lunedì 11 settembre 2023

Una rilettura di "Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Remarque

Questo libro non vuol essere né un atto d'accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale - anche se sfuggì alle granate - venne distrutta dalla guerra.
(Erich Maria Remarque) 

“La proposta ai giovani di leggere oggi un libro di guerra può far nascere qualche perplessità”. Con queste parole ha inizio la prefazione che il curatore Giuseppe Rubiola vergò per l’edizione Mondadori 1974, da quasi cinquant’anni in mio possesso, del capolavoro di Erich Maria RemarqueNiente di nuovo sul fronte occidentale”. Un’edizione diversa da quelle oggi in commercio, proprio perché rivolta a un pubblico di giovanissimi, giovani come lo fui io, studente di scuola media, quando mi ritrovai a sfogliarne le pagine con quella naturale superficialità dovuta all’età. Oggi forse qualcuno la chiamerebbe, utilizzando un neologismo, “edizione annotata”, ovvero ricca di note esplicative o integrative apposte a piè di pagina. Dubito che cinquant’anni fa si utilizzasse la stessa terminologia, e trovo conforto in questa mia sensazione nella stessa copertina, sulla quale spicca l’aggettivo “scolastico”, certamente più consono. Anche perché le annotazioni che vi trovo vanno dalle più convenzionali, come le definizioni di parole come “gavetta” o “spoletta”, a quelle meno ovvie, come la definizione di “Cavallo di Frisia”, un arnese che suppongo sia completamente ignoto al di fuori del mondo militare. 
La domanda che io mi pongo oggi è leggermente diversa, ovvero per quale motivo leggere un libro di guerra dovrebbe far nascere delle perplessità? Per la risposta basta sollevare il capo e gettare l’occhio appena fuori dalla propria zona di comfort, per rendersi conto di quanto possa essere attuale sporcarsi ogni tanto le mani, se non con una baionetta, almeno con un libro che parla di fango, di fame, di trincee e di soldati con divise fuori misura.

Il fronte di cui stiamo parlando è quello delle Fiandre, nel bel mezzo della Grande Guerra. Si tratta dello stesso fronte descritto minuziosamente da Céline nei primi capitoli del suo “Voyage”, con la differenza che quest’ultimo la osserva dal lato francese. Avrebbe dovuto essere, almeno nelle intenzioni tedesche, una guerra lampo, ma ciò che si ottenne fu una logorante guerra di posizione in cui i due eserciti, Germania da una parte e l’alleanza anglo-francese dall’altra, si trovarono contrapposti senza mai poter prevalere. 
I soldati, nella maggior parte dei casi adolescenti strappati ai banchi di scuola, combattevano in trincee spesso situate a poche centinaia (o addirittura poche decine) di metri da quelle nemiche. Ogni tanto, quando da una parte o dall’altra qualcuno ordinava l’assalto, i soldati uscivano dalla loro trincea e si lanciavano verso quella nemica, attraversando lo spazio intermedio sotto i colpi delle mitragliatrici. Fu un massacro totale, non solo perché i morti furono numerosissimi, ma anche perché gli stati indirizzarono tutte le loro risorse economiche per prevalere in un confronto che, nella migliore delle ipotesi, consentiva di guadagnare solo qualche metro di territorio. Vi risuona qualcosa? 

