Prima di quest’anno non avevo mai veramente esplorato il realismo magico in letteratura. Voglio dire, negli anni ho letto qualcosa qua, qualcosa là (Kafka, Márquez, Borges, Murakami... le solite cose, insomma), ma in modo del tutto casuale e disordinato. Non mi era mai passato per la testa di seguire un ordine preciso, e men che meno di risalire alle origini del genere. Oggi sono ancora molto lontano dall’averlo fatto, ma ho colmato in parte questa lacuna recuperando un classico della letteratura messicana che risponde al nome di “Pedro Páramo” (1955) di Juan Rulfo (1917-1986), che è uno dei capostipiti di questo genere e nella cultura latino-americana è considerato un libro di culto. Era un po’ che adocchiavo l’edizione Einaudi in libreria, finché un giorno non mi è capitata in mano una copia usata e l’ho comprata di getto, leggendola quasi subito. In seguito ho recuperato anche due delle trasposizioni per il cinema (ben quattro*) che ne sono state tratte: la più vecchia, del 1967, e la più recente, uscita appena l’anno scorso. Cercherò di non raccontare troppo, ma qualche piccolo spoiler sarà inevitabile.
Per capire quanto peso abbia quest’opera nel mondo latino, basti sapere che la struttura dell'incipit di “Cent'anni di solitudine” di Gabriel García Márquez è modellata su questa frase di “Pedro Páramo” (a pag. 73 della suddetta edizione Einaudi nella traduzione di Francisca Perujo, ma esistono altre due traduzioni, sempre per Einaudi, che potrebbero rendere perfino più evidente la somiglianza):
«Il padre Rentería si sarebbe ricordato molti anni dopo della notte in cui il letto duro lo tenne sveglio e poi lo costrinse a uscire. Fu la notte in cui morì Miguel Páramo.»
Nella scrittura di Rulfo ci sono indubbiamente molti elementi fantastici, ma si sente anche l’influsso di Faulkner (anche se egli si dichiarò debitore più che altro della letteratura islandese, e in particolare di Halldór Laxness). Di certo l’ambientazione, la remota provincia messicana, è faulkneriana, così come anche, nella prosa, il ricorso ai salti temporali e il cambio dei punti di vista.
Il romanzo racconta vita, fatti e misfatti di un feudatario che ha spadroneggiato per decenni su una piccola comunità rurale del Messico, Comala, al tempo della rivoluzione messicana. Pedro Páramo ha contratto matrimoni d’interesse, derubato i contadini della loro terra, preteso tributi, stuprato donne e ucciso impunemente; ha avuto decine di figli, dei quali uno solo è stato riconosciuto. All’inizio del romanzo uno di questi, Juan Preciado, si reca a Comala per presentarsi al padre, come promesso a sua madre Doloritas sul letto di morte. Ma quando Juan vi giunge, Pedro Páramo è già morto da molto tempo, e la Comala evocata da Doloritas (la vita, i suoni, gli aromi) non esiste più, è ormai nient’altro che un paese fantasma sferzato dal vento.
Juan apprende la storia del padre e della città e comincia così, per il lettore, una narrazione fatta di frammenti che lo portano avanti e indietro, un viaggio che esplora la cittadina dall’interno, nello spazio e nel tempo, fra vicende e voci che si intrecciano, le voci di sparuti esseri non si capisce bene se vivi o morti (SPOILER: a quanto pare, sono tutti morti). È un viaggio verso la conoscenza, da un lato della storia del paese, dal valore cronachistico e storico, dall’altro delle sue radici: nonostante si sia recato a Comala solo per esaudire l’ultimo desiderio di sua madre, quando trova la città morta ma colma di voci diverse, a dispetto dei fantasmi, degli echi delle violenze passate e di tutto il dolore che ha impregnato le strade e le case e ancora persiste, vincendo la paura, rimane e va avanti, perché in fondo vuole sapere. La sua ricerca lo porterà, inevitabilmente, fino al cimitero dove giacciono le spoglie mortali del padre. Certo, la sua parabola è più breve e meno incisiva e per nessuno dei due, Pedro e Juan, c’è alcuna catarsi.
