Credo di non andare molto lontano dalla verità se mi azzardo a dire che nella maggior parte delle
librerie “casalinghe”, o perlomeno in quelle degne di questo nome, è presente una raccolta di
racconti di Prosper Mérimée. Magari la vostra è una vecchia edizione da edicola, o magari
qualcosa di recuperato su una bancarella dell’usato, una di quelle bancarelle dove i libri si
comprano un tanto al chilo e non si fa nemmeno mai troppo caso ai titoli, perché in certe occasioni
conta più la quantità che la qualità. Nella mia libreria giace per esempio, impolverata dagli anni,
un’edizione piuttosto povera targata “L’unità / Einaudi” della novella “Carmen”, alla quale lo
scrittore francese, con la complicità della celebre trasposizione musicale di Bizet, deve senza
ombra di dubbio la sua fama universale. Quella mia vecchia edizione, ristampa parziale della
mitologica collana “Centopagine” curata nel 1971 da Italo Calvino, include, oltre al racconto messo
in evidenza dal titolo, anche “Il vaso etrusco”, “Le anime del purgatorio” e l’immancabile “La venere
d’Ille”, probabilmente uno dei titoli più abusati della sua vasta produzione. Intendiamoci, io amo
profondamente la “Vénus”, la cui lettura ancor’oggi mi fa venire la pelle d’oca, ma ho visto in giro
troppe antologie spudoratamente intitolate “La venere d’Ille e altri racconti” per non provare ormai
un vago senso di fastidio.
Ma non è della Carmen, e nemmeno della Venere, che volevo parlare oggi, bensì di un racconto
molto meno conosciuto e che in Italia è stato tradotto molto più raramente. Ne ho trovato traccia,
ma potrei anche sbagliarmi, solo in un’antologia del 2004 intitolata senza troppa fantasia “Tutti i
racconti” (un’edizione Donzelli peraltro meravigliosa). Il racconto in questione, intitolato “Il viccolo
di Madama Lucrezia” (la doppia “c” è in originale), una volta letto e apprezzato, si incastra
perfettamente tra i più grandi luoghi narrativi dell’Ottocento europeo.
Ancor più che in altri suoi racconti, le righe con cui Mérimée ci cattura e ci trascina nelle profondità
del mistero del “viccolo” trasudano di fantastico. È forse questa una storia di fantasmi? Oppure un
noir ben orchestrato? La somma di tutto questo, probabilmente, ma non solo. L'opera offre uno
strano miscuglio di terrore, incertezza, inquietudine e proibito che si fondono tra loro fino ad
attanagliare il lettore con mille dubbi che si dipanano pagina dopo pagina sulla base dei dolorosi
ricordi evocati dall’ombra di Lucrezia Borgia, che in tempi molto precedenti a quelli degli eventi
narrati usava adescare i propri amanti affacciandosi alla propria finestra per attirarli a sé, ricavarne
il giusto piacere e infine ucciderli, affinché la sua vita dissoluta non diventasse di dominio pubblico.
Protagonista suo malgrado di numerose opere letterarie, tra le quali i “Delitti celebri” di Alexandre
Dumas e “Lucrèce Borgia” di Victor Hugo, il ritratto della Lucrezia libertina, empia e ambiziosa che
è giunta sino a noi ha certamente varcato limiti impensabili e comunque non prevedibili. Cinque
secoli più tardi tutti ormai danno per scontato che Lucrezia abbia intrattenuto un rapporto
incestuoso con il padre Rodrigo, passato alla storia come papa Alessandro VI, e che sia stata
l’artefice di numerose morti misteriose avvenute in quegli anni, prima fra tutte quella del suo
secondo marito Alfonso d’Aragona. Pochi al contrario ricordano che la femme fatale rinascimentale
fu anche un’attiva mecenate, e che nell’ultima fase della sua breve vita aderì all’ordine
francescano e iniziò a indossare il cilicio sotto le vesti. La realtà probabilmente sta da qualche
parte nel mezzo di questi due estremi.
