venerdì 24 gennaio 2025

Libro Vs. Film: The Cremator (l'uomo che bruciava i cadaveri)

Ci sono dei momenti nella vita in cui si avrebbe voglia di leggere un’opera di finzione che sia allo stesso tempo aderente ai corsi e ricorsi storici, che ci aiuti a ricordare la storia perché la storia non si ripeta, che parli di scelte e di responsabilità, che sia profonda e commovente, ma sentiamo di non trovarci nello stato d’animo adatto per sopportare il fardello emotivo che una tale lettura comporterebbe. 
Ecco, è proprio in uno di quei momenti che un romanzo come “Spalovač mrtvol” dello scrittore praghese Ladislav Fuks (1923-1994) potrebbe aiutare a superare il blocco del lettore, perché pur trattando un tema spinoso come i prodromi dell’Olocausto è ricco di una buona dose di humor nero grazie al quale l’Autore ha saputo rendere le vicende narrate più grottesche e stranianti che orrorifiche. 
Il finale aperto, poi, può scompaginare un po’ le carte e quella percezione a senso unico dell’epilogo dell’opera che ci si insinua nella mente durante la lettura. 
Il romanzo, del 1967, fu portato in Italia da Einaudi nel ‘72 con il titolo “Il bruciacadaveri”, titolo ripreso anche dall’edizione Miraggi Editore del 2019. Viste le premesse, si tratta con evidenza di un’opera che indaga l’oscurità della mente umana e lo fa tramite la figura del protagonista Karel Kopfrkingl, direttore di un crematorio nella Praga degli anni Trenta del Novecento. Di inusuale Karel non ha tanto il lavoro (dopotutto la cremazione ha una sua utilità e come tutti i lavori sgradevoli, qualcuno li deve pur fare), quanto la passione con la quale lo svolge e le attenzioni al limite del malsano che riserva ai cadaveri, specialmente se di donne giovani e graziose. 
Che la morte sia benefica, perché offre sollievo dalle sofferenze umane, e che la cremazione sia uno dei presupposti di un paese civile, in quanto unico modo che gli esseri viventi hanno per reincarnarsi in fretta, sono le sue due granitiche certezze. La morte è il suo culto è il crematorio il suo tempio (proprio così lo chiama: il Tempio della Morte); questo lavoro gli permette di esprimere la sua vocazione religiosa, un buddismo frammisto di concetti cristiani (“sei polvere e polvere ritornerai”) nato dalla passione per il Libro Tibetano dei Morti, che assieme al testo della legge sui crematori del 1921 costituisce in effetti la sua unica, ossessiva lettura. 

Quando poi viene sedotto dalle idee nazionalsocialiste, è il nazismo stesso a divenire il mezzo per un fine religioso, mentre la sua peculiare visione del mondo lo rende il candidato più adatto a mettere in pratica la soluzione finale, partendo proprio dalla sua stessa famiglia. La moglie ebrea e i figli in parte ebrei, così come i conoscenti e i colleghi con cui questi condividono le origini, non avrebbero vita facile nella società ariana, il “futuro mondo felice” vagheggiato dai nazisti, perché quindi non offrir loro una via d’uscita rapida e compassionevole da tutto questo dolore? 
Questa è una di quelle storie il cui significato trova la sua compiutezza proprio correlandola al periodo storico in cui si svolgono i fatti. Astoricamente, è possibile leggerla come il racconto di un eccentrico individuo che perde la sanità mentale, o che perde il contatto con la realtà dopo essere stato irretito da una setta (la storia perderebbe forse un po’ di forza, ma per contro potrebbe prefigurare le derive della New Age, dato che si parla espressamente di Buddismo, o essere considerata più in generale come una critica agli estremisti religiosi); considerando invece il tempo e il luogo propri della narrazione è palese che il crematorio civile amministrato da Karel assurga a prova generale e modello per i successivi forni crematori dei campi di concentramento, e non si può che arrivare alla sovrapposizione del ruolo del nostro bruciacadaveri con quello di un’intera popolazione/nazione. 