Il romanzo è una riflessione sul potere, sia politico-economico che sentimentale e relazionale, ma anche un viaggio alla ricerca delle proprie radici. Pedro Páramo, ormai lo sappiamo, non ha mai avuto pietà per nessuno, ma nella sua vita c’è stato il lampo di un amore non ricambiato per la bellissima Susana, della quale riuscirà un giorno ad avere il corpo, ma non il cuore. Ed è quasi naturale che vi siano straordinari ritratti di donna nel libro, nel bene e nel male. C’è Dorotea "La Cuarraca" - la donna che procura a Miguel Páramo, figlio di Pedro, le ragazze (consenzienti o no) con cui fare sesso - resa folle dalla sua incapacità di concepire un figlio. E naturalmente c’è Susana, l’oggetto dell’amore di Pedro.
Susana è una donna devastata da anni di abusi da parte del padre, presa in moglie da un uomo che non ama, ma che sente di appartiene solo a Florencio, il suo amante (non è ben chiaro se si tratti di un vero amante del passato o di un amante immaginario); e più Pedro la abbraccia, più lei è convinta di trovarsi tra le braccia dell’altro. Susana è incapace di essere felice nella quotidianità e passerà dai sogni a occhi aperti alla morte, mormorando appassionate parole d’amore per il suo amante e rifiutando la vicinanza di Pedro e di padre Rentería; il quale, quest’ultimo, meschino e corrotto come ogni altro nel paese, non sa offrirle alcuna consolazione, ma soltanto vuote immagini di morte.
Considerato che i due uomini incarnano l’autorità politica e spirituale, questo dice molto di ciò che l’autore voleva esprimere. La critica non risparmia dunque neanche la religione, piegata al volere dei potenti e priva di qualsivoglia valore o senso. Nel proseguo vediamo come e perché - è ciò che accade quando a guidare le azioni sono l’opportunismo e le passioni personali - il cacicco decide di far cadere in miseria la comunità, creando quel paese popolato di spettri che troviamo all’inizio del romanzo, chiudendo il cerchio quantomeno dal punto di vista narrativo.
Nel romanzo non ci sono veri e propri capitoli, ma è possibile identificare grossomodo due parti principali, la prima incentrata su Juan Preciado e sui racconti che ode su suo padre, la seconda che dà ampio spazio alle voci di numerosi altri personaggi la cui vita è stata influenzata da Pedro Páramo, e attraverso le quali si espande quanto narrato nella prima parte, aggiungendo dettagli e pathos. La trama è sfilacciata, frammentata, e questa contrapposizione di passato e presente, finzione e realtà rende la narrazione affascinante, ma allo stesso tempo molto difficile da seguire; ma non si legge un libro come questo per intrattenimento, ma per farsi avvolgere dalla sua atmosfera.
Il romanzo sembra pervaso da un pessimismo cosmico e di sapore apocalittico, perché Pedro Páramo non si è limitato a spadroneggiare sul singolo, ma ha costretto l’intero paese all’immobilismo e alla morte; Comala si è cristallizzata in un eterno presente di sopraffazione e perfino la rivoluzione ha appena sfiorato le vite degli abitanti, portando anziché una prospettiva di libertà o riscatto solo altra corruzione e violenza; non resta loro, come già a Susana, che cercare nel ricordo e nel sogno quell’espressione del sé e quella felicità che nella realtà sono stati loro negati. Ecco perché, se il tempo avanza e consegna tutto alla storia, il paese è in realtà una sorta di limbo in cui le voci restano a testimonianza di ciò che fu. Questa eredità così pesante è tutto ciò che resta a Juan da raccogliere, e neppure per intero.
Un parere più professionale del mio, quello della critica, è diviso fra tre principali linee di pensiero. Una parte della critica interpreta “Pedro Páramo” alla luce del mito dell’eterno ritorno (è innegabile che tutto a Comala si svolga in un eterno presente, come già detto sopra), in una sua versione distorta in cui però alla dissoluzione progressiva e alla distruzione non segue la fase di accettazione-rigenerazione; altri critici ne danno un’interpretazione essenzialmente storica (in relazione, ovviamente, alla storia del Messico), rilevando un parallelismo tra Comala e Città del Messico, tra i suoi abitanti e l’intera popolazione messicana e infine tra Juan Preciado e l’autore Juan Rulfo**. La terza interpretazione, quella mitica, trova le radici del romanzo nel mito della ricerca del padre della tradizione greca, in quello della ricerca del paradiso perduto e in quello messicano delle anime in pena.
Dal punto di vista stilistico, invece, per il suo intrecciarsi e continuo ramificarsi la prosa di Rulfo viene paragonata al rizoma di una pianta, che si dirama orizzontalmente e assume forme e dimensioni diverse.
