lunedì 15 maggio 2023

Red Eye (Death Train)

Kim Dong-bin è un regista coreano che in carriera non ha fatto moltissimo, praticamente quattro cose in croce a distanza di un lustro una dall’altra. Della sua opera d’esordio (Ring Virus, 1999), abbiamo casualmente già parlato in passato anche qui sul blog (era, per farla breve, quel superfluo remake sudcoreano di “Ring” di Hideo Nakata). L’ultimo suo lavoro, passato anche questo quasi inosservato, è stato invece "The Sleepless” (2012), uno dei tanti film in cui assistiamo a un piccolo gruppo di persone che si svegliano in una stanza chiusa senza alcun ricordo di come sono arrivate lì. 
Ma non è questo ciò di cui volevo parlare oggi, bensì del lungometraggio più noto di Kim Dong-bin, noto al punto che ho scoperto qualche giorno fa che è stato addirittura inserito nel nostro catalogo Prime Video, un luogo dove molto raramente film asiatici che non siano i soliti tre trovano terreno fertile.
Eppure questo titolo, tutto sommato nemmeno tra i migliori del vasto panorama horror coreano, è riuscito a farsi spazio con le unghie e con i denti, merito forse di un selezionatore attento a un certo tipo di cinema o, più ragionevolmente, merito dei bassi costi dei diritti d’autore legati a questo film.
Red Eye” (Redeu-ai), in Italia uscito straight-to-video come “Death Train”, un titolo già in partenza più rivelatore di quello originale, risale al 2004 ed è un tipico esempio di film totalmente girato in una delle più classiche “camere chiuse” del cinema, ovvero la carrozza ferroviaria. 
Sarà perché si tratta di un mezzo di locomozione tra i più antichi della nostra storia, sarà per via di quell’aria sempre un po’ sudicia che hanno spesso i treni e i loro viaggiatori, sarà perché permette a perfetti sconosciuti di insinuarsi nella nostra intimità, condividendo spesso per lunghe ore uno spazio ristretto, sarà per tutti questi motivi, e forse per altri, che treni, carrozze e stazioni hanno spesso fatto sfondo a vicende da mettere i brividi. Se in letteratura ci basta pensare a tre classici senza tempo, ovvero ad “Assassinio sull’Orient Express” di Agatha Christie, “Il Tunnel” di Friedrich Dürrenmatt e “Macelleria mobile di mezzanotte” di Clive Barker (senza contare i racconti ferroviari dello specialista Grabinski, di cui abbiamo ampiamente parlato qui), è proprio al cinema che il treno assume il ruolo del vero protagonista.

A memoria mi vengono in mente, e li metto in ordine cronologico, “Non prendete quel metrò!” (Gary Sherman, 1972), “L’ultimo treno della notte” (Aldo Lado, 1975), “Terror Train” (Roger Spottiswoode, 1980), “Moebius” (Gustavo Mosquera, 1996), “Snakes on a train” (Mallachi brothers, 2006), “Train of the Dead” (Sukhum Mathawanit, 2007), “Snowpiercer” (Bong Joon-ho, 2013), e “Train to Busan” (Sang-ho Yeon, 2016), ma cercando in rete ne troverete di sicuro decine di altri. Si spazia, come salta all’occhio, dal giallo all’horror alla fantascienza, da Oriente a Occidente, da capolavori assoluti a minchiate galattiche, ma tutti con in comune il filo conduttore del treno. Alcuni dei film citati sono in realtà girati su treni della metropolitana, come giustamente mi farete notare, ma il ragionamento non si scosta di molto. Direi anzi che è proprio a una stazione della metropolitana, quella di “Un lupo mannaro americano a Londra" (John Landis, 1981), che spetta la palma di location più suggestiva. Ma sto divagando. 
Nel film di Kim il treno è appunto Red Eye, che è il termine con il quale in genere ci si riferisce ai treni (o ai voli) notturni. In particolare, un Red-Eye è un treno il cui tempo di transito non è sufficiente ai passeggeri per prendere una cuccetta e dormire in pace tutta la notte (il termine “occhi rossi” intende evocare la stanchezza di chi è privato del sonno).

Antefatto: alla fine degli anni '80 un Red-Eye diretto a Yeosu lasciava la stazione di Seoul e si schiantava, uccidendo 250 persone. Quindici anni più tardi, un altro treno sta percorrendo per l'ultima volta la stessa linea prima di dismettere il servizio. In esso sono ovviamente incorporate alcune parti recuperate dai rottami del vecchio treno incidentato. A bordo facciamo la conoscenza di una giovane hostess di nome Oh Mi-sun al suo primo giorno di lavoro che, guarda ancora una volta il caso, è la figlia del capotreno che perse la vita in quel fatale disastro ferroviario e al quale ne fu frettolosamente addebitata la responsabilità. Mi-sun, che ben presto realizza di possedere dei poteri psichici, inizia a intravedere gli spiriti di coloro che erano morti nello schianto e inizia ad avere visioni dei vecchi arredamenti dei vagoni, che a tratti sembrano voler prendere il posto di quelli più moderni.
Come nel più classico dei film di fantasmi, ciò che era accaduto sembra voler accadere di nuovo e la priorità di Mi-sun, oltre che di sciogliere il mistero, è quella di evitare che il nuovo, annunciato disastro si ripeta nuovamente. 

"Death Train", sommariamente etichettato come film dell'orrore, non è in realtà particolarmente spaventoso. Siamo più dalle parti della storia di fantasmi che trasmette angoscia e inquietudine con la giusta continuità, una storia che anziché puntare tutto su una serie di “jump-scare”, oggi ormai piuttosto prevedibili, lavora sulle emozioni dello spettatore per lento accumulo. La presenza di qualcosa di sinistro è in gran parte solo accennata, vaghe ombre scure che affiorano dagli angoli e continui scorci del passato che riaffiora, il tutto accompagnato dal rumore costante del treno che avanza nella notte. L’atmosfera è piacevolmente coinvolgente, gli attori sono bravi e perfettamente in parte, la fotografia di Byun Hee-Sung è raffinata ed elegante ma, tirando le somme, il risultato che è stato consegnato allo spettatore è piuttosto dozzinale.
Il dito va certamente puntato sulla terribile sceneggiatura di Kim Mi-Young, che ha messo sul piatto un numero eccessivo di personaggi, ognuno con la sua situazione da risolvere, ed è stato fin troppo “generoso”, in quel finale, nel voler gratificare lo spettatore di un terribile “spiegone”, appesantito tra l’altro da dialoghi eccessivamente stucchevoli. 

È anche un peccato che si sia per forza voluto ricorrere a cliché come quello della "ragazza fantasma" dai lunghi capelli neri che si attorcigliano attorno al volto di una vittima, o a quello dello spettro che emerge da una pozza di sangue o, non ultimo, a quello delle luci di un corridoio (in questo caso di una carrozza) che si spengono una per una. 
Se solo Kim Dong-bin avesse optato per soluzioni più originali, e se avesse fatto riscrivere la sceneggiatura a uno bravo, sono certo che “Red Eye” oggi non sarebbe solo un dimenticabilissimo horror di ambientazione ferroviaria, anche perché l’idea di far apparire dei fantasmi in una location claustrofobica come quella non era affatto male. Purtroppo “Red Eye” non è stato in grado di sfruttare al meglio tale punto di partenza ed è rimasto un modesto episodio all’interno della vasta e fiorente scena horror asiatica di inizio secolo. Peccato.



Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...