A me, non so come mai, vengono in mente quei vari comitati d’affari composti da vermilingui il cui scopo è produrre narrazioni volte a convincere il popolo che aumentare le spese militari, in particolare i fondi destinati all’acquisizione di nuovi sistemi d’arma, sarebbe di grande aiuto al paese. E non importa se le risorse finanziarie si esauriscono e non sarà più possibile sostenere la sfera sociale (leggi: scuole e ospedali) se queste si renderanno utili per contrastare il nemico. E giù nuove commesse a soci, clienti e committenti della lobby armata.
E in un meccano fatto di contraddizioni, perversità e algoritmi, i giullari di corte continuano a domandarsi perché il popolo bue si ostini a non capire quanto è bella la guerra, specie se atomica, con una retorica bellicistica totalmente stonata rispetto al comune sentire di un popolo pacifico e in gran parte pacifista. 
Perché mai un fabbro o un calzolaio francese dovrebbe desiderare di aggredirci? No, sono soltanto i governi. Prima di venire qui, non avevo mai visto un francese, e per la maggior parte dei francesi sarà stata la stessa cosa. Nessuno ha chiesto il loro parere, come non hanno chiesto il nostro. “E allora a che scopo c'è la guerra?” domanda Tjaden. Kat alza le spalle: “Ci deve essere gente a cui quella guerra giova”. 
Kantorek sta insegnando a una classe di diciottenni tedeschi quando la voce dei cannoni della Grande Guerra tuona già da un capo all’altro dell’Europa. Ometto severo, vestito di grigio, con un muso da topo, dovrebbe essere una guida all’età virile, al mondo del lavoro, alla cultura e al progresso, ma nel corso delle sue lezioni tiene invece così tanti discorsi sulla patria in pericolo e sulla grandezza del servire lo Stato che l’intera classe, sotto la sua guida, si reca compatta al comando di presidio ad arruolarsi come volontari. 
Paul Bäumer, il narratore, e i suoi coetanei partono quindi per il fronte, convinti di vivere una entusiasmante avventura all’insegna degli ideali dell’eroismo e del coraggio. Si renderanno però amaramente conto che la realtà della guerra è ben diversa da quella descritta dalla propaganda, specialmente se vi si giunge totalmente impreparati. Il loro entusiasmo dovrà fare i conti con la fatica della trincea, la mancanza di cibo e il rischio costante di cadere sotto i colpi del nemico. 
E tutte le balle raccontate dai propagandisti, che per anni hanno cercato di far passare un’idiozia gigantesca per un’idea intelligente da applaudire, si spaccano contro la massa granitica delle montagne della verità che emergono. Non restano che repressione da una parte e resistenza dall’altra. Una straordinaria tecnocrazia governa l’Europa grazie al terrore instaurato e alla vigliaccheria di molti. 

E Kantorek si presenta infine per quello che è, un demente corrotto senza uno straccio di competenza, presumibilmente anche lui pagato da chi ha enormi interessi nel business della guerra, e che esige che venga magnificata come salubre e straordinaria. In fondo, non esiste questione di giusto o sbagliato. Se la guerra produce soldi, allora la guerra è buona. 
Dovevano essere per noi diciottenni tutori e guide all’età virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere, alla cultura e al progresso; insomma all'avvenire. Noi li prendevamo in giro e talvolta facevamo loro dei piccoli scherzi, ma in fondo credevamo a ciò che ci dicevano. Al concetto di autorità di cui erano rivestiti, si univa nelle nostre menti un'idea di maggior saggezza, di più umano sapere. Ma il primo morto che vedemmo mandò in frantumi questa convinzione. Dovemmo riconoscere che la nostra età era più onesta della loro che ci sorpassavano soltanto nelle frasi e nell’astuzia. Il primo fuoco tambureggiante ci rivelò il nostro errore e fece crollare la concezione del mondo che ci avevano insegnato. Mentre loro continuavano a scrivere a parlare, noi vedevamo gli ospedali e i moribondi mentre esaltavano la grandezza del servire lo Stato noi sapevamo già che il terrore della morte è più forte. Non per questo diventammo ribelli, disertori, vigliacchi - espressioni tutte che quelli maneggiavano con tanta facilità -, noi amavamo la patria quanto loro, e ogni attacco avanzavamo con coraggio; ma ormai sapevamo distinguere, avevamo a un tratto imparato a guardare le cose in faccia. E vedevamo che del loro mondo non sopravviveva più nulla. Improvvisamente, spaventosamente, ci sentimmo soli, e da soli dovevamo sbrigarcela.
Il passaggio di Bäumer dall’adolescenza alla vita adulta viene quindi irrimediabilmente segnato dalla fredda logica del vivere o morire, condizione, l’una o l’altra, che dipende solo da una mera casualità. 

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, scriveva Ungaretti descrivendo la precarietà della vita di trincea attraverso la metafora della caduta delle foglie in autunno. È proprio in questo contesto che si pone “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, pubblicato nel 1929 e divenuto manifesto di condanna contro gli orrori della guerra e la sua insensatezza. Purtroppo, il libro si scontrò ben presto con il nazismo emergente, che, soprattutto dopo aver preso il controllo del Reichstag, aveva una forte necessità di eliminare dalla faccia della Terra ogni accenno di pensiero critico nei confronti della macchina da guerra che Hitler e Goebbels stavano rimettendo in funzione negli anni '30. 
Lo sguardo onesto sulla guerra e la descrizione delle disillusioni dei soldati ne fecero ovviamente un bersaglio del regime, che lo mise al bando e bruciò tutte le copie su cui riuscì emettere le mani. Stessa sorte ebbe la trasposizione cinematografica che Lewis Milestone fece nel 1930 e che, nonostante i premi Oscar (tra cui quello per il miglior film), ricevette le immediate attenzioni delle Camicie Brune. 

