giovedì 23 agosto 2018

Cani arrabbiati

Rileggere oggi l'articolo che scrissi su Obsploitation il 25 maggio 2015 è straniante. Avevo già più volte in precedenza esaltato l'operato di Mario Bava, indiscutibilmente uno dei miei registi preferiti, ma quella volta le cose andarono diversamente. Non dico che nella mia recensione lo feci a pezzi (sarebbe stato irrispettoso), e nemmeno finii per dire che non mi piacque (perché in fin dei conti non fu così), ma non riuscii a trattenere quel certo disappunto che sono sicuro traspare in diverse occasioni, specialmente nella "chiusa" dove scrissi, senza mezzi termini, che mi parve solo un "gran bell'esercizio di regia".
Un giudizio piuttosto duro che, oggi a mente fredda, mi chiedo se non fosse un tantino esagerato.
Avevo visto per la prima volta "Cani arrabbiati" solo nei giorni precedenti alla mia recensione, sebbene da diverso tempo quel titolo mi strizzasse l’occhio, e da allora non ho più avuto l'occasione di affrontarlo di nuovo. Non ne conservo un ricordo nitidissimo e devo ammettere che, se non mi fossi andato a rileggere tutto questo, non avrei davvero saputo cosa rispondere a un ipotetico interlocutore che mi ponesse la domanda "Lo hai visto? Ti è piaciuto?".
Eppure, quel twist finale che ai tempi definii "un po' troppo telefonato" mi appare oggi come un'idea grandiosa. Possibile che in soli quattro anni un parere possa cambiare diametralmente? O forse è solo un'illusione legata a un ricordo che nel tempo si è alterato? Dovrei andarmelo a rivedere per poter rispondere... Nel frattempo, vi lascio con l'articolo incriminato.


La genesi di “Cani arrabbiati” è soffertissima: roba da Guinness dei primati. Completata attorno alla metà degli anni Settanta, la pellicola, a causa di una sequenza infinita di problemi, da quelli economici (il fallimento della casa di produzione) ai soliti scazzi con la censura, arriva sugli schermi con vent’anni di ritardo e grazie soprattutto all’ammirevole impegno di Lea Lander Kruger, la protagonista femminile del film, che ne recupera i diritti e lo fa riemergere dall’oblio. Proiettato per la prima volta al BIFF di Bruxelles nel 1995, “Cani arrabbiati” avrà bisogno di ulteriori dieci anni per arrivare in Italia, grazie ad un passaggio su Sky datato 2004 con il titolo misteriosamente cambiato in un meno consono “Semaforo rosso”.

Tra l’altro, sempre a proposito di titoli, va precisato che “Cani arrabbiati” è stato presentato anche all’estero in diverse versioni e con montaggi diversi. Si dice che ne esistano addirittura sei versioni differenti, nelle quali sono state inserite (o rimosse, se preferite) scene in testa e in coda alla pellicola. Scelte a mio parere discutibili perché l’originale baviano funziona benissimo così com’è, senza la necessità di lunghi spiegoni finali o di lunghe introduzioni, che non fanno altro che annoiare (le prime) o spoilerare (le seconde). L’originale “Rabid Dogs” (questo il titolo inglese) si è trasformato nel 2002 in “Kidnapped”, titolo che rivela molto di più di quanto era forse nelle intenzioni del suo Autore.
Scrivere qualcosa sulla trama è un gioco da ragazzi, tanto apparentemente semplice è la storia narrata: il solito gruppo di banditi, dopo aver rapinato un portavalori, si dà alla fuga in auto mentre, neanche a dirlo, una volante della polizia si getta al suo inseguimento. Tipico incipit di quasi tutti i poliziotteschi dell’epoca, a quanto pare. Uno dei banditi esce di scena quasi subito (un classico), mentre i tre superstiti si tolgono dalla brutta situazione prendendo in ostaggio due ragazze: una delle due viene sgozzata subito mente l’altra, Maria, non sarà altrettanto fortunata.
Fuggire con un'auto già segnalata non è mai una buona idea e, altro passaggio obbligato del poliziottesco, giunge quindi ben presto il momento di trasferirsi tutti, ostaggio compreso, su una vettura diversa. Il caso vuole che i malviventi incrocino la loro strada con quella di Riccardo, un uomo che sta trasportando d’urgenza il figlioletto morente all’ospedale: approfittando di un semaforo rosso il cambio macchina è cosa fatta e (contando anche il bambino) gli ostaggi, da questo momento in avanti, diventano tre. È qui che il film prende una piega diversa e si trasforma in un road movie cattivissimo ambientato, quasi completamente, sull’autostrada assolata di un pomeriggio di metà estate.

Niente corse folli tra le strade di una città, quindi, niente inseguimenti, niente incidenti, niente semafori rossi saltati con conseguenti capottamenti di malcapitati cittadini, niente bancarelle di frutta travolte e spazzate via, niente di niente. Inaspettatamente, l’ora abbondante che ancora ci separa dai titoli di coda viene (quasi) tutta girata all’interno del circoscritto abitacolo della macchina, tra pianti, lamenti e qualche imprevisto di troppo, inclusi maldestri tentativi di fuga da parte dell’ostaggio femminile e occasionali violenze da parte dei malviventi, sempre più nervosi con lo scorrere dei minuti. La narrazione perde così molto del suo ritmo, ma ne guadagna in claustrofobia e la convivenza forzata getta le basi per i successivi avvenimenti. Ben presto si scatena il conflitto non solo fra gli ostaggi e i rapi(na)tori, ma anche fra i tre complici, e mentre il caldo asfissiante  esacerba gli animi già sovreccitati la prospettiva della fine del viaggio, un non ben precisato luogo indicato dal capobanda, evoca timore e sollievo insieme. Non vi racconterò altro, se non che nel finale arriverà un twist che darà a tutto un bel colpo di spugna, anche se va detto che quello che era pensato come un colpo di scena noi, spettatori del duemila, lo avevamo intuito da molto tempo.

