ne avrà perlomeno sentito parlare. All’epoca dei fatti chi vi scrive galleggiava all’interno di una placenta, per cui non posso far altro che ricorrere al web per ricostruire gli avvenimenti.
Erano gli anni del cosiddetto boom economico, anni in cui l’Italia fu teatro di un fenomeno oggi praticamente impensabile. Il tenore di vita degli italiani migliorava di anno in anno, gli stipendi crescevano e quasi tutte le famiglie, dopo anni di privazioni, potevano ormai permettersi la lavatrice, il frigorifero e la tanto agognata televisione. Anche le automobili erano ormai diffusissime sulle nostre strade e, su queste basi, si modellavano le prime trasformazioni di linguaggio e di costume. Sul fronte cinematografico, il neorealismo dei Visconti, dei De Sica, dei Rossellini lasciava il posto alla commedia all’italiana di Steno e di Salce. La speranza, che gli italiani avevano perduto in pellicole come Ladri di biciclette e Riso amaro, veniva ritrovata nei volti sorridenti di Alberto Sordi, Walter Chiari e Raimondo Vianello.
Fu in quello scenario che la banda Cavallero, figlia di un’epoca di benessere, fece la sua comparsa.
Pietro Cavallero, detto il Piero, era il capo indiscusso. Uomo di grande carisma e invidiabile cultura, aveva trovato nel suo vecchio amico Sante Notarnicola il suo esecutore più sanguinario. I due si conobbero all’inizio degli anni Sessanta tra i tavoli di un bar di corso Vercelli a Torino. Di estrazione proletaria, fortemente politicizzati, Cavallero e Notarnicola reclutarono l’ex partigiano Adriano Rovoletto proprio nelle serate trascorse nelle locali sedi della FGCI. La molla che li muoveva era la rabbia sociale, la voglia di riscatto tipica della classe operaia di quegli anni. Come la storia recente aveva loro insegnato, la rivoluzione era l’unica strada da percorrere per l’autodeterminazione. Ma la rivoluzione aveva un prezzo: niente soldi, niente rivoluzione. Ma dove stavano i soldi, se non in banca? Fu così che i figli del quartiere Barriera entrarono in banca, e lo fecero con le pistole e i passamontagna. La banda Cavallero si rese responsabile, nell’arco di soli 4 anni, di ben 18 rapine, 5 omicidi e 27 feriti. Una tecnica da veri professionisti, che raggiunse il suo apice con il “triplete” del 12 novembre 1965: tre banche rapinate in 45 minuti! Mentre la polizia faceva irruzione in una banca, i tre stavano già rapinando quella successiva. “La prima banca serviva per mangiare, la seconda, la terza e la quarta per fare la rivoluzione”, dissero in seguito al processo.
Ma l’ideologia originale del gruppo, la lotta di classe, sfociò un giorno inevitabilmente nella necessità quasi fisiologica dei soldi facili, e quindi della rapina. Un’orgia di violenza incontrollabile che si concluse tragicamente il pomeriggio del 25 settembre 1967, una data che i milanesi ricorderanno a lungo.
A bordo di una Fiat 1100 rubata, la banda Cavallero si diresse verso il Banco di Napoli di largo Zandonai, in zona fiera. Oltre ai tre elementi storici, quel giorno fu reclutato un ragazzo di 17 anni, Donato Lopez (detto Tuccio), alla sua prima esperienza criminale.
Ma qualcosa andò storto. Un cassiere riuscì ad azionare l’allarme, i banditi si diedero alla fuga ed iniziò una delle più incredibili fughe tra le strade del centro. Oltre 40 volanti della polizia si lanciarono all’inseguimento dei quattro. Sirene urlanti e sgommate si udivano fino ai piani alti degli edifici circostanti. Mitra e pistole fecero fuoco, da una parte e dall’altra, in una corsa folle che proseguì per oltre mezz’ora. Poi, quando tutto sembrava ormai perduto, i quattro uomini impazziti iniziarono a sventagliare di proiettili anche i passanti. Fu una carneficina. Al termine di quel giorno maledetto si contarono 4 morti e 19 feriti. Adriano Rovoletto fu catturato subito dagli agenti, che a malapena lo strapparono alla folla inferocita, intenzionata a fare giustizia con le proprie mani. Donato Lopez fu prelevato nella propria casa di Torino il giorno seguente. Cavallero e Notarnicola resistettero una settimana vagando nelle campagne attorno ad Alessandria. Infine il cerchio si chiuse anche attorno a loro. Al processo la condanna non potè che essere l’ergastolo.
