lunedì 9 maggio 2011

La maschera del demonio

Di questo film, famosissimo, mi riesce difficile scrivere. Non c’è nulla che non sia già stato detto in proposito, ma d’altra parte bisogna pur parlarne se si parla di gotico, dato che in Italia è stato in pratica il capostipite del genere. Per questo film il regista e gli sceneggiatori presero spunto dal racconto “Il Vij” di Gogol', che tratteggiava la figura del vampiro in maniera inconsueta e differente rispetto alla classica figura del Dracula cinematografico.
Si tratta del film d'esordio di Mario Bava, vero padre putativo del cinema horror italiano, colui che ha anticipato i tempi e che ha indicato la strada ai suoi successori, colui che ha valorizzato per primo la bellezza perversa di Barbara Steele che, proprio da questo film, avrebbe iniziato la sua emblematica carriera di eroina nera. Non serve spendere molte parole su Bava in questa sede, talmente è universale il personaggio. Per chi volesse approfondire, rimando all’ottima scheda su Mario Bava in Splatter Container.
Parlerò più che altro del film e di come io l’ho vissuto.

Nell'incipit ambientato nella steppa russa si vede il supplizio della strega Asa, della dinastia Vajda, e del suo amante/mentore, lo stregone Javutic. Dopo essere stata marchiata a fuoco con la lettera S che la identifica come strega, una maschera le viene inchiodata sul volto e le sue spoglie bruciate, non prima che la donna riesca a gettare una maledizione sulla sua casata e tutti i suoi discendenti (il Grande Inquisitore che la condanna, infatti, è suo fratello). Un violento temporale impedisce che il corpo di Asa venga consumato dal fuoco e quindi si provvede a seppellirlo nella cripta di famiglia, collegata al castello da una serie di passaggi segreti. Javutic invece viene sepolto in un anonimo cimitero poco distante.

L’azione si sposta quindi a 200 dopo, e ci mostra due viaggiatori diretti da San Pietroburgo a Mosca per partecipare ad un congresso medico: si tratta dei dottori Thomas Kruvejan e Andrej Gorovek. I due trovano la cripta e vi entrano, e per errore Kruvejan rompe il sigillo (una croce) posto sul coperchio della bara per impedire ad Asa di tornare dal mondo dei morti, e si ferisce facendo colare del sangue al suo interno. Grazie a queste circostanze Asa può quindi risorgere: tuttavia, alla strega serve forza per riprendere davvero a vivere, pertanto mira ad attirare a sé la pronipote Katia, che è identica a lei, per impadronirsi del suo corpo. Per farlo si avvale dell’aiuto di Javutic, che ha evocato dal mondo dei mort
i e si introdurrà nel castello di famiglia, causando la catena di eventi mostrata nel film.

Per me, il 90% del film si poggia sulla fisicità intensissima di Barbara Steele: tanto è eterea (quasi inespressiva, a tratti) nei panni di Katia, tanto è inquietante e femme fatale in quelli di Asa. Lei rappresenta il doppio, il binomio luce-ombra, bene-male, insignificante quando casta e magnetica invece nei panni dell’amante appassionata e dannata. . La sua interpretazione fu così pregnante che Roger Corman la volle per il suo “Il Pozzo e il Pendolo” l'anno successivo.

Il male nel film è rappresentato dalla figura del vampiro. Che di vampiri si parli non c’è dubbio: per l’idiosincrasia che provano nei confronti della croce, per il fatto che le loro vittime presentano fori sul collo, perché li si può uccidere con un paletto (nota truculenta, nell’occhio invece che più classicamente nel cuore). E anche la scena in cui Asa tenta di sottrarre a Katia l’energia vitale è molto vampirica.

Ma globalmente, i due cattivi del film non si capisce bene che tipo di mostri siano: un po’ streghe, un po’ vampiri, un po’ zombi e un po’ fantasmi vendicativi, per come la vedo io. Sebbene l’aspetto predominante sia quello del vampiro, non si tratta del vampiro che siamo abituati a vedere.

Asa, che è il fulcro del film, è diventata una strega perché traviata da un uomo, ma la figura di Javutic rimane sempre un po’ nell’ombra rispetto a lei, infatti quando risorge lo stregone si comporta come uno schiavo-zombie. E anche la sua resurrezione somiglia a quella di uno zombie, più che all’apparizione ben più elegante (così come me la sono sempre immaginata io) di un vampiro…

Altra cosa godibilissima è la cura della scenografia, dove ogni dettaglio è al suo posto e perfettamente ricostruito. La telecamera indugia volentieri sui particolari del salone del castello, della cripta, persino degli esterni. La fotografia in bianco e nero, di grande suggestione, è perfetta per mostrare l’atmosfera lugubre e decadente del racconto: credo proprio che il colore avrebbe nuociuto a questo film.

Una riflessione me l’ha provocata la presenza dei quadri nel salone. Nel salone infatti sono appesi i ritratti della strega e del suo amante, cosa che acuisce il senso di attesa per ciò che sta per accadere e provoca angoscia, non solo nello spettatore (il principe, per esempio, contemplando i quadri rammenta con inquietudine che ricorre ormai il 200° anniversario dell'esecuzione di Asa, e in seguito la principessa Katia confessa al padre che la propria somiglianza con Asa la mette in ansia). Ma perché conservare un ritratto di persone che si è bandite dalla propria casa e, letteralmente, eliminate dalla comunità? Per quanto mi riguarda, per provare che sono esistite. Per dare un volto al male e ricordarsi che nulla è eterno, neanche la morte, che il male può tornare e quindi è meglio non dormire mai sonni troppo tranquilli.

2 commenti:

  1. Uno dei miei film preferiti di sempre.Bava era un genio costretto a lavorare con budget ridottissimi.

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    1. Verissimo. "La maschera del demonio" e "La frusta il corpo" (che ho recensito sul blog pochi giorni dopo questo) sono a mio parere i suoi migliori lavori in assoluto. Altre volte (ahimè) non gli è andata bene allo stesso modo, riuscendo ad esprimersi solo parzialmente (mi riferisco per esempio al mediocre "Il rosso segno della follia", girato tra l'altro lo stesso anno di quella piccola perla intitolata "Quante volte quella notte".)

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