lunedì 18 novembre 2024

Jans deve morire

Come forse già saprete, alcuni fanno risalire l’etimologia della parola amore ad a-mors, dove la a privativa nega la parola che segue: amore, quindi, vorrebbe dire “senza morte”. Non importa ora stabilire quanto questa interpretazione sia corretta o verosimile, ma bisogna ammettere che è convincente, perfino invitante, perché ognuno di noi sa, intuitivamente, che l’amore può sconfiggere la morte, che dove c’è amore non c’è morte e viceversa. 
Purtroppo, come nel libro di cui vi parlo oggi, l’equazione funziona anche al contrario: l’amore negato porta la morte nel cuore e, spesso, anche nel corpo. “Jans deve morire” (Jans muß sterben), è il titolo di un racconto del 1925 di Anna Seghers (1900-1983) ed è anche la frase che una madre, Marie, mormora quando suo figlio Jans si ammala di una malattia che sembra lasciargli poche possibilità di guarigione. 
A quelle fatidiche parole (fatidiche in senso letterale: premonitrici, profetiche), il padre, Martin Jansen, s’indigna, ma è un sentimento fuggevole che lascia presto il posto a una prematura rassegnazione. Sarebbe forse comprensibile (ma anche no) se solo Jans non avesse appena sette anni e non fosse stato, fino al giorno prima, un bimbo sano e robusto impegnato in cose da bambini, tra la scuola e i giochi nei pressi del ponte sul fiume attiguo; ora è invece uno spettro che vegeta prima nel suo letto, poi su una poltrona accanto alla finestra, raggrinzito e rattrappito come un vecchio.
E più le persone lo vedono come un corpo estraneo, più lo mettono da parte e provano disagio in sua presenza, più lui pare rattrappirsi. Da dove arrivi quell’imperativo, da quali cuore e mente può essere scaturito quel “deve” è l’interrogativo che mi ha accompagnato durante tutta la lettura, e tuttora non sono sicuro di aver trovato una risposta valida. 
Eppure so che esistono famiglie disfunzionali, famiglie che all’apparenza sono normali ma in cui regnano l’incomunicabilità e la mancanza d’amore, oppure qualche tipo di squilibrio affettivo. 

Gli Jansen non sono dei mostri, si sono sposati per amore, il figlio l’hanno desiderato e a modo loro gli vogliono bene; casomai il problema è che avendo idealizzato la vita di coppia, ora sono delusi e distanti e mascherano il loro fallimento come coppia facendo del figlio una ragione di vita e riversando su di lui un amore malsano, perché comprende anche l’affetto destinato al coniuge. 
Il povero Jans viene usato, sì, usato, e in qualche modo percepisce che questo amore soffocante, fagocitante è, in fondo, superficiale. Infatti, questo precario equilibrio si rompe quando Jans si ritrova a letto malato, e passa in breve dall’essere troppo amato all’essere privato di amore e attenzioni. Durante la sua agonia, mentre si distaccano da lui nel corpo e nello spirito, i suoi genitori pian piano si riavvicinano. Nasce una figlia, Anna, probabilmente frutto di una disattenzione. E Jans sente che la piccola ha ormai preso il suo posto. 
Privato poco a poco dello sguardo dei genitori, concentratosi sulla nuova nata, sarà Jans stesso a negarsi di proposito quello sguardo, a evitarlo, mentre abbraccia quel senso di ineluttabile calamità che, con lui ancora vivo, si è già impadronita degli altri. 
Il dottore, non potendo far altro, lascia che Jans torni a scuola (ma in una classe inferiore) e a giocare con gli altri bambini, ma la tragedia è dietro l’angolo. Jans si dirige con ostinazione, quasi con furia, verso il destino che sembra essere stato scritto per lui. 

La ragione per cui la storia di Jans mi si è radicata nel cuore è difficile da spiegare. Non sono mai stato malato, non per più di quella manciata di giorni che non disprezzavo perché, se non altro, non dovevo andare a scuola. Sono figlio unico e non ho mai sperimentato quel sentimento di gelosia che molti provano, per motivi diversi, per i fratelli maggiori o minori, una gelosia quasi sempre inconfessata ma che può condizionare una vita intera. Tuttavia, non fatico a comprendere l’orrore dell’amore negato, perché l’amore inespresso è in realtà assenza d’amore. 
È esattamente quanto si verifica in questo racconto amaro che riguarda un povero bambino che dovrebbe essere spensierato ma spensierato non è, e probabilmente non lo è mai stato, che si prende carico anche del dolore degli altri, e a cui la giovane età impedisce di manifestare e forse persino di comprendere appieno i suoi sentimenti. 

