Ci sono dei momenti nella vita in cui si avrebbe voglia di leggere un’opera di finzione che sia allo stesso
tempo aderente ai corsi e ricorsi storici, che ci aiuti a ricordare la storia perché la storia non si ripeta, che
parli di scelte e di responsabilità, che sia profonda e commovente, ma sentiamo di non trovarci nello stato
d’animo adatto per sopportare il fardello emotivo che una tale lettura comporterebbe.
Ecco, è proprio in
uno di quei momenti che un romanzo come “Spalovač mrtvol” dello scrittore praghese Ladislav Fuks
(1923-1994) potrebbe aiutare a superare il blocco del lettore, perché pur trattando un tema spinoso come i
prodromi dell’Olocausto è ricco di una buona dose di humor nero grazie al quale l’Autore ha saputo
rendere le vicende narrate più grottesche e stranianti che orrorifiche.
Il finale aperto, poi, può
scompaginare un po’ le carte e quella percezione a senso unico dell’epilogo dell’opera che ci si insinua
nella mente durante la lettura.
Il romanzo, del 1967, fu portato in Italia da Einaudi nel ‘72 con il titolo “Il
bruciacadaveri”, titolo ripreso anche dall’edizione Miraggi Editore del 2019.
Viste le premesse, si tratta con evidenza di un’opera che indaga l’oscurità della mente umana e lo fa
tramite la figura del protagonista Karel Kopfrkingl, direttore di un crematorio nella Praga degli anni
Trenta del Novecento. Di inusuale Karel non ha tanto il lavoro (dopotutto la cremazione ha una sua utilità
e come tutti i lavori sgradevoli, qualcuno li deve pur fare), quanto la passione con la quale lo svolge e le
attenzioni al limite del malsano che riserva ai cadaveri, specialmente se di donne giovani e graziose.
Che
la morte sia benefica, perché offre sollievo dalle sofferenze umane, e che la cremazione sia uno dei
presupposti di un paese civile, in quanto unico modo che gli esseri viventi hanno per reincarnarsi in fretta,
sono le sue due granitiche certezze. La morte è il suo culto è il crematorio il suo tempio (proprio così lo
chiama: il Tempio della Morte); questo lavoro gli permette di esprimere la sua vocazione religiosa, un
buddismo frammisto di concetti cristiani (“sei polvere e polvere ritornerai”) nato dalla passione per il
Libro Tibetano dei Morti, che assieme al testo della legge sui crematori del 1921 costituisce in effetti la
sua unica, ossessiva lettura.
Quando poi viene sedotto dalle idee nazionalsocialiste, è il nazismo stesso a
divenire il mezzo per un fine religioso, mentre la sua peculiare visione del mondo lo rende il candidato più
adatto a mettere in pratica la soluzione finale, partendo proprio dalla sua stessa famiglia. La moglie ebrea e
i figli in parte ebrei, così come i conoscenti e i colleghi con cui questi condividono le origini, non
avrebbero vita facile nella società ariana, il “futuro mondo felice” vagheggiato dai nazisti, perché quindi
non offrir loro una via d’uscita rapida e compassionevole da tutto questo dolore?
Questa è una di quelle storie il cui significato trova la sua compiutezza proprio correlandola al periodo
storico in cui si svolgono i fatti. Astoricamente, è possibile leggerla come il racconto di un eccentrico
individuo che perde la sanità mentale, o che perde il contatto con la realtà dopo essere stato irretito da una
setta (la storia perderebbe forse un po’ di forza, ma per contro potrebbe prefigurare le derive della New
Age, dato che si parla espressamente di Buddismo, o essere considerata più in generale come una critica
agli estremisti religiosi); considerando invece il tempo e il luogo propri della narrazione è palese che il
crematorio civile amministrato da Karel assurga a prova generale e modello per i successivi forni
crematori dei campi di concentramento, e non si può che arrivare alla sovrapposizione del ruolo del nostro
bruciacadaveri con quello di un’intera popolazione/nazione.
L’ineluttabilità storica di quanto avvenuto
rende la lettura sempre più difficile man mano che si procede anche se, come detto, il romanzo non difetta
certo di ironia e sa anche strappare qualche amara risata.
