mercoledì 20 maggio 2015

Vita e morte di Jorge Riosse (Pt.2)

Siamo all’incirca a metà degli anni Ottanta quando la signora Rosa Elena Carvajal prende come affittuario nella sua casa nella colonia Nuova Anzures un giovane sulla ventina, di bell’aspetto, che si sistema in una camera al piano superiore e più tardi si trasferirà nel minuscolo sottotetto per "essere più vicino al cielo".
L’uomo si fa chiamare Jorge Riosse e, occasionalmente, Jorge Riossen, Jorge Cariño o Jorge Rossemberg, ma il suo vero cognome (come scoprirà poi leggendolo sul certificato di morte) è Rios Sanchez.
Il giovane non parla mai del suo passato e sembra tormentato nel profondo: fa discorsi sconclusionati, scompare e riappare spesso nel cuore della notte e saltuariamente lo avvistano sul Paseo de la Reforma mentre, truccato e vestito da donna, sembra intento ad adescare giovani uomini, non sembra avere un lavoro ma ha l’armadio pieno di vestiti griffati, eppure nessuna di queste stranezze allarma Doña Rosita che, anzi, rimane affascinata dalla sua carismatica personalità, così come tutti coloro che nel corso della sua lunga permanenza presso la donna hanno l’occasione di conoscerlo. Del resto, Jorge ha grande immaginazione e grande talento: canta, suona la chitarra, scrive e dipinge meravigliosamente ed è poliglotta. Se non proprio amici, Jorge e Rosa diventano abbastanza intimi, quasi come dei parenti. Pochi anni dopo, nei primi anni ’90, un assassino seriale comincia a mietere vittime nel Distretto Federale: tra il settembre del 1991 e l’aprile del 1993 un totale di 13 donne, tutte prostitute e comprese tra i 25 e i 38 anni, vengono assalite selvaggiamente e uccise in camere d’albergo situate in pieno centro città. I corpi vengono trovati sotto il letto, in genere coperti da un lenzuolo, e l’assassino usa il rossetto delle vittime per lasciare enigmatici messaggi sugli specchi.
I giornali dell’epoca parlano espressamente di uno strangolatore che prima consumerebbe rapporti sessuali con le donne per poi colpirle e ucciderle. In un’occasione, nella stanza 203 del Motel Mexicali, dopo aver affondato nel petto della vittima una bottiglia rotta l’assassino decide perfino di prenderne il cuore come souvenir e, prima di lasciare la stanza, disegna una stella a cinque punte circondata da altri strani simboli. È il 7 aprile e quello sarà l’ultimo omicidio del serial killer. La polizia, ridicolizzata dalla stampa, dapprima accusa un uomo di nome José Enrique Martínez Morales, un addetto all’autolavaggio, e cerca di archiviare il caso approfittando del fatto che l’uomo è troppo umile e spaventato per rigettare le accuse. Solo in seguito l’attenzione si sposta su Jorge Rios: la svolta avviene il 9 di aprile e il resto è storia.
Che cosa abbia portato la polizia a indagare su Rios resta per me un mistero che nessuno dei resoconti trovati in rete ha saputo chiarire. Forse a questo contribuisce il fatto che in Messico, a differenza di quanto accade in altri paesi, evidentemente non si usa porre troppa enfasi sui casi di cronaca nera, che restano quindi nella maggior parte dei casi confinati alla memoria di pochi e agli archivi dei media che hanno deciso di trattarli. Probabilmente ci sono già troppi casi di criminalità, derivanti dalle situazioni di estrema indigenza in cui la gran parte della popolazione versa, per concentrarsi anche sugli assassini seriali. Quel che è certo è che, qualsiasi cosa Rios stesse cercando di occultare nel suo alloggio, scomparve in effetti nel rogo da lui stesso appiccato.