Una menzione speciale va alle ottime interpretazioni, che riescono a risollevare in maniera decisiva le sorti del film. Prima fra tutte quella del sempre sottovalutato Don Backy, che rende in maniera perfetta il personaggio dell'omicida schizofrenico a lui assegnato (chiamato “Bisturi” per via dell’arma da lui prediletta per affettare chiunque gli si pari davanti); di George Eastman (all'anagrafe Luigi Montefiori), un volto perfetto per il personaggio di “Trentadue” (nome che fa riferimento alle sue parti basse), anche lui completamente folle e con l’aggravante delle sue evidenti turbe da maniaco sessuale all’ultimo stadio; di Maurice Poli, che con la sua calma e fermezza e i lineamenti che paiono scolpiti nella roccia incarna perfettamente la fisionomia dell'aristocratico “Dottore”, colui che, all’interno della banda, si rivela essere l’unico con i piedi per terra; di Riccardo Cucciolla nella parte dell'ostaggio maschile, il tenero padre di famiglia che tradisce però un'imperscrutabilità di fondo della quale scopriremo la ragione soltanto sul finire; ma soprattutto di Lea Lander Kruger, personaggio femminile e vittima predestinata, che riesce a intensificare il livello di angoscia anche quando il film, com’è naturale, inizia a mostrare palesi cenni di cedimento.

Restringere fisicamente di molto il campo d'azione permette alla regia di non distogliere mai l'attenzione da alcuno dei personaggi (eccetto il bambino che, difatti, rimarrà privo di sensi per tutto il tempo), le cui interazioni portano un po' bidimensionalità a figure che altrimenti, probabilmente, sarebbero state rese in modo più macchiettistico. In tal senso, che piaccia oppure no, questa a mio parere si rivela una scelta vincente.
Ancora una volta, con questa pellicola, Mario Bava apre una nuova strada: dopo aver tracciato il solco del giallo all’italiana con “Sei donne per l’assassino” (1964), il nostro reinterpreta il filone del poliziottesco, mettendo da parte i classici topoi del genere, e realizza qualcosa di decisamente diverso. Un film opprimente e claustrofobico il cui meccanismo di fondo sarà più volte riutilizzato negli anni a venire: basti pensare a “Le iene” di Tarantino (Reservoir Dogs, 1997), il cui titolo la dice lunga su quanto il regista americano abbia tratto ispirazione, per l’ennesima volta, dalle nostre parti.
Questo è dunque un film che consiglierei? Aldilà del suo valore storico e delle vicissitudini produttive che lo hanno portato ad divenire un cult, “Cani arrabbiati” è un Bava anomalo, molto diverso da quelli che personalmente definisco capolavori. Pare più un esercizio di regia che un prodotto cinematografico con un preciso scopo ed intento artistico. Un calo d'attenzione durante la visione del film è inevitabile, considerata la monotona ambientazione e le oggettive difficoltà nello sviluppare situazioni che si discostino dall’idea di base, il che ad un certo punto porta lo spettatore a chiedersi quando mai avranno fine quei novanta minuti. Il finale, per quanto geniale e ben congegnato per l'epoca, è come ho già detto ampiamente telefonato e ciò non aiuta a risollevare le sorti della pellicola.

Magari ai tempi non mi era nemmeno piaciuto, ma questo film rimane indubbiamente un oggetto di culto

7 commenti:

  1. Il caldo e il sudore sono due sensazioni che ho ben presente, soprattutto in questo periodo. Immaginare solo di amplificarne l'effetto con una visione di Rabid Dogs mi uccide.

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  2. Un grande film, Mario Bava era un regista con le palle e io lo amo per questo, Cani Arrabbiati per molti è il suo capolavoro, ne parlai anche io dalle mie parti ^_^

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    1. Non so per quanti sia il suo capolavoro, ma io continuo sempre a preferire La maschera del demonio...

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  3. Solo a me quella nella foto di Arwen sembra Eva Green?

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  4. Un capolavoro.
    Il finale è un pugno sferrato in faccia, diretto.
    L'interpretazione di Cucciolla è stratosferica, non pensi un solo istante a quello che potrebbe essere effettivamente. Gigantesco anche Eastman nei panni del folle.
    Film che trasmette angoscia e il commento di Cassidy de La Bara Volante è perfetto: sembra davvero di essere su quella macchina, a soffrire e sudare con i protagonisti.

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    1. Difficilmente viene in mente "Rabid Dogs" quando si parla di Mario Bava. Eppure lo ha girato lui e questo è abbastanza per capire quanto fosse geniale quell'uomo.
      Attendo che arrivi il gran caldo e poi me lo riguardo, così mi immergo meglio nella parte...

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