lunedì 22 maggio 2023

Tokyo Express

Tre sono le cose che, a mio parere, caratterizzano i migliori noir. Primo: il rigore nella cura dei dettagli, meravigliosamente assemblati come tessere di un mosaico cretese. Secondo:  la capacità introspettiva. Terzo: l’ambientazione, fosse pure la Bassa padana, deve catturare l’attenzione; se, per il lettore, non è esotica, deve perlomeno sembrarlo, perché, inutile dirlo, c’è un intrinseco legame tra i personaggi (e i loro gesti, moventi, sospetti) e l’ambiente.
Seichō Matsumoto, il “Simenon giapponese”, sa certo destreggiarsi molto bene fra questi tre aspetti ma, quanto al secondo punto, direi che in generale gli autori giapponesi, a prescindere dal genere, sono maestri nell’introspezione psicologica. 
Nei giorni scorsi ho terminato il suo “Ten to Sen” a tempi di record come non mi capitava da tempo, e oggi sono già qui a parlarne. In Italia, la prima edizione Mondadori si intitolava “La morte è in orario”, mentre quella Adelphi del 2018 è stata rinominata “Tokyo Express”, gergo militare (così i marines statunitensi definivano la stupefacente precisione della marina militare giapponese durate la Seconda Guerra Mondiale) che allude all’ingranaggio criminale così ben oliato che nel libro rende le indagini lunghe e farraginose. Io per abitudine avrei definito una tale perfezione un funzionamento da orologio svizzero (e vedrete poi proseguendo nella lettura quanto il paragone sia azzeccato), ma, sì sa, i giapponesi sono un po’ gli svizzeri d’Oriente, quindi va bene lo stesso. 
Chi mi conosce sa bene che adoro tutto ciò che il Giappone ha prodotto in particolare fino alla fine degli anni ‘70, sia in letteratura che nel cinema, e questo romanzo del 1958 non fa eccezione. Se il finale a mio parere è un po’ frettoloso, e narrato in una forma indiretta che mi ha tolto il gusto di esplorare fino all’epilogo la parte più segreta della psiche dei personaggi, ciò non toglie nulla alla godibilità di un intreccio che parte da un cliché, un incipit dall’apparenza banale, che verrà però ribaltato con grande abilità e che, in perfetta simmetria, si riproporrà alla fine a chiudere il cerchio. 
La storia inizia con il ritrovamento di due corpi, quelli di un uomo e una donna, su una spiaggia della baia di Hakata, nel Kyȗshȗ: Ken’ichi Sayama e Hideko Kuwayama (nota come Otoki). Un apparente doppio suicidio col veleno che sconcerta sia la polizia locale, nella persona dell’anziano investigatore Torigai (una sorta di tenente Colombo ante litteram, per l’abbigliamento dimesso e il finissimo intuito e lo spirito di osservazione), sia quella di Tokyo, incarnata dal più giovane Mihara e dal suo capo, il commissario Kasai

Il morto era un funzionario pubblico coinvolto in una brutta storia di corruzione che sta infiammando l’opinione pubblica e questa dipartita così provvidenziale genera molti dubbi negli inquirenti, anche perché sono molte le cose che non tornano. Se Sayama si è suicidato per evitare le conseguenze dell’inchiesta che di lì a poco lo avrebbe travolto, oppure è stato indotto al suicidio dalle pressioni del suo capo al Ministero X, come mai ha voluto trascinare con sé la sua amante, una cameriera con la quale aveva un legame recente che, oltretutto, nessuno prima di allora aveva mai sospettato? A cosa si devono le incongruenze nel comportamento della coppia e nelle dichiarazioni dei pochi testimoni che li hanno visti assieme poco prima del fatto? E come mai Tatsuo Yasuda, un industriale che fa affari col Ministero, sembra essersi affannato moltissimo prima a procurarsi due testimoni che vedessero Sayama e Otoki partire assieme in treno per Hakata, e poi a costruirsi un alibi che sembra inattaccabile per il giorno del delitto e quelli successivi - un alibi tutto basato sul rigore della perfetta macchina nipponica del trasporto pubblico, fatta di treni, traghetti e aerei sempre puntuali? 
Per la mente che ha orchestrato questo incastro di spostamenti non c’è solo la necessità di coprire le tracce di un crimine, ma una vera e propria ossessione per gli orari dei treni, o meglio per ciò che essi sottendono: il tempo infinito suggerito dal viavai dei mezzi di trasporto, in stridente contrasto con il tempo lineare e limitato a disposizione di una vita umana, tanto più per chi di quel tempo non può godere appieno. 
Il tempo obbliga i treni a incontrarsi, le persone a bordo, invece, si incontrano solo per caso. Posso immaginarmeli all’infinito che vanno e vengono attraverso lo spazio che ho qui proprio davanti a me. Più ancora di un romanzo frutto dell’immaginazione altrui, è la mia a interessarmi. Quel libretto pieno di numeri e non solo di ideogrammi è divenuto ormai una delle letture che amo di più. Il mio diletto solitario, un sogno fluttuante.” 
Le indagini si rivelano un vero incubo: di solito, quando si crede che sia stato commesso un delitto si ipotizza un movente per arrivare al colpevole, qui, al contrario, è l’istintiva intuizione sull’identità del colpevole a portare al movente, ma questo cela dietro la maschera del pragmatismo il tormento di “una fiamma, pallida come fosforo […] in attesa di divampare alla prima occasione propizia.” Non c’è bisogno di dire altro, penso, per farvi capire che consiglio la lettura di questo libro, e se in apertura ho parlato di cliché è perché il doppio suicidio è un tema classico della tradizione giapponese, qui sfruttato in maniera davvero mirabile. Citando Matsumoto, si tratta di un evento così noto e peculiare che “l’esame autoptico è meno rigoroso e non vi è alcuna indagine”: si ritrovano due persone morte nello stesso modo una accanto all’altra e si dà per scontato che si siano suicidate assieme, “il senso comune ha il sopravvento sulla ragione, la acceca” e l’osservazione dei fatti parte quindi già fallata. 

