lunedì 24 aprile 2023

Under the Silver Lake

"Gli antichi egizi si limitavano a seppellire i morti nelle loro piramidi. Noi ci abitiamo". (Thibaut De Castries) 

Ecco un altro film scoperto abbastanza per caso lo scorso weekend, mentre cercavamo, io e la mia signora, qualcosa di diverso dai soliti generi che vanno per la maggiore qui a casa nostra. In realtà non sono sicuro che sia stata una scelta totalmente casuale, visto che quella sera, quando ho finito di fare le mie cose e mi sono buttato sul divano, stavano già scorrendo i titoli di testa. C’è sempre, voglio dire, la possibilità che la scelta di mia moglie sia stata molto più consapevole di quanto io creda, ma si tratta una sottigliezza sulla quale non ho perso tempo a indagare.
Complice, come dicevo, il weekend, mi stavo così accingendo ad affrontare un minutaggio non convenzionale (139 minuti) e, devo essere sincero, avevo già in prospettiva una ronfata epocale. Non è andata così, perché mi sono trovato ad assistere a un film tra i più incredibili di questa prima metà dell'anno. Ma meglio partire dall’inizio. 

David Robert Mitchell è il regista statunitense che al Festival di Cannes 2014 aveva presentato il monumentale "It Follows", uno degli horror più sorprendenti degli ultimi anni. Naturalmente, all'inizio non me ne ero reso conto, complice il fatto che davanti a me stavano scorrendo immagini che nulla avevano a che fare con il genere, ma ben presto mi sono trovato a chiedermi chi fosse l’uomo che mi stava deliziando con quelle inquadrature, e come accade di solito in queste occasioni non ho potuto trattenermi dal gettare un fugace sguardo a IMdB sullo smartphone. 
Non mi avrebbe affatto sorpreso leggere un nome come Richard Kelly o, in estrema iperbole, scoprire l’esistenza di un inedito David Lynch, perché “Under the Silver Lake” (2018) è un film che lascia nettamente indietro un classico ormai datato come “Donnie Darko” (2002) e, adesso so che mi ucciderete, arriva quasi a eguagliare la grandiosità di “Mulholland Drive” (2002), con cui condivide praticamente tutto, dagli angoli più oscuri della città degli angeli, scelti come location, al vagare apparentemente a vuoto dei suoi personaggi, dall’aspetto così “lynciano” che solo un attore lynciano potrebbe vantare di avere.
È anche un film, mi viene da aggiungere, che al pari di “Mulholland Drive”, al quale ambiziosamente si ispira, è completamente aperto a ogni qualsivoglia interpretazione, lasciando al pubblico, alla critica, ma anche agli stessi membri del cast la completa libertà di speculare sul significato di ciò con cui hanno avuto a che fare. 
È un film totalmente imprevedibile che fa di tutto per metterti a disagio e metterti nella condizione di sembrare, tu che lo stai guardando, stretto tra quattro mura di banalità e lontano anni luce da quell’irrefrenabile creatività e da quel surrealismo onirico che avvolge la scena e i personaggi che la attraversano, talvolta di continuo, talvolta solo momentaneamente. 
In estrema sintesi, la trama segue le vicende di Sam (Andrew Garfield), un giovane sfaccendato che nota una misteriosa biondina (interpretata da Riley Keough) nella piscina del complesso di appartamenti di Los Angeles dove risiede. In lei trova forse un'amica e una papabile amante ma, solo poche ore dopo il primo incontro, quest’ultima sparisce senza lasciare traccia insieme ai suoi bizzarri coinquilini. Con l’idea fissa in testa di andare a fondo di questa improvvisa perdita, Sam si avventura in un viaggio acido attraverso gli inferi di una Los Angeles nascosta e lì scopre molto più di quanto si aspettasse, tra cui una labirintica rete di relazioni tra personaggi di varia natura, milionari, artisti, ragazze stravaganti, vagabondi, scappati di casa e chi più ne ha più ne metta. 

Per gli amanti delle geografie urbane misteriose e per coloro che sono tormentati dalle teorie visionarie dell’occultista fittizio Thibaut de Castries, “Under the Silver Lake” offre numerosissimi spunti sui metodi di interpretazione della città attraverso un metodo matematico e simbologico: una serie di incontri tutt’altro che casuali consentiranno così al protagonista di immergersi in una Los Angeles carica di paranoia, la cui chiave è nascosta nei testi delle canzoni di una strana band indie chiamata Jesus & The Brides of Dracula, nelle parole di un “Re Senzatetto” e nei gesti di un fantomatico assassino di cani, fatti e personaggi che sembrano stranamente usciti dalla trama di un racconto a fumetti che egli in quegli stessi giorni sta leggendo. 
Il tutto presentato dal punto di vista di un giovane bohémien del ceto medio e benestante, saturo di cultura pop, coi capelli arruffati, che risiede per la maggior parte in quartieri emergenti, con una variegata sensibilità nei confronti della moda alternativa, che ascolta la sua musica su vinile, gioca con il Nintendo, sfoglia Playboy, si distrae facilmente e, proprio per questo, continua a perdere di vista il suo obiettivo. 

Tutto è ripreso e inquadrato in modo perfetto, al punto che ogni scatto sembra avere dietro di sé un codice nascosto, un oscuro grande segreto che finisce per ossessionarti. Una parte di me vorrebbe riguardarselo domani, perché se è vero che diversi piccoli particolari li ho colti per puro caso, moltissimi altri mi saranno di sicuro sfuggiti. Per non parlare delle innumerevoli citazioni cinematografiche, come quella che fa il verso Marilyn Monroe in uno dei suoi più celebri scatti.
Grazie a una regia intelligente, un umorismo sottile, una colonna sonora eccellente e un uso ardito ma sempre funzionale del sesso e della nudità, David Robert Mitchell ci ha regalato un’opera neo-noir davvero accattivante. E poi c’è Andrew Garfield, assolutamente convincente nei panni del giovane buono a nulla, egoista e assetato di sesso che si trasforma in un eroe suo malgrado. 
I problemi che rimangono senza soluzione, come accennavo all’inizio, sono innumerevoli, e lasciano ampio spazio a interpretazioni; certe cose si possono agevolmente decifrare in un modo o nell’altro, ma la maggior parte delle risposte si trovano probabilmente in una zona grigia nel mezzo, perché là dove c’è qualcosa a supporto di una teoria c’è sempre una contraddizione che porta nella direzione opposta, e questo è il punto che rende il lavoro di un recensore un vero incubo. 
Non posso far altro che invitare te, lettore di questo mio breve articolo, a seguire il Bianconiglio nella tana della cultura pop hollywoodiana e intraprendere il viaggio per conto tuo. Potresti pentirtene o potresti finire anche tu per adorarlo, o magari decidere di guardarlo e riguardalo in loop all’infinito, come si usa fare solo con i grandi classici di culto.



4 commenti:

  1. Mi hai convinto. Vedo di procurarmelo.

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  2. Risposte
    1. "It follows" è stato uno dei pochi horror decenti degli ultimi anni, se non il migliore in assoluto, ma temo che finirà per invecchiare prima di quanto non invecchierà questo.

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