La visione di Remarque doveva evidentemente apparire come una minaccia per il nascente regime. Qualcuno, e per di più tedesco, che aveva avuto l’audacia di descrivere il conflitto come un orribile massacro completamente privo di senso, non era funzionale all’insorgente stato di guerra, che avrebbe inevitabilmente richiesto nuovi sacrifici, altrimenti inaccettabili, alla popolazione civile. E il popolo, che ha sempre la memoria corta, ci sarebbe ricascato nuovamente, dimenticando che Remarque aveva scritto nel suo libro che comunque si esca, ammesso che se ne esca, da una guerra, niente da quel momento sarà più lo stesso. 

Tra le pagine più toccanti del libro ci sono infatti quelle in cui Remarque descrive l’impossibilità per la sua generazione di adolescenti soldati di tornare alla normalità: 
E se anche ci restituissero il paesaggio della nostra gioventù, non sapremmo bene che farne. Le delicate e misteriose energie che passavano da quel mondo a noi non possono rinascere. Potremmo viverci, andarci in giro, ricordarci di noi stessi, e commuoverci alla sua vista. Ma sarebbe la stessa cosa di quando diventiamo pensierosi davanti alla fotografia di un compagno morto: sono i suoi tratti, è il suo volto e i giorni che abbiamo passato insieme riacquistano nella memoria una vita fittizia, ma non è lui. Oggi, nel paesaggio della nostra giovinezza, andremmo in giro come viaggiatori di passaggio. Gli eventi ci hanno consumati; sappiamo distinguere come mercanti, e conosciamo le necessità come macellai. Non siamo più spensierati, ma atrocemente indifferenti. Saremmo lì, ma sapremmo viverci? Abbandonati come bambini, disillusi come anziani, siamo rozzi, tristi, superficiali. Io penso che siamo perduti.
Oggi più che mai, quindi, c’è forte la necessità di proteggere i nostri valori spirituali e morali, e la nostra memoria, dinanzi ai troppi tentativi di riscrivere (e ripetere) la storia. Le bollette e l’inflazione che si impennano, i tagli sul welfare, sulla scuola, sulla sanità, in nome di necessità stabilite all’interno delle ovattate stanze delle banche centrali, sono soltanto i primi ma decisivi passi verso un nuovo baratro. 
«Egli [spoiler] cadde nell'ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”.  



10 commenti:

  1. La prima guerra mondiale fu una mattanza senza precedenti, la prima guerra in cui le armi in campo erano tali da poter uccidere centinaia di migliaia di uomini in un solo giorno.
    Per quanto riguarda la "volontà" dietro la guerra, e le conseguenze, ci sono i versi sempre appropriati di Bertolt Brecht:
    La guerra che verrà
    non è la prima. Prima
    ci sono state altre guerre.
    Alla fine dell'ultima
    c'erano vincitori e vinti.
    Fra i vinti la povera gente
    faceva la fame. Fra i vincitori
    faceva la fame la povera gente egualmente

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    1. Esatto. Quello che si fa fatica a digerire, accecati come siamo da quello che a tutti gli effetti non è molto diverso da un campanilismo da stadio, è che non esistono guerre tra popoli, bensì guerre tra classi, tra quei pochi che hanno tutto da guadagnare e quei molti che hanno tutto da perdere.

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  2. L'ho letto anch'io questa estate nell'edizione de la biblioteca del novecento europeo, pescata ad 1 Euro al mercatino.
    Una cosa che ho notato con il tempo e con le letture di questo tipo, è che tutte le guerre sono uguali.
    Vengo dalla lettura de Il segno rosso del coraggio, e non sono pochi gli elementi in comune tra i due romanzi, pur trattandosi di due guerre differenti, ed in quest'ultimo caso, molto antecedente.

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    1. Questo è vero, anche se poi alcuni libri non riescono a centrare perfettamente la questione. In Italia un grande narratore di guerra è stato Curzio Malaparte. Se riesci prova a recuperare "Kaputt".

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    2. Ho letto La pelle di Malaparte, e l'ho letteralmente divorato.
      Mi ero già segnato Kaputt, ma ancora non mi ci sono imbattuto.

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    3. Siamo comunque più o meno sempre da quelle parti...

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  3. Ho visto l'ultimo adattamento, un po' sopravvalutato, ma il messaggio arriva comunque forte.

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    1. Non lo guarderò per non perdere la magia del libro, ma sono certo che il messaggio sia comunque forte...

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  4. Bel libro, a me alle medie toccò Centomila Gavette di Ghiaccio, non allo stesso livello.

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