L’ineluttabilità storica di quanto avvenuto rende la lettura sempre più difficile man mano che si procede anche se, come detto, il romanzo non difetta certo di ironia e sa anche strappare qualche amara risata. Dal libro di Fuks è stato tratto, fra l’altro, uno dei miei horror preferiti, “The Cremator - L'uomo che bruciava i cadaveri” del regista slovacco Juraj Herz, del 1969. Una commedia horror, in effetti, in cui non sono assenti neppure degli elementi gotici. 
Regista di punta della Nová vlna cecoslovacca, Herz lavorò alla sceneggiatura con lo stesso Fuks anche se, a quanto pare, non era rimasto particolarmente colpito dal suo romanzo, e nonostante le difficoltà nella realizzazione (le riprese furono interrotte dall’occupazione russa dell’agosto ‘68 e il film fu ritirato per motivi ideologici dopo la primavera di Praga) riuscì a fare di “Spalovač mrtvol” il suo film più libero, quello nel quale esprimere al massimo la sua visione artistica - tanto che in seguito, almeno finché non deciderà di lavorare fuori dalla madre patria, Herz girerà prevalentemente commedie o fiabe, storie più convenzionali che non potessero essere lette in senso politico o sociale e incorrere in tagli della censura, o peggio. 
La trama del romanzo è di per sé abbastanza esile, e nella prima parte possiamo riassumerne brevemente i momenti salienti nella gita allo zoo, la visita alla camera degli orrori, l’incontro di boxe, un paio di cene di famiglia, Karel al crematorio e poco altro – tutte circostanze rese abbastanza fedelmente anche nel film. Tuttavia, è tra le pieghe della storia che si nasconde il seme che poi andrà a germinare, è nei dettagli, le frasi ambigue e il non detto che si intuisce ciò che il narratore non esplicita a proposito del personaggio più importante: l’atteggiamento viscido di Karel verso le donne, il timore e il disagio dei suoi colleghi di lavoro, l’accenno a una sua vita nascosta, e così via. A proposito di doppia vita, possiamo intuire quali siano i suoi misteriosi impegni serali dalla frequenza con la quale si reca fuori orario dal medico per fare test per le malattie veneree, con la scusa che ha paura di infettarsi per via del suo lavoro al crematorio. 

Abbiamo quindi un uomo che vede la malattia come sintomo della decadenza della società e da un lato si comporta come un ipocondriaco, dall’altro categorizza l’umanità sulla base della malattia e della morte: ai suoi occhi, colleghi e vicini di casa non sembrano avere caratteristiche fisiche o etiche rilevanti, ma piuttosto essere il ricettacolo di disgrazie e vizi, propri e contingenti (il tale ha problemi di fegato perché beve, il tal altro ha perso moglie e figlio di malattia, l’altro ancora è un vizioso morfinomane), un trattamento che riserva anche al suo stesso figlio (se è troppo magro e a qualcuno sembra effemminato, allora evidentemente il suo sangue, inteso come retaggio razziale, lo ha corrotto). 
In definitiva Karel Kopfrkingl è un tipico borghese il cui formalismo esprime l’ipocrisia di un’intera classe sociale (le frasi “io non bevo”, “io non fumo” che ripete come un mantra danno la misura di una moralità a senso unico, circoscritta a criteri non assoluti, ma personali). Per esempio, e non è il peggio, il suo ostentato amore per la musica classica e per l’arte cela in realtà un feticismo per oggetti di dubbio gusto; il suo logorroico eloquio, che vorrebbe essere raffinato, è invece affettato e stucchevole e risulta un’arma affilata per zittire i suoi interlocutori (alcune parti del libro sono in effetti suoi lunghi monologhi), in primis la sua sempre più muta e rassegnata consorte; il tanto sbandierato amore per la famiglia è inframmezzato da un accentuato senso del dovere, manifesto in quel rimprovero ad alta voce che lui fa a se stesso a proposito del fatto che non si occupa abbastanza dei suoi cari e che riletto poi, procedendo nella narrazione, assumerà un sinistro significato e farà davvero accapponare la pelle. 

