Nel 1967 la poetessa e scrittrice tedesca Renate Rasp (1935-2015) pubblicò il suo romanzo d’esordio
“Kuno. Un figlio degenere” (Ein ungeratener Sohn), che comparve in Italia l’anno seguente per
Mondadori nella traduzione di Bianca Cetti Marinoni come “Un figlio degenere”. Da quel momento
l’opera, molto criticata in patria, qui da noi venne presto dimenticata, finché quest’anno la piccola casa
editrice indipendente Storie Effimere non ha deciso di recuperarla e di proporla, in una nuova traduzione
a opera di Silvia Amalia di Cocco, con il suo titolo originale, per esteso.
Piccolo inciso: il catalogo di
Storie Effimere mi sembra molto interessante e non escludo che si torni a parlarne da queste parti. Fine
dell’inciso.
A quasi un anno di distanza dal post dedicato a un libro di Anna Seghers torno a occuparmi di letteratura
tedesca, la quale - non tanto imprevedibilmente - si rivela ricca di gemme nascoste, come questa - anche
se, a essere onesto, non sono del tutto stupito che il libro non abbia trovato tra i suoi lettori un gran
numero di fan, perché la storia è davvero scioccante e difficile da digerire. Si tratta in sintesi del racconto
di una famiglia che sarebbe riduttivo definire disfunzionale, in cui il patrigno/patriarca (una parola di cui oggi si abusa molto, ma che trova qui un vero senso) persegue il folle progetto di fare del figliastro un albero, con
l’entusiastico supporto della madre e perfino della stessa vittima. Se state pensando a qualcosa di
kafkiano, sappiate che no, non è così; qui il soprannaturale non ha alcun posto perché si tratta, né più né
meno, di un vero abuso fisico, ma anche di un estremo tentativo di disumanizzazione della vittima, che
sembra dover scontare il peccato di esistere. E se all’inizio tutto questo viene fatto lontano dall’occhio
della gente, a un certo punto questo stato di cose viene normalizzato e accettato anche al di fuori del
piccolo nucleo familiare. Oltretutto, quantomeno Gregor Samsa si trasforma (anche se non per sua
volontà) in un insetto, ovvero in un animale, e un animale ha comunque una sua personalità, una sua
volontà manifesta; una pianta, tanto più se da appartamento, invece no, è poco più che un ornamento.
Assistiamo quindi agli sforzi di Kuno per trasformarsi in qualcosa che non è e che la biologia – e il
comune buon senso – ci dice che non potrà mai essere. Eppure Kuno, nel cercare di compiacere il
patrigno, in un certo senso si trasforma davvero in una pianta, dal momento che con il passare del tempo
sembra sforzarsi il più possibile di farsi invisibile, di non fare rumore e non dare fastidio; rinuncia più
spesso che no a esprimere anche i suoi più basici desideri e bisogni e alla fine del romanzo apprendiamo
che ha trascinato la sua esistenza in completa abulia, ovvero nella totale assenza di scopo o azione,
proprio come una pianta mossa di peso da una parte all’altra di una stanza a seconda di come batte il sole
(si può dire infatti che la storia non abbia un vero finale). Inoltre del suo passato veniamo a sapere ben
poco, come se la sua vita fosse cominciata nel momento in cui ha conosciuto il patrigno, come se un
“prima” non esistesse o fosse troppo doloroso da ricordare; l’abuso ha come spazzato via tutto ciò che l’ha
preceduto.