Ma veniamo, dulcis in fundo, al cinema. La più vecchia trasposizione del romanzo, il “Pedro Páramo” del 1967, è firmata da Carlos Velo e sceneggiata dallo stesso regista assieme a Carlos Fuentes e Manuel Barbachano Ponce (e con la collaborazione di Gabriel García Márquez, almeno stando alla wikipedia italiana), con un cast principale che vanta nomi come John Gavin e Pilar Pellicer più Carlos Fernández nella parte di Juan Preciado; l'ultima, del 2024, è il primo esperimento dietro la macchina da presa di Rodrigo Prieto, già acclamato direttore della fotografia in film come “I segreti di Brokeback Mountain” del 2005 e “The Wolf of Wall Street” del 2013; la sceneggiatura è di Mateo Gil e abbiamo Manuel-Garcia Rulfo (Pedro), Ilse Salas (Susana) e Tenoch Huerta (Juan) nei panni dei personaggi principali.
Posso dire che entrambi sono piuttosto fedeli al romanzo, addirittura il film di Prieto mi è sembrato proporre alcune scene e dialoghi identici al romanzo, ma al netto delle piccole licenze poetiche, diciamo così, dei due adattamenti, a cui in seguito accennerò in breve, e al fatto che tutti e due a mio parere hanno saputo catturare lo spirito del Messico rurale, la differenza più evidente è sul lato estetico.
Il film di Velo è in bianco e nero, un bianco e nero che ci regala un film assieme gotico e onirico in cui le atmosfere soprannaturali del romanzo sono accentuate e onnipresenti: le riprese si aprono con uno stacco sul paesaggio immerso in una densa nebbia degno dei migliori capolavori del gotico. Il film fa bene il suo dovere, regalando una sottile e palpabile tensione e anche qualche brivido. Ma tutto il comparto tecnico è buono, così come la recitazione, e il film mi sembra purtroppo sottovalutato: fatico a comprendere la freddezza e le critiche che si attirò (anche da parte dello stesso regista) alla sua uscita, in parte dovute alla presenza di un attore statunitense nella parte principale. In realtà John Gavin*** era nato sì in California, ma da padre cileno e madre messicana, aveva un certo fascino latino e parlava fluentemente lo spagnolo, cosa che è possibile apprezzare nel film in lingua originale (non ho idea se sia mai stato doppiato o sottotitolato in italiano: io l’ho recuperato su YouTube sottotitolato in spagnolo).
Il film di Prieto è invece, ovviamente, a colori: la fotografia è in primo piano, ma il film alza l’asticella anche grazie alla collaborazione dei premi Oscar Eugenio Caballero alle scenografie e Gustavo Santaolalla alla colonna sonora. Purtroppo, il risultato non mi ha convinto del tutto, non solo per via dell’uso (comunque non eccessivo) della CGI, ma anche perché nelle riprese diurne si perde quell’atmosfera crepuscolare, sospesa e irreale che dovrebbe accompagnare ogni storia di fantasmi – e senza la magia e il mistero, la Comala buia e spettrale del ‘67 lascia il posto a un luogo che somiglia fin troppo a uno di quei paesi dell’Ovest americano tipici dei film western. Forse – chissà – il mio giudizio sarebbe più generoso se non avessi il “capostipite” del ‘67 come pietra di paragone, ma tant’è.
Anche sul piano narrativo sono state fatte scelte molto diverse e funzionali, immagino, all’idea molto personale che i due registi avevano del romanzo di Rulfo. Coi suoi salti temporali e una trama frammentata fatta di episodi spesso molto brevi, “Pedro Páramo” non è certo un libro facile da adattare per lo schermo: entrambi i film in qualche modo hanno riorganizzato la cronologia degli eventi e mi sembra che Velo abbia fatto un lavoro migliore nel rendere lineare la trama, se questo può dirsi un pregio, il che va a favore della comprensibilità, mentre il film di Prieto è, io credo, più difficile da seguire per chi non abbia già letto il romanzo, soprattutto se appartiene a un’altra cultura o conosce poco la storia messicana.
La parabola del Juan Preciado del ‘67 è eccezionale: la sete che lo assale appena giunto a Comala simboleggia una voglia di sapere che non potrà mai essere saziata, perché colui che cerca è morto e, anche se apprende molto della sua vicenda dalle voci delle persone che il padre ha brutalizzato e vessato, nessuna di queste è la sua. Non è un caso che le persone che incontra sul suo cammino, a partire dal mulattiere Abundio, gli offrano solo borracce immancabilmente vuote: ognuna di loro può testimoniare un frammento della storia, ma nessuna la conosce per intero. C’è qualcosa di biblico nella storia di Juan, qualcosa che ricorda la parabola del figliol prodigo al contrario, solo che qui non ci sono perdono o riconciliazione, né agnizione. Perfino i desideri e le lotte di un intero popolo si perdono nel vento.