Insomma, ci sarebbero parecchi indizi sulla sua colpevolezza, la maggior parte ritrovati dopo la sua morte, ma nessuna prova certa. Nonostante questo nessuno pare dubitare che l’assassino seriale del distretto della Merced fosse davvero lui, in primis la donna che per circa 8 anni lo ospitò nella sua pensione. La regista messicana Yulene Olaizola conobbe Jorge Rios Sanchez a dieci anni in casa di sua nonna, Rosa Elena Carvajal.
Yulene ha ricordato che Jorge, in occasione del loro primo incontro, insistette per fotografare lei e sua sorella maggiore, che era con lei, per poterle poi ritrarre nei suoi dipinti. Ancora oggi Rios è un argomento comune tra di loro, perché Doña Rosita ha sempre avuto l’abitudine di ravvivare le riunioni di famiglia raccontando aneddoti che riguardano lui e molti altri strani personaggi che negli anni hanno abitato nella pensione di Nuova Anzures.
Era inevitabile quindi che questa coincidenza così singolare spingesse Yulene a scegliere Rios come soggetto del suo primo lavoro, il documentario “Intimidades de Shakespeare y Victor Hugo” (Shakespeare and Victor Hugo's intimacies) del 2008, dal nome delle strade sul cui incrocio si trova la pensione di Doña Rosita e che è interamente ambientato nella pensione stessa.
È un documentario a due voci, quella di Rosa Elena Carvajal e della sua governante Flor (Florencia Vega Moctezuma), le due persone che forse lo conoscevano meglio, ma è inevitabile che quella predominante, e non solo per una questione di minutaggio, sia quella di Rosa. La regista le punta addosso la telecamera e si siede di fronte a lei in una chiacchierata informale durante la quale sua nonna si lascia andare ai ricordi, quasi un flusso di coscienza che all’inizio lascia spiazzati e solo con il proseguire trova il suo baricentro. Quel poco che si sa della vita e della personalità di Rios deriva da questo documentario. Ma Jorge Rios Sanchez è in un certo senso patrimonio di famiglia e Rosita lo ricorda ancora con affetto (“il mio caro pazzo”, lo chiama), per questo sua nipote Yulene sceglie un approccio che è tutto meno che sensazionalista, descrivendo prima il Rios uomo e artista, e giungendo gradualmente a raccontarne anche il lato oscuro e poi a ricollegarlo agli omicidi. La casa di Rosa è ancora piena dei dipinti e delle lettere di Jorge, muti testimoni di un dramma indimenticabile, e forse per questo la sua presenza sembra aleggiare ovunque rendendo l’atmosfera opprimente.

Rosa sembra a tratti tormentata, ancora desiderosa a quindici anni dalla sua morte di proteggere Jorge quando, con pudicizia, tenta di celare gli scritti che la nipote le chiede di leggere ad alta voce. O forse la pudicizia riguarda soprattutto se stessa, costretta ad ammettere che la schizofrenia di Jorge traspariva chiaramente dalle sue parole e dai suoi atti ma lei, donna sola e forse infatuata di quell’uomo di trent’anni più giovane, aveva chiuso gli occhi per non vedere. Verso la fine le sue continue assenze e i suoi strani comportamenti, uniti ai pettegolezzi della gente, avevano sollevato qualche dubbio nella donna, ma ancora la sua mente si rifiutava anche solo di concepire che potesse essere lui l’assassino di prostitute di cui tanto si parlava in quei giorni. In effetti, quel che più colpisce in vicende come questa è la discrepanza fra l’immagine mentale che ci si fa del mostro e quella evocata dalle parole di coloro che l’hanno conosciuto e che lo spesso lo descrivono come una persona intelligente, sensibile, sofferta, e anche a posteriori non si capacitano della sua natura segreta. Vien da chiedersi se noi, al loro posto, saremmo stati in grado di essere obiettivi, di cogliere le sfumature che separano eccentricità e follia.

Dai racconti di Rosa e dagli scritti di Jorge emerge il ritratto di un uomo dalla personalità disturbata, ossessionato e respinto dalle figure femminili, segretamente omosessuale e allo stesso tempo omofobo, tanto da scrivere sul muro del suo alloggio il grido, disperato, “No soy homosexual”. Scopriamo inoltre che Jorge era figlio di una ragazza madre che lo aveva abbandonato in orfanotrofio e lo aveva ripreso con sé solo anni dopo, quando si era formata una famiglia regolare, senza però mai integrarlo davvero al suo interno né dargli l’affetto di cui avrebbe avuto bisogno. Jorge dormiva e mangiava da solo senza avere nemmeno un letto degno di questo nome e, alla stregua di un domestico, era costretto ad accudire la sorella minore. Appena poté se ne andò di casa troncando i rapporti con i suoi familiari che, a loro volta, non lo cercarono mai. La ferita dell’abbandono materno, l’assenza di una figura paterna di riferimento e di una vera famiglia, le ingiustizie subite, il genio artistico e l’ambiguità sessuale ne fanno il ritratto di una persona destinata a sviluppare una personalità maniacale. Considerata la realtà da cui proveniva e la sua giovane età al tempo in cui Rosa lo conobbe, come Jorge abbia potuto farsi una cultura e affinare il suo talento artistico non è dato sapere. A testimonianza del suo estro restano però le sue canzoni, le sue poesie e i suoi quadri, capolavori di colorata plasticità dove i soggetti femminili la fanno da padrone. Anzi, secondo Rosa egli non dipinse mai altro che figure femminili. Le donne, che nelle poesie paragona a delle rose, sono qui creature di vibrante carnalità, spesso carezzate da pennellate nere che sembrano ingoiarle come a cancellarne l’esistenza.