Solo pochi mesi più tardi Carlo Lizzani, sulla scia dell’emozione suscitata dagli avvenimenti sopra descritti, realizzò quello che oggi chiameremo un “instant-movie”. A dare il volto a Pietro Cavallero nella finzione cinematografica ci avrebbe pensato un grande Gian Maria Volontè, che solo due anni prima, ancora sotto la direzione di Carlo Lizzani, aveva lavorato in “Svegliati e uccidi”, ispirato alle imprese di Luciano Lutring, famoso rapinatore milanese che agì nella prima metà degli anni Sessanta. Credo che qualunque aggettivo su Volontè oggi sia supefluo, ma in questo contesto vale la pena ricordarlo per alcuni dei suoi film-simbolo ispirati alla storia italiana: I sette fratelli Cervi (1968), Sacco e Vanzetti (1971), Il caso Mattei (1972), Lucky Luciano (1973), Il Caso Moro (1986) e molti altri ancora.
Sante Notarnicola fu interpretato dal leggendario Don Backy, che molti ricorderanno per i suoi successi discografici, ma che ebbe anche un’interessante carriera come attore. L’anno successivo, sempre per Carlo Lizzani, interpretò assieme a Terence Hill il lungometraggio “Barbagia (La società del malessere)”, ispirato alle vicende di Graziano Mesina, un altro nostro famoso bandito.
Adriano Rovoletto e Donato Lopez furono interpetati rispettivamente dai Ezio Sancrotti e Ray Lovelock, volti che rivedremo spessissimo nel decennio successivo in grandi classici del poliziottesco italiano.
Una menzione particolare per il grande Tomas Milian (il commissario di polizia) che qui quasi stentiamo a riconoscere, tanto lontano è dalla sua più nota immagine del “Monnezza”, e per l’allora giovanissima Carla Gravina, alla quale fu riservato poco più di un cameo.
Ma che dire di questo “Banditi a Milano”? È un film di pura cronaca, che ripercorre esattamente gli avvenimenti così come sono accaduti, senza lasciare il minimo spazio alla fantasia o all’improvvisazione. Anche una semplice frase come quella che esce dalle labbra di Cavallero in fuga, preoccupato che la sua famiglia possa soffire a causa sua (“Una sola cosa da fare: arrivare a Torino, far fuori mia moglie e mia madre e poi spararmi”) è un particolare colorito ma realmente accaduto. Per sottolineare l’estrema aderenza ai fatti, Carlo Lizzani decide di inserire un lungo “cappello” iniziale, girato sullo stile dei vecchi cinegiornali (chi frequentava i cinema trenta o quarant’anni fa certemente se li ricorderà), un’introduzione che riassume il fenomeno malavitoso delle realtà urbane di quegli anni. Una scelta che lascia spiazzati e che, coraggiosamente, sfida lo spettatore a proseguire sulla fiducia o ad abbandonare la visione.
Ho usato l’aggettivo “coraggioso” non a caso. "Banditi a Milano" è indubbiamente un film coraggioso sotto tutti i punti di vista: basti pensare alla non facile necessità di dover mettere in scena un inseguimento per le strade di Milano solo pochi mesi dopo i fatti, quando il ricordo della strage era ancora così vivido e l’asfalto era ancora caldo del sangue dei suoi concittadini.
Oggi film del genere non se ne fanno più. E quando dico “del genere” intendo dire “di tale spessore”, perché, inutile negarlo, la cronaca continua incessantemente a fornire idee alla finzione cinematografica. Ma i casi di oggi non sono più adatti al grande schermo. I casi di oggi finiscono in prima serata sui canali Mediaset e, come a preannunciarne la vuotezza, vengono chiamati “fiction”. Pensate per un attimo al cast di “Banditi a Milano” e confrontatelo con quello che oggi dovrebbe esserne l’eredità: ebbene, pur con tutto il rispetto per Raoul Bova e Claudia Pandolfi, siamo davvero su un altro pianeta.