Dal libro di Fuks è stato tratto, fra l’altro, uno dei miei horror preferiti, “The Cremator - L'uomo che
bruciava i cadaveri” del regista slovacco Juraj Herz, del 1969. Una commedia horror, in effetti, in cui
non sono assenti neppure degli elementi gotici.
Regista di punta della Nová vlna cecoslovacca, Herz
lavorò alla sceneggiatura con lo stesso Fuks anche se, a quanto pare, non era rimasto particolarmente
colpito dal suo romanzo, e nonostante le difficoltà nella realizzazione (le riprese furono interrotte
dall’occupazione russa dell’agosto ‘68 e il film fu ritirato per motivi ideologici dopo la primavera di
Praga) riuscì a fare di “Spalovač mrtvol” il suo film più libero, quello nel quale esprimere al massimo la
sua visione artistica - tanto che in seguito, almeno finché non deciderà di lavorare fuori dalla madre patria,
Herz girerà prevalentemente commedie o fiabe, storie più convenzionali che non potessero essere lette in
senso politico o sociale e incorrere in tagli della censura, o peggio.
La trama del romanzo è di per sé abbastanza esile, e nella prima parte possiamo riassumerne brevemente i
momenti salienti nella gita allo zoo, la visita alla camera degli orrori, l’incontro di boxe, un paio di cene di
famiglia, Karel al crematorio e poco altro – tutte circostanze rese abbastanza fedelmente anche nel film.
Tuttavia, è tra le pieghe della storia che si nasconde il seme che poi andrà a germinare, è nei dettagli, le
frasi ambigue e il non detto che si intuisce ciò che il narratore non esplicita a proposito del personaggio
più importante: l’atteggiamento viscido di Karel verso le donne, il timore e il disagio dei suoi colleghi di
lavoro, l’accenno a una sua vita nascosta, e così via. A proposito di doppia vita, possiamo intuire quali
siano i suoi misteriosi impegni serali dalla frequenza con la quale si reca fuori orario dal medico per fare
test per le malattie veneree, con la scusa che ha paura di infettarsi per via del suo lavoro al crematorio.
Abbiamo quindi un uomo che vede la malattia come sintomo della decadenza della società e da un lato si
comporta come un ipocondriaco, dall’altro categorizza l’umanità sulla base della malattia e della morte:
ai suoi occhi, colleghi e vicini di casa non sembrano avere caratteristiche fisiche o etiche rilevanti, ma
piuttosto essere il ricettacolo di disgrazie e vizi, propri e contingenti (il tale ha problemi di fegato perché
beve, il tal altro ha perso moglie e figlio di malattia, l’altro ancora è un vizioso morfinomane), un
trattamento che riserva anche al suo stesso figlio (se è troppo magro e a qualcuno sembra effemminato,
allora evidentemente il suo sangue, inteso come retaggio razziale, lo ha corrotto).
In definitiva Karel Kopfrkingl è un tipico borghese il cui formalismo esprime l’ipocrisia di un’intera
classe sociale (le frasi “io non bevo”, “io non fumo” che ripete come un mantra danno la misura di una
moralità a senso unico, circoscritta a criteri non assoluti, ma personali). Per esempio, e non è il peggio, il
suo ostentato amore per la musica classica e per l’arte cela in realtà un feticismo per oggetti di dubbio
gusto; il suo logorroico eloquio, che vorrebbe essere raffinato, è invece affettato e stucchevole e risulta
un’arma affilata per zittire i suoi interlocutori (alcune parti del libro sono in effetti suoi lunghi
monologhi), in primis la sua sempre più muta e rassegnata consorte; il tanto sbandierato amore per la
famiglia è inframmezzato da un accentuato senso del dovere, manifesto in quel rimprovero ad alta voce che
lui fa a se stesso a proposito del fatto che non si occupa abbastanza dei suoi cari e che riletto poi,
procedendo nella narrazione, assumerà un sinistro significato e farà davvero accapponare la pelle.
