sabato 8 ottobre 2022

Yotsuya Kaidan

Lo stereotipo della donna fantasma vendicatrice vestita di bianco e con i capelli arruffati si è sviluppato durante il periodo Edo del Giappone (1603-1868), un periodo caratterizzato da una vivace cultura popolare. Questi revenant fecero la loro apparizione nei libri illustrati, sui palcoscenici, nei giochi di carte e nelle tradizioni orali del periodo. Sebbene i fantasmi femminili fossero esistiti in precedenza in Giappone, in particolare in letteratura e nel teatro Nō, fu durante il periodo Edo che si sviluppò il loro aspetto classico e il personaggio divenne una misteriosa icona pop premoderna. 
Il più famoso di questi fantasmi Edo è Oiwa, protagonista della commedia “Tōkaidō Yotsuya Kaidan” (Ghost Story of Yotsuya, 1825) del drammaturgo kabuki classico Namboku Tsuruya IV (1755-1839), noto per le sue opere a tema soprannaturale e i suoi personaggi macabri e grotteschi. In italiano il titolo potrebbe essere reso letteralmente come “Storia di fantasmi a Yotsuya, lungo il Tōkaidō”, dal nome del quartiere di Edo (l'antico nome dell'odierna Tokyo) in cui le vicende sono ambientate. 
Messo in scena per la prima volta, come dicevamo poc’anzi, nel luglio del 1825, Yotsuya Kaidan apparve al Teatro Nakamuraza di Edo in una sorta di double-bill (oggi lo chiameremo così) con il popolare dramma kabuki “Kanadehon Chushingura”, basato sul tema classico dei quarantasette ronin.
Sul palco gli attori Ôkawa Hashizô I (1784-1849) e Ichikawa Ebizô V (1791-1859), nei panni rispettivamente dei protagonisti femminile e maschile, avevano riscosso un successo talmente importante da costringere i produttori a programmare spettacoli extra fuori stagione per soddisfare la domanda. 
Il segreto di “Tōkaidō Yotsuya Kaidan” era nel suo essere totalmente popolare: esso è stato in grado di attingere alle paure delle persone, portando i fantasmi del Giappone fuori dai templi e dalle dimore degli aristocratici fin nelle case della gente comune, il tipo esatto di persone che rappresentavano il pubblico del suo teatro. Alla fine degli anni Dieci del Novecento, il cinema giapponese comincia a raggiungere una posizione di privilegio rispetto al teatro. La major più famosa, la Nikkatsu, è già saldamente affermata, e in giro per il paese tutti cominciano già a riconoscere i volti delle prime star del muto; tra queste Onoe Kikugorô V, uno dei pochi attori di Kabuki che provarono a cimentarsi con il cinema. E al cinema la leggenda di Oiwa non poteva affatto mancare. 

Tôkaidô Yotsuya Kaidan,  Nobuo Nakagawa, 1959
Yotsuya Kaidan
è stato portato sul grande schermo innumerevoli volte (come vedrete tra breve, io stesso sono riuscito a raccogliere almeno una quarantina di titoli), e con rare eccezioni tutti gli adattamenti rispettano con estrema precisione il testo originale: Oiwa ritorna nel mondo dei vivi sottoforma di onryō, un fantasma particolarmente spietato che perseguita incessantemente la causa del suo male. Oiwa appare indossando il tradizionale kimono bianco delle funzioni funebri, lunghissimi capelli sciolti e scompigliati e il viso pallido tendente all’indaco. Inoltre, a causa dell’avvelenamento si mostra con mezzo volto sfigurato, l’occhio sinistro attaccato per miracolo e parzialmente priva di capelli. 
Della prima versione su pellicola di questa vicenda, un cortometraggio risalente al 1910, conosciamo solo il nome della produzione (Yokota Shokai) e il titolo (“Oiwâ Inari”, aka “Oiwâ 's Shrine”). A questo seguirono, solo nei seguenti vent’anni, almeno altre sedici versioni di cui, per la maggior parte, spesso nemmeno IMdB riesce a fornire informazioni di alcun tipo. 