I primi giorni di vita di Obsploitation furono piuttosto frenetici: il materiale che avevo preparato prima ancora di iniziare era parecchio ma, non per questo mi feci prendere dalla frenesia della pubblicazione a ritmi serrati (avendo già una discreta esperienza, prevedevo già da allora che sarebbero arrivati periodi di magra). Avevo già scritto parecchia roba, come stavo dicendo poc'anzi, e immagino sia un po' come quando sai che arriverà la cicogna e inizi con largo anticipo a infognarti la casa di fuffa ingombrante che poi, nel giro di qualche anno, non saprai come fare per liberartene. L'articolo che proverò a riproporre oggi, tra i tanti, era stato uno di quelli a mio parere più interessanti. Innanzitutto perché l'argomento trattato affondava le sue radici in documentati fatti di cronaca italiana che, come sapete, sono un'inesauribile fonte di spunti per un blogger come il sottoscritto; in secondo luogo "Banditi a Milano" (1968), il film che quei fatti Carlo Lizzani provò a mettere in scena, divenne il capostipite di un genere (il poliziottesco) che da lì a qualche anno sarebbe diventato di culto. E non solo per me.
Il parto di quell'articolo non fu semplicissimo, lo devo ammettere. Ricordo che spesi un sacco di tempo a cercare e a studiare vecchi articoli dell'epoca perché, come è ovvio che sia, non me la sentivo di sparare sentenze su quel Pietro Cavallero esclusivamente sulla base di un film. Ancora oggi, per inciso, conservo nei "preferiti" del mio browser questo articolo di Repubblica curato da una delle firme più note del giornalismo italiano del secolo scorso. Immagino che mi fu di grande ispirazione...
Ma bando alle ciance. Ecco quindi, subito dopo il banner di "Rewind", cosa scrissi all'epoca a proposito del celebre film di Carlo Lizzani...
Tecnicamente “Banditi a Milano” arriva un po’ prima degli anni Settanta (è datato infatti 1968), ma è a lui che tutti i film del decennio successivo faranno riferimento. Carlo Lizzani ebbe l’intuizione di aprire una strada vincente che i vari Alberto De Martino, Bruno Corbucci, Damiano Damiani, Enzo Castellari, Fernando Di Leo, Sergio Martino, Umberto Lenzi e chi più ne ha più ne metta, avrebbero percorso in seguito. Qualcuno potrebbe obiettare che prima di “Banditi a Milano” ci furono altri tentativi di aprire il genere (sto pensando a Elio Petri, per esempio), ma preferisco riferirmi a quei titoli come agli ultimi colpi di coda di quella corrente nota come “neorealismo” di cui il poliziottesco, senza comunque discostarsene troppo, rappresenta la variante “noir”.
La pellicola prende spunto da un fatto di cronaca che insanguinò il capoluogo lombardo nel lontano 1967 e che monopolizzò i titoli dei quotidiani per diversi mesi. Probabilmente il nome di Pietro Cavallero non dirà molto alla maggior parte di voi, ma se c’è qualcuno tra i miei lettori che anagraficamente veleggia attorno al mezzo secolo, allora ne avrà perlomeno sentito parlare. All’epoca dei fatti chi vi scrive galleggiava all’interno di una placenta, per cui non posso far altro che ricorrere al web per ricostruire gli avvenimenti.
Erano gli anni del cosiddetto boom economico, anni in cui l’Italia fu teatro di un fenomeno oggi praticamente impensabile. Il tenore di vita degli italiani migliorava di anno in anno, gli stipendi crescevano e quasi tutte le famiglie, dopo anni di privazioni, potevano ormai permettersi la lavatrice, il frigorifero e la tanto agognata televisione. Anche le automobili erano ormai diffusissime sulle nostre strade e, su queste basi, si modellavano le prime trasformazioni di linguaggio e di costume. Sul fronte cinematografico, il neorealismo dei Visconti, dei De Sica, dei Rossellini lasciava il posto alla commedia all’italiana di Steno e di Salce. La speranza, che gli italiani avevano perduto in pellicole come Ladri di biciclette e Riso amaro, veniva ritrovata nei volti sorridenti di Alberto Sordi, Walter Chiari e Raimondo Vianello.
Fu in quello scenario che la banda Cavallero, figlia di un’epoca di benessere, fece la sua comparsa.
