lunedì 8 maggio 2023

Il morbo di Haggard

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi che ’n mille dolci nodi gli avolgea, e ’l vago lume oltra misura ardea di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi; e ’l viso di pietosi color’ farsi, non so se vero o falso, mi parea: i’ che l’esca amorosa al petto avea, qual meraviglia se di sùbito arsi? (Francesco Petrarca, Il canzoniere) 

Erano anni ormai che intendevo cimentarmi con la lettura di Patrick McGrath, autore britannico che conoscevo per una manciata di racconti, uno dei quali recensito con entusiasmo anche qui sul blog secoli addietro. 
L’impresa di recuperare McGrath non era tra le più difficili, visto che nella mia polverosa libreria sono già presenti quasi tutti suoi titoli, già letti a apprezzati da mia moglie nel corso degli anni. 
Volendo iniziare ad affrontarne la corposa bibliografia, mi è quindi bastato chiedere consiglio alla mia preziosa "dolce metà". 
Da dove iniziare? La risposta, arrivata di getto nel giro di tre secondi, è stata “Dr. Haggard's Disease”, ovvero “Il morbo di Haggard” come è stato tradotto da Adelphi nel 1999, pochi anni dopo la sua prima pubblicazione inglese. 
Di Adelphi, per la cronaca, ne ho contate almeno sei diverse edizioni, chiaro sintomo dell’enorme successo di vendite che quest’opera ha raccolto in questi ultimi vent’anni.
Il morbo di Haggard” è un'opera ambiziosa e oscura scritta da uno che ci sa davvero fare con le parole, uno che è in grado di arpionare l’attenzione del lettore sin dalle prime righe e non lo lascia finché non è arrivato alla parola fine. Non faccia il lettore l’errore di iniziare a leggerlo dopo cena, altrimenti finirà per fare mattina prima di chiudere la copertina e accorgersi di essere stato per ore vittima di un incantesimo. Farà mattina senza tuttavia essere riuscito a sciogliere il dubbio più atroce, quello sull’accuratezza della presentazione degli avvenimenti a lui raccontati da un narratore, il dottor Edward Haggard, senza ombra di dubbio assolutamente inaffidabile. 
Ma chi è davvero il dottor Haggard? Chi è, o cos’è, quel suo compagno di viaggio che egli sibillinamente chiama “spike”? Chi è davvero James Vaughan, quel ragazzo che piomba sin dalle prime righe nella vita del protagonista, e che nel bene e nel male gli riporterà alla mente avvenimenti allo stesso tempo piacevoli e dolorosi? 
Avrei potuto iniziare questo mio articolo scrivendo, molto semplicisticamente, che “Il morbo di Haggard” è un romando di amore e morte o, se vogliamo, di amore, tradimento e morte, ma sarebbe un ridimensionamento immeritato. Un tradimento, questo è vero, c’è, e rappresenta il fulcro senza il quale la vicenda, un drammatico monologo in prosa, non starebbe in piedi, ma una volta tanto il tradimento è raccontato non dal traditore o dal tradito, bensì dall’oggetto del tradimento (stavo per scrivere “dal tradente”, ma all’ultimo sono stato assalito dal sospetto di stare inventando una parola di sana pianta). Per chiarezza l’oggetto del tradimento, o “il tradente”, se preferite, è il soggetto che interviene dall’esterno e mette a soqquadro una qualsiasi corrispondenza di (quelli che in precedenza evidentemente furono) amorosi sensi. 
Il punto di vista, in narrativa, non è nemmeno originalissimo (basti pensare a Paolo Malatesta, giusto per citare il caso più celebre), ma è quello che noi tutti, quando leggiamo di un adulterio, tendiamo a considerare trascurabile. Nonostante ciò, è il punto di vista più poetico e McGrath, che questo aspetto lo ha colto benissimo, lascia che il suo protagonista si abbandoni a lunghe dissertazioni sulla sua travagliata vita interiore e sul ricordo della sua Fanny, la sua personalissima Francesca che però, al contrario di quella dantesca, non è affatto angelica; è più fisica, addirittura invecchia. Egli usa spesso l’imperfetto per ricordare il passato ed esprimere, in tal modo, il tempo che passa e la malinconia. 
In riferimento alla già citata inaffidabilità del narratore, alla fine viene anche da domandarsi se Fanny sia davvero mai esistita, così come si dice che non sia mai esistita Laura, la figura femminile evocata da Petrarca in uno dei sonetti più famosi del Canzoniere nonché della lirica italiana, i cui occhi, anch’essi, avevano perso la luminosità di un tempo (quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi). 

