“La morte in diretta” (La Mort en direct) di Bertrand Tavernier è un film del 1980 tratto dal romanzo di David G. Compton "The continuous Katherine Mortenhoe" (conosciuto anche come "The unsleeping eye" o "Death watch") scritto pochi anni prima, nel 1974, dallo scrittore David G. Compton.
Katherine Mortenhoe (Romy Schneider), una celebre scrittrice, viene informata dal suo medico che le è stata diagnosticata una grave malattia e che le restano circa due mesi di vita. Con la complicità del medico l’incontro viene ripreso da un operatore dell'emittente CNA, e in seguito il produttore televisivo Vincent Ferriman (Harry Dean Stanton) le offre un contratto per avere l'esclusiva della sua malattia e della sua morte e mostrarli durante un programma televisivo chiamato "La morte in diretta". Questo proto reality show è stato programmato con largo anticipo, difatti Vincent in precedenza ha fatto impiantare una micro telecamera negli occhi dell’operatore Roddy (Harvey Keitel) proprio per riprendere la fine di Katherine, e per alimentare l’attesa nel pubblico ha tappezzato la città di manifesti pubblicitari che includono oltre al logo del programma anche una foto di Katherine: inizialmente il volto è irriconoscibile perché sono scoperti soltanto gli occhi, ma in seguito la foto viene mostrata nella sua interezza scatenando l’interesse morboso del pubblico e della stampa.
Katherine inizialmente rifiuta la proposta, ma in seguito cambia idea. Sembra che lo faccia per l’anziano padre, affetto da una malattia che mina le sue capacità cognitive (Alzheimer?) e ricoverato in una clinica dalla retta presumibilmente molto alta. Però dopo aver trattato sul prezzo, e aver concordato l'inizio delle riprese a 36 ore dalla firma del contratto, lei fugge senza nemmeno prendere i soldi (ma questo lo si verrà a sapere più avanti) e senza informare il marito. Travestita con parrucca e vestiti dimessi, Katherine viene rintracciata da Roddy e prosegue nel suo viaggio con lui, senza sapere che l’uomo sta filmando tutto ciò che vede, non solo l’evolversi della malattia ma anche le confidenze di Katherine, perché la donna nel giro di breve tempo comincia a fidarsi di lui e gli svela una parte dei suoi pensieri e del suo passato. Katherine prima di morire desidera rivedere Gerald (Max von Sydow), l’ex marito del quale ha mantenuto il cognome, e in breve tempo i due arrivano a casa sua. Roddy intanto è in preda ai sensi di colpa, anche perché col passare dei giorni tra i due si è formato un legame intenso che forse in altre circostanze non sarebbe nato. Roddy perde la vista e quindi la diretta tv si interrompe, e a quel punto la troupe della CNA si precipita sul luogo per filmare Katherine mentre sta per morire.
Sono sinceramente stupito che un film così bello non sia famoso e me ne domando il motivo. Non solo la “confezione” è curata e la recitazione è ottima, ma i temi trattati sono profondi e più che mai di attualità.
Il grande interrogativo morale che il film ci pone è se sia giusto intrufolarsi nell’intimità degli altri, specialmente in un momento cruciale come la morte. La malattia non è un concetto astratto, è qualcosa che comporta dei cambiamenti nella mente e nel corpo; la morte porta con sé il dolore di chi resta; ma nel momento in cui le si mette alla mercé di tutti, le si banalizza e perdono di significato. Se si mischia troppo fiction e realtà, per l’uomo della strada è impossibile cogliere il vero significato di quello che sta avvenendo e i suoi risvolti tragici.
Inoltre c’è una critica palese ai mass media e alla loro tendenza manipolatrice: Katherine viene doppiamente ingannata, e quando se ne accorge prende una decisione clamorosa e tragica per porre fine alla vicenda e prendersi la sua rivincita.
Il regista ha avuto un ottimo intuito nell’ambientare il film a Glasgow, e nello sfruttare il tema del viaggio per spostarne l’evolversi nelle Lowlands scozzesi, fredde e aspre e spazzate dal vento (un paesaggio alla “Cime tempestose”, per intenderci) e quindi perfette per simboleggiare i sentimenti della protagonista.
Per fortuna le soggettive girate dalla telecamera nell’occhio di Roddy sono poche, non ci troviamo insomma di fronte ad un film alla “Blair witch project”, ma ad un girato tradizionale, proprio perché una parte essenziale del film è il rapporto tra Roddy e Katherine ed è il cambiamento di Roddy stesso che ci viene mostrato.