Pietro Cavallero, detto il Piero, era il capo indiscusso. Uomo di grande carisma e invidiabile cultura, aveva trovato nel suo vecchio amico Sante Notarnicola il suo esecutore più sanguinario. I due si conobbero all’inizio degli anni Sessanta tra i tavoli di un bar di corso Vercelli a Torino. Di estrazione proletaria, fortemente politicizzati, Cavallero e Notarnicola reclutarono l’ex partigiano Adriano Rovoletto proprio nelle serate trascorse nelle locali sedi della FGCI. La molla che li muoveva era la rabbia sociale, la voglia di riscatto tipica della classe operaia di quegli anni. Come la storia recente aveva loro insegnato, la rivoluzione era l’unica strada da percorrere per l’autodeterminazione. Ma la rivoluzione aveva un prezzo: niente soldi, niente rivoluzione. Ma dove stavano i soldi, se non in banca? Fu così che i figli del quartiere Barriera entrarono in banca, e lo fecero con le pistole e i passamontagna. La banda Cavallero si rese responsabile, nell’arco di soli 4 anni, di ben 18 rapine, 5 omicidi e 27 feriti. Una tecnica da veri professionisti, che raggiunse il suo apice con il “triplete” del 12 novembre 1965: tre banche rapinate in 45 minuti! Mentre la polizia faceva irruzione in una banca, i tre stavano già rapinando quella successiva. “La prima banca serviva per mangiare, la seconda, la terza e la quarta per fare la rivoluzione”, dissero in seguito al processo.
Ma l’ideologia originale del gruppo, la lotta di classe, sfociò un giorno inevitabilmente nella necessità quasi fisiologica dei soldi facili, e quindi della rapina. Un’orgia di violenza incontrollabile che si concluse tragicamente il pomeriggio del 25 settembre 1967, una data che i milanesi ricorderanno a lungo.
A bordo di una Fiat 1100 rubata, la banda Cavallero si diresse verso il Banco di Napoli di largo Zandonai, in zona fiera. Oltre ai tre elementi storici, quel giorno fu reclutato un ragazzo di 17 anni, Donato Lopez (detto Tuccio), alla sua prima esperienza criminale.
Ma qualcosa andò storto. Un cassiere riuscì ad azionare l’allarme, i banditi si diedero alla fuga ed iniziò una delle più incredibili fughe tra le strade del centro. Oltre 40 volanti della polizia si lanciarono all’inseguimento dei quattro. Sirene urlanti e sgommate si udivano fino ai piani alti degli edifici circostanti. Mitra e pistole fecero fuoco, da una parte e dall’altra, in una corsa folle che proseguì per oltre mezz’ora. Poi, quando tutto sembrava ormai perduto, i quattro uomini impazziti iniziarono a sventagliare di proiettili anche i passanti. Fu una carneficina. Al termine di quel giorno maledetto si contarono 4 morti e 19 feriti. Adriano Rovoletto fu catturato subito dagli agenti, che a malapena lo strapparono alla folla inferocita, intenzionata a fare giustizia con le proprie mani. Donato Lopez fu prelevato nella propria casa di Torino il giorno seguente. Cavallero e Notarnicola resistettero una settimana vagando nelle campagne attorno ad Alessandria. Infine il cerchio si chiuse anche attorno a loro. Al processo la condanna non potè che essere l’ergastolo.
Solo pochi mesi più tardi Carlo Lizzani, sulla scia dell’emozione suscitata dagli avvenimenti sopra descritti, realizzò quello che oggi chiameremo un “instant-movie”. A dare il volto a Pietro Cavallero nella finzione cinematografica ci avrebbe pensato un grande Gian Maria Volontè, che solo due anni prima, ancora sotto la direzione di Carlo Lizzani, aveva lavorato in “Svegliati e uccidi”, ispirato alle imprese di Luciano Lutring, famoso rapinatore milanese che agì nella prima metà degli anni Sessanta. Credo che qualunque aggettivo su Volontè oggi sia supefluo, ma in questo contesto vale la pena ricordarlo per alcuni dei suoi film-simbolo ispirati alla storia italiana: I sette fratelli Cervi (1968), Sacco e Vanzetti (1971), Il caso Mattei (1972), Lucky Luciano (1973), Il Caso Moro (1986) e molti altri ancora.
Sante Notarnicola fu interpretato dal leggendario Don Backy, che molti ricorderanno per i suoi successi discografici, ma che ebbe anche un’interessante carriera come attore. L’anno successivo, sempre per Carlo Lizzani, interpretò assieme a Terence Hill il lungometraggio “Barbagia (La società del malessere)”, ispirato alle vicende di Graziano Mesina, un altro nostro famoso bandito.
Adriano Rovoletto e Donato Lopez furono interpetati rispettivamente dai Ezio Sancrotti e Ray Lovelock, volti che rivedremo spessissimo nel decennio successivo in grandi classici del poliziottesco italiano.
Una menzione particolare per il grande Tomas Milian (il commissario di polizia) che qui quasi stentiamo a riconoscere, tanto lontano è dalla sua più nota immagine del “Monnezza”, e per l’allora giovanissima Carla Gravina, alla quale fu riservato poco più di un cameo.