Non posso terminare questo post senza menzionare quello che è senz’altro il doppio suicidio più famoso del Giappone, ovvero quello tra la cortigiana Ohatsu e il commesso Tokubei narrato in “Sonezaki Shinjū”, dramma teatrale scritto (per il teatro Bunraku) da Monzaemon Chikamatsu nel 1703 e basato su un caso di cronaca realmente accaduto poco prima della prima rappresentazione dell’opera. Chikamatsu si ispirò alla storia di due amanti sventurati cui le regole sociali dell’epoca impedivano di sposarsi e che credettero, morendo assieme, di riunirsi in cielo, per realizzare nell’aldilà quell’amore che in terra gli era proibito – una credenza molto diffusa nel periodo Edo e, secondo il filosofo Carl B. Becker, derivata dall’Amidismo buddista, secondo il quale con il suicidio di coppia sarebbe possibile avvicinarsi alla Sukhavati (la cosiddetta Terra Pura, analoga al nostro “paradiso”). 
Per la cronaca, il Sonezaki Ebisu Shrine è un tempio realmente esistente a Osaka dedicato alla sfortunata coppia: nella scena III del dramma di Chikamatsu, infatti, Ohatsu e Tokubei, che si erano riuniti nella casa di piacere dove la donna lavorava, ne escono di nascosto durante la notte per recarsi proprio nel bosco del santuario di Sonezaki (in una scena di viaggio che si chiama michiyuki, tipica proprio di questo tipo di teatro), dove porteranno a compimento il proprio proposito. 
Un’opera successiva di Chikamatsu, “Shinjū ten no Amijima”, affronta lo stesso tema. Ma la storia venne ripresa anche dal teatro Kabuki, e molto più tardi ispirò al cinema lungometraggi come “Shinjū: Ten no Amijima” del 1969 (Double suicide, di Masahiro Shinoda), “Sonezaki Shinjū” del 1978 (Double suicide of Sonezaki, di Yasuzō Masumura) e l’omonimo “Sonezaki Shinjū” del 1980 (The love suicides at Sonezaki, di Midori Kurisaki), solo per citare i più famosi (andando a ritroso, si trova traccia di altri film degli anni ‘20, ‘30 e ‘50 sullo stesso tema, ma non credo siano facilmente reperibili). 
Un cenno a parte lo meritano invece “Tonkei Shinjū” (Pig chicken suicide, 1981, di Yoshihiko Matsui – autore qualche anno più tardi del cult “Tsuitô no zawameki”, ovvero The Noisy Requiem) e “Segura magura: Shinitai onna” (The woman who wanted to die, 1971, di Kōji Wakamatsu), che più che omaggi alla storia medievale sembrano pretesti per parlar d’altro. Il romanzo di Seichō Matsumoto è invece stato trasposto al cinema con il lungometraggio del 1958 “Ten to Sen” (Point and Line) di Tsuneo Kobayashi, e per la tv con una minisere del 2007 dallo stesso titolo, della durata di poco meno di 4 ore e mezzo e che vede la partecipazione di Takeshi Kitano nella parte dell’investigatore Torikai (Torigai). 

NOTA: la parola Shinjū è formata dagli ideogrammi e che significano, letteralmente, cuore (kokoro) (ma pure mente e spirito) e dentro (naka) (o centro), di conseguenza potremmo tradurla grossolanamente come “l’interno del cuore”, ma il reale significato è quello di unità di cuori/menti, a sottolineare il profondo legame, affettivo e psicologico, che unisce chi sceglie il doppio suicidio. 



2 commenti:

  1. Non conosco il romanzo in questione, ma conoscevo bene la vicenda narrata da Chikamatsu Monzaemon (peraltro non l'unico "doppio suicidio" nella sua vasta produzione).
    La cosa che mi impressionò fu leggere che probabilmente (ma sono cose difficili da verificare) i suicidi di coppia particolarmente frequenti in Giappone soprattutto nei secoli XIX e XX, erano forse dovuti anche all'aura "romantica" e quasi magica che questi avevano nelle opere di Monzaemon. Uno di quei casi in cui la realtà imita la letteratura nel modo più sinistro.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, Ariano, avevo letto anch'io che molti suicidi di coppia in Giappone potrebbero essere stati causati da un'idea distorta di romanticismo di matrice letteraria. Credo sia proprio un fenomeno tipicamente giapponese. Personalmente, resto sempre basito quando si descrive quella tra Romeo e Giulietta (per esempio) come la più grande storia d'amore di tutti i tempi (!)... però non credo che da noi nessuno abbia mai voluto emularli.

      Elimina

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...