Certo in alcuni punti il film diventa melodrammatico, ma d’altronde mi sembra normale. Chiunque, se sapesse che sta per morire, proverebbe ansia e rabbia per il proprio destino, verso la malattia e verso il proprio corpo che cambia.
Mi sono documentato su Romy Schneider, di cui ricordavo poco a parte che morì piuttosto giovane, e ho scoperto che negli ultimi anni della sua vita soffrì di depressione che la portò all’alcolismo, ritengo quindi che abbia messo molto di se stessa nel personaggio di Katherine. Se ci penso la cosa è piuttosto inquietante. Tra l’altro questo fu uno degli ultimi film che interpretò, dato che morì nel 1982.
Il personaggio di Max von Sydow è molto interessante. Calmo, serafico, Katherine lo cerca perché ha nostalgia di lui e lo ama ancora o forse perché sa che è la persona più adatta per accompagnarla nel suo ultimo viaggio? Probabilmente entrambe le cose.
Comunque il personaggio che mi ha più colpito è quello di Roddy: un uomo solo, da quando si è separato da sua moglie, e all’apparenza cinico. Accetta un’operazione delicata che lo rende “bionico” (un vero ibrido uomo-macchina!) forse senza rendersi ben conto che, oltre che a spiare gli altri, la telecamera invade anche la sua vita e la sua intimità. O forse lo capisce ma non gli importa. Mentre Katherine è ignara di tutto, lui si mette volontariamente nella situazione di essere spiato, trasformandosi allo stesso tempo in carnefice e vittima mediatica. Sono convinto che proprio per questo quando prende consapevolezza dei suoi sentimenti per lei perde la vista, è come se il suo occhio rigettasse la telecamera. Insomma, alla fine si redime.
Purtroppo quello che si teorizzava anni fa ora è la realtà e lo si è visto nella vicenda di Jade Goody più di ogni altra. Jade Goody fu una concorrente della terza edizione del Big Brother inglese. Jade aveva avuto un’infanzia difficile ed era una “coatta”, divenuta famosa soprattutto per alcune esternazioni razziste che aveva rivolto ad un’altra concorrente del Celebrity Big Brother. Jade morì nel 2009, a 28 anni, per un tumore al collo dell’utero. La diagnosi le fu comunicata nel confessionale mentre stava partecipando al “Bigg Boss” indiano. Nonostante la chemioterapia il tumore degenerò in metastasi, e quando Jade apprese di avere ormai poche settimane di vita si sposò sotto l’occhio della telecamera e poi andò oltre, offrendo i suoi ultimi giorni di vita in pasto al pubblico facendone l’oggetto del suo ultimo reality show. L’intento dichiarato di Jade era di guadagnare abbastanza per assicurare un futuro dignitoso alla sua famiglia, soprattutto ai suoi due figli. Con il reality Jade guadagnò circa 3 milioni di sterline e la sua scelta fu difesa da oltre il 95% degli inglesi, come risultò da un sondaggio, mentre una minoranza del pubblico la criticò per aver mercificato al sua morte. A seguito dell'interesse mediatico sul caso, le autorità sanitarie britanniche registrarono un aumento sensibile delle richieste di screening oncologico del tumore al collo uterino, e il National Health Service inglese dichiarò che avrebbe rivisto la norma che non ammette lo screening oncologico gratuito per le donne minori di 25 anni. Appresa la notizia, lo stesso giorno la Goody rilasciò un'intervista nella quale dichiarò di sentirsi fiera di aver contribuito a queste conquiste.
Esempi di invadenza del mezzo mediatico sono stati quello di Sarah Scazzi (la madre era in diretta tv quando le fu comunicato che la figlia era morta); quello di Pietro Taricone (dopo l’incidente si seguì quasi in diretta il decorso di Pietro, e dopo la sua morte molti personaggi fecero a gara per tributargli omaggi, eppure erano pochi quelli che lo avevano frequentato davvero mentre era in vita); per ultimo quello che sta avvenendo proprio in questi giorni a Lamberto Sposini. Ma anche tutti i casi di cronaca che vengono passati al setaccio fino all’invadenza, e che dovrebbero stimolarci a riflettere su quali dovrebbero essere i confini inviolabili tra pubblico e privato.
Ormai le telecamere sono ovunque: nei locali, negli uffici pubblici e privati, per la strada. L’occhio della telecamera non sceglie, si limita a registrare ciò che vede, quindi è inevitabile che talora possa registrare anche la morte, che è parte della vita. Sta a chi lo maneggia tracciare quei confini, e rispettarli.
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