Non è l’unico caso: anche altre frasi, andando avanti, suoneranno ambigue e leggibili in un doppio senso. Eppure Karel, a parte l’anomala passione per tutto ciò che ha a che fare con la morte, non sembra davvero violento né malvagio, ma piuttosto un uomo represso preda di pulsioni nascoste che in circostanze normali non sarebbero mai degenerate; tutti dettagli avallati da Herz nelle scene iniziali del suo film, in cui i primissimi piani sul volto di Karel (interpretato da un immenso Rudolf Hrušínský) si intervallano ai close up sugli animali dello zoo, non solo ad accostare uomini e animali, ma proprio ognuno di essi a questo singolo uomo, come a voler dire che Karel, cambiate le regole del vivere civile, si potrebbe scatenare proprio come un animale liberato accidentalmente dalla gabbia e ugualmente pericoloso in quanto, in potenza, cacciatore, cioè assassino. 
Il bruciacadaveri” viene sempre letto come un’allegoria del nazismo come malattia, patologia sociale, eppure proprio il fatto che il protagonista della storia sia già in qualche modo fallato in origine fa sì, a mio parere, che la storia fallisca nel fornire una risposta universale all’ascesa del nazismo. C’è anche, ovviamente, la possibilità che l’Autore volesse suggerire che tutta la società in sé è già intrinsecamente malata, e che ciascuno degli individui che la costituisce, inclusi noi lettori, cela in sé i germi della follia. Nulla vieta comunque di considerarlo anche solo come una bella riflessione sul conformismo, sulla manipolazione e sulla banalità del male. 

Forse ora, e me lo auguro, sarete curiosi di capire se sia migliore il romanzo o il film. Per quanto mi riguarda credo che il film in questo caso surclassi il romanzo, ma onestamente non so quanto pesi il fatto che io abbia visto l’uno molti anni prima di leggere l’altro: resta il fatto che se per me quello di Fuks è un buonissimo romanzo, reputo il film un capolavoro assoluto. E non perché aggiunga o tolga qualcosa di significativo alla trama, al netto delle piccole differenze stabilite in fase di sceneggiatura, ma proprio per la resa visiva, che è eccezionale fin dalla scelta del bianco e nero, particolarmente azzeccata per illustrare il contrapporsi di bene e male. 
Si tratta però di colori molto morbidi che danno origine a diverse sfumature di grigio (non le famose cinquanta, ma comunque parecchie), che potremmo considerare come la rappresentazione dei vari gradi del relativismo morale: la parabola traslata in video di un protagonista che procede nel degrado morale senza riuscire a giudicare il peso delle proprie azioni, che abbraccia la follia riuscendo allo stesso tempo a pianificare con razionalità le mosse che favoriranno la sua carriera, che diviene un freddo burocrate dispensatore di morte mentre dice a se stesso che sta facendo del bene. 
Anche i primi e primissimi piani e l’uso del grandangolo sono espedienti utilizzati dal regista per ammiccare a questa visione distorta: nel libro abbiamo il punto di vista di un narratore inaffidabile, nel film sono le inquadrature incomplete o in qualche modo squilibrate a suggerire che la mente del protagonista è essa stessa squilibrata. Che dire poi della parte in cui questo immagina la rivelazione che sarà lui il prossimo Dalai Lama? La rivelazione fattagli da un monaco che il regista, con geniale intuizione, fa interpretare allo stesso attore che già presta il volto a Karel? È interessante inoltre vedere il trattamento che la trasposizione cinematografica riserva alle altre figure presenti nel libro. Poiché tutta la narrazione è filtrata dagli occhi di Karel, gli altri personaggi sono spesso silenti, ma il regista restituisce loro la voce richiedendo agli attori una recitazione volutamente teatrale, cosicché le loro emozioni gli si leggano in modo inequivocabile sul volto – mentre nel romanzo, per forza di cose, bisogna usare un po’ più l’immaginazione. 
Si dovrebbe anche parlare del differente modo in cui sia Fuks che Herz, nel film, dispensano abilmente indizi di ciò che accadrà, ma preferisco non fare troppi spoiler. Piuttosto, vale la pena menzionare che molti dei personaggi che compaiono in scena (principalmente colleghi di Karel ma anche alcuni dei morti da cremare) hanno nomi di animali (agnello, lupo, volpe, capriolo ecc.) vittime usuali dell’ingordigia e della cattiveria umana, che potranno forse trovar pace solo nell’Aldilà. Forse è un po’ poco per vedere la storia come un pamphlet animalista, ma è senz’altro anche questo un aspetto da considerare.



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