Nell’indifferenza degli adulti, è Jans per primo a accettare e interiorizzare che, affinché i genitori e la sorella possano essere felici, lui deve morire. Il suo fato a lungo sospeso è infine deciso da lui stesso, è il suo minuscolo cuore, oppresso e pesante, a far pendere la bilancia dalla parte della morte, proprio come nel mito della bilancia di Maat. 
Amore e morte, come avrete intuito, sono i due grandi temi del libro, ma accanto a questi c’è quello della malattia come condizione spersonalizzante e che porta all’isolamento e alla perdita della speranza. 
L’altro giorno, camminando per strada, ho gettato un’occhiata dentro una finestra aperta al piano terra e ho intercettato lo sguardo di una vecchia signora allettata, lo sguardo inequivocabile di chi osserva scorrere impotente la vita degli altri. Ho subito distolto gli occhi, non solo per pudore ma per l’imbarazzo di essere finito nell’orbita di un’esistenza in cui non potevo e non volevo entrare. 
Anche leggendo questo libro ho spesso avuto la tentazione di distogliere gli occhi dalle pagine, per l’acuta percezione di stare commettendo un atto di voyeurismo su qualcosa che non si dovrebbe mai vedere, qualcosa di innaturale come la sofferenza di un bambino, in cui l’irrompere della malattia è forse essa stessa la manifestazione di un dolore nascosto, e apre un bivio, sì, un bivio in cui la direzione presa dagli eventi è decisa da un gesto compiuto dai genitori, o meglio non compiuto, o compiuto troppo tardi. 
Come nei due brani del racconto che riporto di seguito, per esempio. Nel primo, Jans osserva gli altri ragazzi giocare a palla e riesce a infilarsi nella mischia, ma non è molto bravo e gli altri lo spingono via, e allora lui si mette a guardarli seduto sul marciapiede. Ogni giorno si ripete la stessa scena, finché un giorno sua madre non lo vede. 
Una volta la madre passò di lì, e vedendolo seduto in disparte si sentì stringere il cuore e si chinò per accarezzarlo. Ma Jans si ritrasse, e con quella sua minuscola faccia avvizzita e cattiva la guardò non solo con rabbia, ma con odio e disgusto. E Marie si spaventò, sì, ebbe paura.” 
Nel secondo, i coniugi vanno a far visita a una parente, mentre Jans è rimasto a casa. Suo padre a un certo punto si dilegua e torna a casa pieno di inquietudine, ma vedendo le tracce del figlio in cucina prova una tristezza “dolce e silenziosa quasi come una carezza” che viene dal cuore: 
Si guardò intorno e vide Jans raggomitolato sul letto che dormiva con le gambe rannicchiate. Si avvicinò in punta di piedi, si chinò su di lui e allungò la mano per accarezzargli i capelli. Ma la ritrasse subito, alzò le spalle, si voltò e uscì. Non appena la porta si richiuse dietro di lui, Jans saltò su come una molla, puntò lo sguardo verso la porta e immediatamente tornò a raggomitolarsi. Aveva sentito i passi fin dallo scalino più basso, li aveva sentiti farsi più vicini e reali e possibili, si era rifugiato nel letto e non aveva avuto bisogno di trattenere il respiro che si era fermato da sé, perché quel che aveva atteso si stava avverando in modo anche troppo improvviso. Si era avvicinato a lui sempre di più, e un istante dopo era lì tutto intero. Ma l’istante passò, quel che era stato vicino si fece lontano, e la porta si richiuse dietro suo padre. E benché ora Jans fosse solo e nessuno potesse sentirlo singhiozzare, per precauzione morse un angolo del cuscino.” 
Martin, in particolare, sembra agognare la disperazione per la morte del figlio come alternativa a una vita incolore e priva di passioni intense. Nel suo cuore ha già detto addio a suo figlio: per lui il vero Jans è quello che ha già immaginato giacere nella tomba, non quello malato ed esausto e bisognoso di lui che attende il suo ritorno ogni giorno, e la mano che ha gli negato il suo tocco quando era ancora vivo non mancherà di carezzare amorevolmente i bordi della sua lapide (lo farà per anni, anche dopo che il resto della famiglia avrà perso l’abitudine di andare al cimitero). 
Anna Seghers (pseudonimo di Annette "Netti" Reiling, 1900-1983) scrisse questo racconto a venticinque anni. Nella vasta produzione della nota scrittrice tedesca viene considerato un racconto minore: venne scoperto dal figlio Pierre Radványi tra le carte ereditate dalla madre e pubblicato postumo soltanto nel 2000, nel centenario della sua nascita. Viene anzi definito un manoscritto incompiuto, non perché la storia non abbia una conclusione, ma perché si è ipotizzato che l’Autrice lo avesse messo da parte in previsione di una revisione del testo che però non fu mai fatta perché lei, a un certo punto, aveva perso interesse per quella e altre acerbe opere giovanili. 
Direi che possiamo accontentarci: a mio parere, la bellezza di queste pagine è già devastante così com'è e a poco sarebbe servito limare o affinare lo stile oppure mettere altra carne al fuoco in una trama che è efficace, a mio parere, anche per la lunghezza contenuta. Il racconto alterna il punto di vista dei tre componenti della famiglia ma non indulge mai nel sentimentalismo grazie a uno stile scarno ed essenziale che riesce talora a colpire come una coltellata. Questa non è una storia eccezionale, è una storia che, ne sono convinto, potrebbe accadere a chiunque: tenetelo a mente mentre leggete.

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