Ma che dire di questo “Banditi a Milano”? È un film di pura cronaca, che ripercorre esattamente gli avvenimenti così come sono accaduti, senza lasciare il minimo spazio alla fantasia o all’improvvisazione. Anche una semplice frase come quella che esce dalle labbra di Cavallero in fuga, preoccupato che la sua famiglia possa soffire a causa sua (“Una sola cosa da fare: arrivare a Torino, far fuori mia moglie e mia madre e poi spararmi”) è un particolare colorito ma realmente accaduto. Per sottolineare l’estrema aderenza ai fatti, Carlo Lizzani decide di inserire un lungo “cappello” iniziale, girato sullo stile dei vecchi cinegiornali (chi frequentava i cinema trenta o quarant’anni fa certemente se li ricorderà), un’introduzione che riassume il fenomeno malavitoso delle realtà urbane di quegli anni. Una scelta che lascia spiazzati e che, coraggiosamente, sfida lo spettatore a proseguire sulla fiducia o ad abbandonare la visione.
Ho usato l’aggettivo “coraggioso” non a caso. "Banditi a Milano" è indubbiamente un film coraggioso sotto tutti i punti di vista: basti pensare alla non facile necessità di dover mettere in scena un inseguimento per le strade di Milano solo pochi mesi dopo i fatti, quando il ricordo della strage era ancora così vivido e l’asfalto era ancora caldo del sangue dei suoi concittadini.
Oggi film del genere non se ne fanno più. E quando dico “del genere” intendo dire “di tale spessore”, perché, inutile negarlo, la cronaca continua incessantemente a fornire idee alla finzione cinematografica. Ma i casi di oggi non sono più adatti al grande schermo. I casi di oggi finiscono in prima serata sui canali Mediaset e, come a preannunciarne la vuotezza, vengono chiamati “fiction”. Pensate per un attimo al cast di “Banditi a Milano” e confrontatelo con quello che oggi dovrebbe esserne l’eredità: ebbene, pur con tutto il rispetto per Raoul Bova e Claudia Pandolfi, siamo davvero su un altro pianeta.
"Banditi a Milano" non può che finire nei CULT per direttissima! |
Wow e stra wow. Ottimo, veramente ottimo. Ho diversi dvd di quel genere fantastico (un tempo vhs). Li ho sempre apprezzati anche ai tempi in cui venivano considerati tutto meno che "cult". Alcuni film furono girati nella più "americana" delle città italiane: la mia Genova.Bellissimo articolo, ghiotto, gustoso, stuzzicante. Stasera mi guarderò Milano calibro 9. Mi hai fatto venire la voglia.
RispondiEliminaBeh, ci sarebbero anche "Genova a mano armata" e "Il cittadino di ribella", entrambi inseriti nel contesto della tua città. Belìn, ma vuoi mettere un bell'inseguimento sulla sopraelevata?
EliminaLutring l'ho conosciuto dal vero, era simpaticissimo con due belle figlie gemelle more con gli occhi azzurri, di nome Natasha e Katiusha ed erano pure ottime giocatrici di biliardo.
RispondiEliminaImmagino gli avrai chiesto qualcosa a proposito della sua carriera, o no? Io non avrei saputo resistere...
EliminaNo perchè non sapevo chi era,li con un compagno di scuola gli ho chiesto"vieni al Mi-sex con noi" Lutring mi risponde "ma cosa vuoi misessare guarda qua le mie belle figlioule" poi mi ha fatto vedere alcune locandine di vecchi film tra cui Banditi a Milano, il sabato bigiavamo da scuola e ci pagava sempre il biliardo per giocare con le figlie, veramente una persona carismatica
Eliminauhm me lo segno, l'exploitation piace anche a me, e a breve dovrebbe tornare la rubrica dalle mie parti xD
RispondiEliminaQuando sarà il momento fammi un fischio, non vorrei perdermelo! ^_^
Eliminapuoi scommetterci xD
EliminaQualche film interessante sulle pagine più nere della nostra storia lo abbiamo fatto (uno davvero potente fu appunto "Il caso Moro", ma anche quello sul generale Dalla Chiesa) Più recenti sono "Vajont", "Ustica" e "Romanzo di una strage", sui fatti di Piazza Fontana. Credo che un po' ci abbiamo provato e che continuiamo a provarci (il che fa ben sperare). Peccato solo che continuiamo a guardare troppo in là nel passato ma, si sa, la maggior parte delle porcherie avvenute cinquant'anni fa sono sempre rimaste senza colpevoli.
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