Le maggiori differenze riguardano però il modo in cui il personaggio di Susana viene rappresentato. Nel primo adattamento, la trama mostra in maniera molto più esplicita il suo rapporto incestuoso con il padre; la donna che sposa Pedro sembra non ricordarsi affatto di averlo conosciuto da bambina, e accetta l’intimità con lui solo perché lo confonde con il suo amante virtuale. Per contro, in questo film la sua fine è veloce, quasi misericordiosa. Nel film di Prieto, invece, l’intento politico è più marcato. Viene dato molto spazio all’incontro fra Pedro e Susana bambini, ma questo non sembra renderla in alcun modo vicina al marito; Pedro assiste sgomento ai contorcimenti di Susana che si masturba invocando Florencio, in scene che nel lontano ‘67 sarebbero state forse troppo ardite, oppure che nessuno si sarebbe mai neanche sognato di girare. Infine, il suo rivendicare l’appartenenza al suo vero amore sembra più un’opposizione ideologica alle reprimende del prete e alla sua religione ipocrita – oltre che allo strapotere del marito - che il delirio di una moribonda.
Prima di concludere, ci sono altri due particolari degni di menzione. Il primo, in Velo, è la frase “Siamo tutti figli di Pedro Páramo!” che esprime non solo una verità oggettiva (abbiamo detto che Pedro ha ingravidato praticamente ogni donna di Comala), ma anche una dichiarazione d’intenti, cioè: siamo figli suoi e portiamo avanti la sua eredità, per quanto sia un’eredità di morte (infatti significativo è anche il momento, che non rivelo, in cui viene pronunciata). Il secondo è la scena, sempre in Velo, in cui Susana dice alla cameriera che forse loro sono vivi perché c’è qualcuno che li sta sognando e “quando si sveglierà noi svaniremo come in un incubo e saremo tutti morti".
Che ne dite, anche per voi la vita è un sogno? E se sì, di chi è il sogno? Non sappiamo che tipo di cultura abbia Susana (anche se si intuisce che suo padre aveva un ruolo di potere, ed era ricco, prima di cadere in rovina), ma quelle parole servono soprattutto a pennellarla come una creatura riflessiva e introversa a causa (o forse in conseguenza) della sua condizione mentale, per la quale è sospesa tra vero e falso, sogno e realtà, vita e morte. In aggiunta, è chiaro che qui c’è un omaggio dell’autore alla letteratura latina (come saprete la frase "la vita è il sogno di qualcuno" deriva dal dramma “Lavida es sueño” (La vita è sogno) dello spagnolo Pedro Calderón de la Barca), e a tutta una serie di autori che, da William Shakespeare a Lewis Carroll (ma anche capostipiti del fantastico come H.P. Lovecraft, per esempio), hanno voluto sottolineare la soggettività della realtà, che spesso si spinge oltre la normale percezione e si ammanta di qualità oniriche. In questo senso, è fin troppo facile vedere la Susana di Rulfo come una sorta di alter ego dell’Alice di Carroll – ma un’Alice che dal Paese delle Meraviglie non farà più ritorno.
* Stando al database IMdB, “Pedro Páramo” è stato proposto al cinema altre due volte, nel 1977 e nel 1981. La versione del ‘77 è stata sceneggiata e girata da José Bolaños e vede Manuel Ojeda nella parte di Pedro, Venetia Vianello in quella di Susana e Abelardo San Miguel in quella di Juan; si tratta di un film a colori della durata di 3 ore, che ha vinto 3 premi cinematografici e si è aggiudicato 2 candidature. La versione dell’81, sempre a colori, è di Salvador Sánchez. Il film ha una durata di 90’ e il cast principale è composto da Claudio Obregón, Cristina Rubiales e Guillermo Orea.
** Anche alla luce del fatto che il fittizio pueblo di Comala è ispirato a un vero paese della costa ovest del Messico che Rulfo conosceva bene, per averci vissuto, nonché di alcuni elementi della sua biografia (Rulfo perse in guerra sia il padre che il nonno).
*** All’epoca l’attore era già famoso per le sue parti in film come "Tempo di vivere", 1958, "Lo specchio della vita", 1959, "Psycho" e "Spartacus", 1960 e, cosa che non tutti sanno, dopo il ritiro dalle scene fu ambasciatore degli Stati Uniti in Messico per cinque anni, dall’81 all’86.
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