Non è
l’unico caso: anche altre frasi, andando avanti, suoneranno ambigue e leggibili in un doppio senso. Eppure
Karel, a parte l’anomala passione per tutto ciò che ha a che fare con la morte, non sembra davvero
violento né malvagio, ma piuttosto un uomo represso preda di pulsioni nascoste che in circostanze
normali non sarebbero mai degenerate; tutti dettagli avallati da Herz nelle scene iniziali del suo film, in
cui i primissimi piani sul volto di Karel (interpretato da un immenso Rudolf Hrušínský) si intervallano ai
close up sugli animali dello zoo, non solo ad accostare uomini e animali, ma proprio ognuno di essi a
questo singolo uomo, come a voler dire che Karel, cambiate le regole del vivere civile, si potrebbe
scatenare proprio come un animale liberato accidentalmente dalla gabbia e ugualmente pericoloso in
quanto, in potenza, cacciatore, cioè assassino.
“Il bruciacadaveri” viene sempre letto come un’allegoria
del nazismo come malattia, patologia sociale, eppure proprio il fatto che il protagonista della storia sia già
in qualche modo fallato in origine fa sì, a mio parere, che la storia fallisca nel fornire una risposta
universale all’ascesa del nazismo. C’è anche, ovviamente, la possibilità che l’Autore volesse suggerire
che tutta la società in sé è già intrinsecamente malata, e che ciascuno degli individui che la costituisce,
inclusi noi lettori, cela in sé i germi della follia. Nulla vieta comunque di considerarlo anche solo come
una bella riflessione sul conformismo, sulla manipolazione e sulla banalità del male.
Forse ora, e me lo auguro, sarete curiosi di capire se sia migliore il romanzo o il film. Per quanto mi
riguarda credo che il film in questo caso surclassi il romanzo, ma onestamente non so quanto pesi il fatto
che io abbia visto l’uno molti anni prima di leggere l’altro: resta il fatto che se per me quello di Fuks è un
buonissimo romanzo, reputo il film un capolavoro assoluto. E non perché aggiunga o tolga qualcosa di
significativo alla trama, al netto delle piccole differenze stabilite in fase di sceneggiatura, ma proprio per
la resa visiva, che è eccezionale fin dalla scelta del bianco e nero, particolarmente azzeccata per illustrare
il contrapporsi di bene e male.
Si tratta però di colori molto morbidi che danno origine a diverse
sfumature di grigio (non le famose cinquanta, ma comunque parecchie), che potremmo considerare come
la rappresentazione dei vari gradi del relativismo morale: la parabola traslata in video di un protagonista
che procede nel degrado morale senza riuscire a giudicare il peso delle proprie azioni, che abbraccia la
follia riuscendo allo stesso tempo a pianificare con razionalità le mosse che favoriranno la sua carriera,
che diviene un freddo burocrate dispensatore di morte mentre dice a se stesso che sta facendo del bene.
Anche i primi e primissimi piani e l’uso del grandangolo sono espedienti utilizzati dal regista per
ammiccare a questa visione distorta: nel libro abbiamo il punto di vista di un narratore inaffidabile, nel
film sono le inquadrature incomplete o in qualche modo squilibrate a suggerire che la mente del
protagonista è essa stessa squilibrata. Che dire poi della parte in cui questo immagina la rivelazione che sarà lui il prossimo Dalai Lama? La rivelazione fattagli da un monaco che il regista, con geniale
intuizione, fa interpretare allo stesso attore che già presta il volto a Karel? È interessante inoltre vedere il
trattamento che la trasposizione cinematografica riserva alle altre figure presenti nel libro. Poiché tutta la
narrazione è filtrata dagli occhi di Karel, gli altri personaggi sono spesso silenti, ma il regista restituisce
loro la voce richiedendo agli attori una recitazione volutamente teatrale, cosicché le loro emozioni gli si
leggano in modo inequivocabile sul volto – mentre nel romanzo, per forza di cose, bisogna usare un po’
più l’immaginazione.
Si dovrebbe anche parlare del differente modo in cui sia Fuks che Herz, nel film, dispensano abilmente
indizi di ciò che accadrà, ma preferisco non fare troppi spoiler. Piuttosto, vale la pena menzionare che
molti dei personaggi che compaiono in scena (principalmente colleghi di Karel ma anche alcuni dei morti
da cremare) hanno nomi di animali (agnello, lupo, volpe, capriolo ecc.) vittime usuali dell’ingordigia e della
cattiveria umana, che potranno forse trovar pace solo nell’Aldilà. Forse è un po’ poco per vedere la storia
come un pamphlet animalista, ma è senz’altro anche questo un aspetto da considerare.
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