Prosper Mérimée non è meno colpevole di altri per la leggenda nera che da secoli si è creata
attorno alla nobildonna. Nel suo breve racconto, l’autore francese si inventa (o più probabilmente
assorbe dall’anedottica dell’epoca) una tradizione popolare secondo la quale Lucrezia Borgia
avrebbe fatto di una misera abitazione romana la casa dei suoi svaghi.
“Ai tempi dei pagani, quando Alessandro era imperatore, aveva una figlia, bella come il sole, che chiamavano donna Lucrezia. [..:] La dama amava divertirsi. E poiché il padre avrebbe potuto trovare da ridire, si era fatta costruire questa casa dove ci troviamo. Tutte le notti scendeva dal Quirinale e veniva qui per divertirsi. Si affacciava a questa finestra, e quando passava per la strada un bel cavaliere come voi ora, signore, lo chiamava; come lo accogliesse, lo capite voi. Ma gli uomini sono chiaccheroni, almeno alcuni, e avrebbero potuto nuocerle con le chiacchere. Così faceva pulizia. I suoi sgherri lo aspettavano nella scala per la quale siamo saliti. Ve lo spedivano, e poi lo interravano nelle aiuole di broccoli. Hanno trovato così tante ossa in quel giardino!”
Il narratore, un anonimo giovinetto francese, transitando per quello stesso vicolo nel corso di un
suo soggiorno romano intravede un’ombra femminile vestita di bianco dietro una finestra, con un
braccio teso verso di lui. Dopo pochi istanti una rosa cade ai suoi piedi. Prima che lui possa
reagire, però, la donna è già scomparsa e la finestra si è chiusa senza il minimo rumore.
Visibilmente scosso, ma allo stesso tempo affascinato da quell’apparizione, egli si getta quindi
sulle tracce della donna fantasma, con l’intento di soddisfare la sua curiosità o di porre fine alle sue
illusioni di innamorato.
Ma la leggenda del fantasma di Lucrezia Borgia, narratagli da una vecchina in odor di stregoneria,
si mette di traverso e lo porta a un passo dalla follia; ma solo a un passo, perché il finale,
sorprendentemente ispirato alle più classiche storie d’amore italiane, spazza via con un sol gesto
tutte le certezze a cui il protagonista, e anche il povero lettore, si era affidato.
Molti sono concordi nell’affermare che il fantasma del “viccolo” abbia ispirato il personaggio di
Lucia, la sfuggente fanciulla che nello sceneggiato RAI “Il segno del comando” conduce il
protagonista per i vicoli di Trastevere fino alla Taverna dell'Angelo, dove scompare. Le affinità a
mio parere esistono, ma sono limitate allo straniero in visita nella capitale e all’inafferrabile
fanciulla che allo stesso tempo lo stuzzica e lo tormenta.
La responsabilità di tale azzardato accostamento va probabilmente attribuita a un film televisivo
diretto dal regista Pierre Badel, trasmesso sul secondo canale dall'emittente francese Ortf il 2
maggio 1973. Presentato esplicitamente come un adattamento del racconto di Mérimée, di cui
conserva anche la doppia “c” dell’originale, il film sfiora quei temi tanto cari agli sceneggiatori
dell’epoca come occultismo, esoterismo, spiritismo e reincarnazione sullo sfondo di una Roma in
continuo bilico tra passato e presente, tra realtà e mistero.
Se presentate in questo modo, ma solo
in questo modo, le due vicende sono perfettamente sovrapponibili; in tutti gli altri casi, stiamo
parlando di cose diametralmente opposte. Resta comunque inalterato, per gli amanti del genere, il
fascino avvolgente di una vicenda collocata nelle più strette e sconosciute strade della nostra
capitale, affascinante al punto che a Mérimée è lecito perdonare quelle pagine sorprendenti, ma
anche un po’ pasticciate, con cui verga il finale della storia.
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