L’Autrice sceglie di affidare la satira allo
stesso Kuno, che narra tutto in prima persona e il cui tono è leggero e, in netto contrasto con l’escalare
orrorifico della vicenda, asettico e a tratti perfino noncurante, come se fosse in preda a quella che
comunemente si definisce “Sindrome di Stoccolma”. Renate Rasp non indulge in particolari raccapriccianti
né cerca mai di impietosire il lettore, suggerendo senza mostrare le sofferenze di Kuno, il quale dal suo
canto non si limita ad accettare passivamente il suo destino, ma collabora con il suo torturatore con uno
zelo inquietante, dando sfoggio di quel rigore e di quel senso della disciplina così cari ai tedeschi e così ben radicati anche dentro di lui; si opera qui un'inversione della realtà in cui il carnefice e la vittima si scambiano di ruolo: il torturatore non è un pazzo o un mostro, ma un ragionevole e amorevole pater familias cui è toccato in sorte un “figlio degenere” che pare non voler proprio impegnarsi a essere come lui lo vorrebbe. Eppure, se la sua voce non riesce a farlo, il suo corpo invece
grida vendetta, forse anche in reazione alle privazioni subite e cominciate, guarda caso, con la privazione del cibo. A pagina 2 apprendiamo infatti che Kuno nel tempo è ingrassato molto e pesa ormai più di un
quintale (la narrazione, che va avanti e indietro nel tempo, comincia dopo l’evento centrale della vicenda), e al lettore non resta che domandarsi se quell’enorme massa corporea non sia il suo modo inconscio di affermare, nonostante tutto, la propria
esistenza, di dire “sono qui, esisto!”.
È davvero difficile trascurare il contesto storico in cui questo romanzo fu scritto e non traslare
l’esperienza di Kuno all’intero popolo tedesco, vittima nel recente passato (la Seconda Guerra Mondiale
era finita da appena una ventina d’anni al momento della scrittura del romanzo) di un’ideologia sfuggita
di mano e con il perenne ricordo della propria sconfitta, prima di tutto morale. Un giorno forse il popolo
tedesco farà pace con il proprio passato, ma all’epoca le ferite erano ancora fresche, le città recavano
ancora pesanti tracce dei bombardamenti e il paese diviso tra DDR e Germania Ovest era soggetto a
grandi tensioni politiche, con il movimento studentesco deciso a imporre una “contro-educazione
alternativa” e l’ombra del terrorismo che avanzava sulla nazione. D’altro canto, la “tortura rieducativa” è
stata applicata da numerosi regimi di ogni tempo e luogo (si pensi ai campi di rieducazione cinesi, per esempio), quindi
è anche giusto restituire alla critica il suo carattere universale. L’essenziale è ricordare sempre, come
ammonisce Rasp, che in mani sbagliate l’ideologia può trasformarsi in un ideale distorto, o in una
menzogna, e l’educazione, o contro-educazione, in dominio irrazionale e in violenza - quando manca
l’amore e perfino quando questo è presente.
***
Renate Rasp, nata a Berlino nel 1935, era figlia di un attore abbastanza famoso, Fritz Rasp (*).
Studiò a sua volta recitazione ed esordì nel mondo dell’arte come pittrice prima di dedicarsi al mestiere di
grafica pubblicitaria. Iniziò a scrivere solo a trent’anni, nel 1965, e due anni dopo si unì al Gruppo 47, un
collettivo di scrittori di lingua tedesca che si proponeva di rinnovare la cultura tedesca, pesantemente
influenzata dal regime nazista nei decenni precedenti, e che ebbe tra i suoi membri nomi illustri come
Heinrich Böll, Günter Grass, Peter Handke e Ingeborg Bachmann, solo per citarne alcuni. L’attività
del movimento era però già agli sgoccioli e si interruppe di lì a poco e un po’ per questo, un po’ per lo
snobismo di un pubblico più interessato al suo aspetto e alla sua genealogia che alla sua produzione
letteraria, nonostante avesse fatto scalpore con le sue poesie corrosive e provocatorie Rasp non conobbe
mai una vera fama come letterata. Pubblicò comunque alcune raccolte di poesie e romanzi che sarebbe
doveroso riscoprire oggi per ridare voce a una scrittrice davvero audace e fuori dagli schemi.
(*) Fritz Rasp (1891-1976) comparve in un numero impressionante di film e radiodrammi, ma viene oggi ricordato
principalmente per “Metropolis” di Fritz Lang, del 1927.


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