NDB (Nota del blogger): A questo punto mi sembra sia evidente che ciò che avete letto nella prima parte di questo post è in larga parte frutto della fantasia del sottoscritto. Sebbene alcuni particolari coincidano, le cronache ci dicono che le ultime ore di Jorge Rios, pittore, poeta, cantautore e feroce serial killer, furono decisamente diverse da quelle che in qualche modo ho tentato di romanzare. Le fonti sono discordanti, ma la morte stessa di Rios viene talora descritta diversamente: la pallottola di un cecchino in pieno petto anziché l'esito di un maldestro tentativo di contenere le fiamme che lui stesso aveva appiccato, fiamme che avevano il vano scopo di far sparire prove per lui compromettenti. Ho preferito, come si è visto, calcare la mano sulla follia del personaggio, concedendogli il privilegio del "non saper intendere né volere", anziché fare leva sulla premeditazione che, per quanto più verosimile, avrebbe forse tolto un pizzico di interesse alla trama.
Gli scenari che fanno da sfondo al mio "piccolo racconto", vale a dire l'Alameda Central, il piccolo parco pubblico oltre il Barrio Chino e, naturalmente, il Paseo del la Reforma, sono luoghi identificati su una mappa della capitale messicana, e scelti affinché fossero abbastanza prossimi (tanto da poter essere raggiunti a piedi) al famigerato incrocio sul quale, nella realtà, si affacciava l'abitazione di Rosa Elena Carvajal e del suo sinistro affittuario. Nella fiction Jorge Rios descrive un appartamento le cui pareti sarebbero abbellite con le sue tele e, parlando di queste ultime, egli fa riferimento ad alcuni vicini di casa che le avrebbero accettate in cambio di piccoli favori. In verità, dei vicini di pianerottolo, per così dire, non sembra che siano mai esistiti, perché a Rios era stata affittata una camera dell’appartamento della padrona di casa, che però egli aveva lasciato di sua volontà per andare a occupare il sottotetto: quello che nel mio racconto generosamente viene definito "appartamento" era in realtà proprio quel triste locale posto nel sottotetto, le cui pareti, anziché abbellite da quadri, non erano nient'altro che lamiere ondulate. I quadri di Rios, mostrati anche nel documentario, abbelliscono tuttora la casa di Doña Rosa: la maggior parte le fu donata da Rios e il resto, probabilmente, le rimase in “eredità” dopo sua la morte. Forse queste note potrebbero apparire superflue a chi legge ma, nel rispetto della verità storica (nonché delle vittime del killer) credo fossero tutto sommato dovute.


8 commenti:

  1. Prescindendo dal personaggio specifico che hai proposto, mi chiedo come mai siamo in qualche modo così incuriositi, attratti quasi dai serial killer, che invece dovrebbero farci paura... Ho notato che basta un programma televisivo su Jack lo Squartatore o Jeff Dahmer e c'è tantissima gente che lo segue, che ne è incuriosita... Come se in qualche modo fossimo attratti dal lato oscuro dell'essere umano (quindi anche il nostro lato oscuro).

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    1. Non è altro che il fascino del male a guidarci. Viviamo in una società che ci impone determinate regole di convivenza, che non ci permette di esteriorizzare il lato cattivo che c'è in noi. Ma quel lato cattivo esiste, ed è precedente alla nostra società e alle sue regole. Diciamo che il male è una parte repressa di noi che in qualche modo deve sfogarsi....

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  2. Il lato oscuro, secondo me, attrae l'uomo in maniera "sana": anzi, credo sia sbagliato far finta che non esista il Male. probabilmente è una sorta di tentativo di razionalizzarlo e quindi di affrontarlo, nelle possibilità di ciascuno di noi. Temo molto di più chi lo ignora.
    Tutti abbiamo in noi anche quella parte, ed è bene farci i conti.
    E credo sia capibile il dramma di Rosa, il domandarsi come non le sia stato possibile capire prima.

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    1. Tutti abbiamo in noi il male, come dicevo infatti poco fa rispondendo al commento precedente. Nella maggior parte di noi il male è inespresso e, a diversi livelli, proviamo attrazione per coloro che riescono ad esprimerlo. Sembra patologico ma è del tutto naturale.

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  3. Questo articolo conferma pienamente le ipotesi che avevo azzardato nel precedente post. Se ci pensi la questione dell'omosessualità/omofobia è praticamente sorella gemella degli omicidi in quanto lui avvicinava le donne perché voleva reprimere questa sua consapevolezza che lo inorridiva, ma al contempo era inorridito dal contatto fisico con le donne perché 'non sentiva niente', aggiungi la questione della madre e del padre e ti ritrovi in mano una spirale senza fine.
    Mah... purtroppo certe persone avrebbero solo bisogno di tanto aiuto per accettare se stessi o almeno provarci, questo è quello a cui più di tutto mi viene da pensare.

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    1. Jorge Riosse inviava segnali abbastanza chiari di un problema psicologico. Quella scritta sulla parete, in evidente contraddizione con la sua abitudine a travestirsi, poteva essere benissimo interpretata come un grido d'aiuto. Un grido che non è stato raccolto, come era prevedibile...

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  4. Credevo che l'avresti suddivisa in numero maggiore di parti, raccontando molte più cose, ma questa vicenda lascia tanti, troppi punti oscuri.

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    1. Un numero maggiore di parti? No, ho ritenuto questo il modo migliore per raccontare queste vicende.

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