Siamo nel 1940 e lo scenario è quello della celebre “Luftschlacht um England", "la battaglia aerea per l'Inghilterra", una campagna militare in cui la Royal Air Force difese il Regno Unito dagli attacchi su larga scala dell'aviazione della Germania nazista, la Luftwaffe. Edward Haggard è un medico generico che si è trasferito da Londra a Elgin, nel sud dell'Inghilterra, per riprendersi da una storia d'amore sfortunata con la moglie di un collega, il capo patologo del vecchio ospedale dove Haggard faceva lo stagista di chirurgia. 
In vero stile gotico - uno stile in cui McGrath non ha pari tra i contemporanei - Haggard prende possesso di un oscuro maniero situato su una scogliera a picco sul mare, dove si abbandona alla morfina e alle sue tristi fantasticherie. Un giorno entra nel suo ambulatorio un giovane aviatore, James Vaughan, che si rivela essere figlio dell'ex amante di Haggard. “Credo che lei abbia conosciuto mia madre” è la frase con cui James esordisce. È una frase apparentemente innocua, ma che apre un baratro oscuro di dolore e ossessione nell’animo di Haggard. 
No, non è come state pensando. Non è la solita storia di un giovane che, una volta raggiunta l’età adatta, si palesa agli occhi di un padre biologico ignaro di essere tale (se così fosse stato, avrei probabilmente chiuso il libro). James è davvero figlio del padre che lo ha cresciuto, ma è ossessionato dal voler conoscere l’uomo che un giorno di tanti anni prima fece battere il cuore di una moglie e una madre.
In breve tempo anche Haggard finisce travolto da una vera ossessione per James e gli confessa, senza quasi alcun filtro, ogni dettaglio della sua passione per la madre, dalla fisicità seducente e ossessiva dei momenti di passione rubati, alle note di profumo che a lungo permanevano nelle stanze dove lei era stata, fino alla lunga, insopportabile attesa di un nuovo incontro. 
Il romanzo va avanti e indietro nel tempo, dalla vita attuale di Haggard nella sua isolata casa di campagna alla sua relazione intensa e infine dolorosa con Fanny. Man mano che la storia procede, Haggard si rivela però un uomo malsano, sia fisicamente che mentalmente. Parte di questa insalubrità è chiaramente un risultato diretto di quella vecchia relazione, ma il resto... beh, ritorniamo alla domanda iniziale: quanto possiamo fidarci della versione dei fatti del narratore? 
Si noti che “Il morbo di Haggard”, come accennato in precedenza, è offerto sotto forma di monologo, e ciò lascerebbe intendere sin dalle prime battute che James, nel momento in cui il lettore viene a conoscenza dei fatti, è già definitivamente uscito dalla vita del narratore. O forse, anche James, come Fanny, non è mai davvero esistito. Fantasia e realtà sono confuse in maniera inestricabile. Trattenuto fino alla fine del romanzo vi è l’indizio di una trasformazione in atto, l’allusione a una crescente femminilità e infantilismo, ma mentre il lettore attende la grande rivelazione, McGrath chiude con un’immagine che è al tempo stesso orribile e indimenticabile.

4 commenti:

  1. Mi piacciono le storie ossessive e ho inserito questo libro nella mia coda di lettura. Che purtroppo è molto lunga. Chissà se riuscirò a leggerlo prima di abbandonare questa terra...

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    1. Mai dire mai. Pensa che io ho appena letto "Il carteggio Aspern" di Henry James, acquistato qualcosa come quarant'anni fa e da allora lasciato lì a prendere tonnellate di polvere nella mia libreria...

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  2. Io credo che a non esistere sia stato il sentimento stesso, trasformato da Haggard in qualcosa di totalizzante nel momento in cui è finito, complice il fatto di aver lasciato qualcosa di irrisolto con Fanny., la quale invece viveva la cosa come una scappatella. Però ho fatto fatica nella lettura. Non nego che la mielosità di certe descrizioni (per quanto giustificata) mi abbia fiaccato.

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    1. Ciò che dici è corretto. Occorre provare a ragionare con la testa del protagonista, al quale sono riservati pochi attimi di felicità, inframmezzati da periodi infiniti di attesa dell'attimo di felicità successivo. E in quegli infiniti periodi di solitudine non fa che pensare, pensare, pensare, finendo per elevare a mito una storia per lui totalizzante, inevitabilmente destinata, nelle migliore delle ipotesi, a finire rapidamente e dolorosamente (in tutti gli altri casi rimane irrisolta, il che è sicuramente anche peggio). In tutto questo la controparte, Fanny, ha solo un ruolo marginale, nel senso che le è possibile comprendere il sentimento di Haggard solo in maniera parziale, combattuta com'è tra le certezze di un matrimonio e le incertezze del dover iniziare daccapo. Vista da fuori è tutta la situazione a non esistere: i due si incontrano ma non riescono mai davvero ad avvicinarsi tra loro.

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