Quando penso a questo film la prima cosa che mi viene in mente è il senso di “oppressione uditiva” che ho provato quando l’ho visto per la prima volta. Eh già, perché il suono ammantava tutto il resto, soprattutto l’onnipresente rumore del vento che come un lupo ululante si udiva ovunque, anche all’interno di stanze chiuse. Magari i dettagli li ho scordati, ma questo è impossibile dimenticarlo, così come i colori accesi e i meravigliosi paesaggi in contrasto con la severità e la cupezza del castello.
La storia è molto semplice, ma efficace: il conte Kurt Menliff fa ritorno al castello di famiglia, da dove era stato cacciato per il coinvolgimento nel suicidio della figlia della governante, per accampare diritti sull’eredità. Infatti, suo padre è malato e ha intenzione di nominare suo unico erede il secondogenito Christian, che tra l’altro ha sposato Nevenka, la donna con la quale Kurt in precedenza aveva avuto una relazione. Il ritorno di Kurt è accolto male da tutti, inclusa Nevenka: ma nonostante la donna professi di odiarlo, in realtà è legata a lui da un torbido rapporto di amore-odio e la loro relazione (esplicitamente sadomasochistica) ben presto riprende.
Dopo la morte del capofamiglia prende il via una catena di delitti accompagnati da eventi soprannaturali, e inizialmente non è chiaro se il colpevole sia uno spirito vendicativo o una persona in carne e ossa. Alla fine naturalmente il mistero viene svelato e il colpevole punito, ma sebbene si configuri in definitiva una storia di colpa e punizione, personalmente nel classico finale non ho colto alcuna particolare lezione morale. Magari mi sbaglio, ma vedo questo film, oltre che come racconto soprannaturale, più che altro come una storia d’amore e tradimento, anche se non so dire quanto questa idea sia mia e quanto mi sia stata inculcata dalla mia fidanzata, che continuava a parlarmi di canovaccio da feuilleton, per quanto anomalo ;)
I personaggi si muovono in un contesto stranissimo: al di fuori del castello il paesaggio è un sogno color pastello, mentre il castello di per sé è un luogo da incubo dove i personaggi sembrano girare in tondo in modo inconcludente in balia dei propri sentimenti (vedesi il servo che si aggira di notte con aria losca scatenando su di sé i sospetti; il fratello di Kurt che confessa i propri sentimenti alla cugina; la stessa Nevenka…).
A dispetto della pressoché totale assenza di scene davvero paurose, nel film c’è una notevole suspense. La relazione tra Kurt e Nevenka è sviscerata molto bene, per merito dei due attori bruni, intensi, e della morbosità che riescono a trasmettere con lo sguardo e con i gesti: e per fortuna la recitazione convince, perché tutto il film si regge su questi due personaggi… Christopher Lee conserva per tutto il film uno sguardo glaciale e incombente, mentre Daliah Lavi è, letteralmente, brace sotto la cenere, perché da subito si intuisce che dietro la sua aria da gran dama c’è ben altro, e difatti alla fine per perversione lei risulta di gran lunga superiore al suo amante, la cui immagine la tormenta anche negli incubi. Come si suol dire, quando l’allievo supera il maestro. Ho avuto l’impressione che nell’intimo lei avrebbe voluto essere una brava moglie con una vita regolare, e non solo per convenzione sociale, ma la sua vera natura glielo impedisse e questo conflitto interiore alla fine fosse divenuto per lei devastante.
Bava fu all’avanguardia nel trattare un tema così avverso alla morale comune in maniera tanto esplicita: quanto accade tra Kurt e Nevenka non è suggerito, al contrario è mostrato in maniera insistita e, se posso dirlo, anche seducente. Certo è difficile che al giorno d’oggi ci si possa scandalizzare per quanto viene messo in scena nel film, ma è sorprendente se lo si rapporta al periodo nel quale il film fu girato (era il 1963). Anche in questo sta l’interesse per un film per altri versi molto convenzionale.
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