Dopo un anonimo “Yotsuya Kaidan” del 1911 (cortometraggio prodotto da Yoshizawa Shoten), l’anno successivo troviamo ben due versioni, entrambe prodotte da Nikkatsu. La prima certamente un cortometraggio (“Yotsuya Kaidan”, 1912), la seconda certamente un lungometraggio (ancora una volta “Yotsuya Kaidan”, 1912). Quest’ultimo è il primo della serie di cui finalmente conosciamo il nome del regista: Shôzô Makino
Universalmente conosciuto come il padre del cinema giapponese, Shôzô Makino a quei tempi era già una celebrità, soprattutto per una versione datata 1912 di un altro celebre kaidan (Botan Dōrō, ovvero La lanterna delle peonie). Figlio illegittimo, Shôzô Makino imparò il mestiere grazie alla madre, che all’inizio del secolo gestiva un teatro Kabuki. In carriera diresse centinaia di film (nemmeno la wikipedia giapponese è in grado di citarli tutti) e arrivò a fondare una sua casa di produzione, la Makino Film Productions, attiva principalmente negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Fu in questo contesto che nel 1928, all’età di 50 anni, egli girò il suo film più celebre, “Chūkon giretsu: Jitsuroku Chūshingura”, basato sul solito tema dei quarantasette ronin. 
Un altro cortometraggio appare nel 1914 (“Shin Yotsuya Kaidan”, per la Komatsu Shokai) e un altro ancora nel 1915 (“Yotsuya Kaidan”, per la Tenkatsu). Nel 1918 arriva “Yotsûya Kaidan jitsûhi kanetani goro” (Nikkatsu), primo film del quale IMdB ci riferisce i nomi di alcuni interpreti. 
A seguire troviamo “Yotsuya nana fushigi” di Jirô Yoshino (1919), “Yotsuya Kaidan” (1921) di Shirô Nakagawa, “Yotsuya Kaidan” (1921) ancora di Jirô Yoshino, “Yotsuya Kaidan Oiwâ” (1923), “Yotsuya Kaidan” (1923) di Kaname Mori, “Yotsuya Kaidan” (1925) di Norio Yamagami, “Shin yotsuya kaidan” (1925) di Yoshiro Edamasa, la dilogìa “Yotsuya Kaidan: kôhen”* (1927) e “Yotsuya Kaidan: zenpen”** (1927) di Kiichirô Satô (a volte indicata come “Yotsuya kaidan sofa-hen”***, letteralmente ”Yotsuya kaidan prima e dopo”), la dilogìa “Yotsuya Kaidan: kôhen” (1927) e “Yotsuya Kaidan: zenpen” (1927) di Kintaro Inoue, “Tōkaidō Yotsuya Kaidan” (1927) di Shiro Nakagawa, “Iemon” (1928) di Norikuni Yasuda, “Yotsuya Kaidan” (1928) di Takuji Furumi e “Shinban Yotsuya Kaidan” (1928) di Daisuke Ito
Quest’ultima pare essere la versione più antica che, a meno di future sorprese, è riuscita a salvarsi. Tutte le altre, in un modo o nell’altro, sono andate perdute (le più datate sparirono in occasione del grande terremoto del Kantō che colpì la pianura omonima nella tarda estate del 1923). 
La vicenda sembra a questo punto perdere di interesse, perché l’adattamento cinematografico successivo arriva solo dieci anni più tardi: si tratta nella fattispecie della prima versione sonora, “Yotsuya Kaidan” (1936) di Shigeo Sonoike, a cui fece seguito “Iroha Kana Yotsuya Kaidan” (1937) di Shigeru Kido
Un’altra decina d’anni, esattamente nel 1949, e arriva “Shinshaku Yotsuya Kaidan: kôhen” di Keisuke Kinoshita, a cui segue a ruota uno “Shinshaku Yotsuya Kaidan: zenpen”: stesso regista, stesso cast. La peculiarità di questa coppia di film, di cui disponiamo di una notevole edizione Criterion, è il lungo approfondimento interiore di un ronin incapace di decidere se, quando e come liberarsi della moglie. Si tratta più di un dramma psicologico che di una storia di fantasmi che, per inciso, sorprendentemente qui non sono presenti (il destino di Iemon si compie a causa delle allucinazioni dovute ai rimorsi di coscienza anziché per cause soprannaturali). Dello stesso anno la dilogìa “Yotsuya Kaidan: kôhen” (1949) e “Yotsuya Kaidan: zenpen” (1949) di Kokura Koichiro

Altro piccolo salto temporale e troviamo “Yotsuya Kaidan” di Mitsugi Okura (1956) e “Yotsuya Kaidan” di Masaki Môri (1956). In quest’ultimo, nella parte di Iemon troviamo Tomisaburô Wakayama, un nome piuttosto noto agli appassionati di cinema giapponese grazie a una filmografia sterminata che, oltre ad aver dato il volto a Ittô Ogami nei sei film che compongono la serie “Kozure Ôkami”, tratta dal manga Lone Wolf and Cub (da non confondersi con la serie di telefilm trasmessi in Italia nella prima metà degli anni Ottanta), ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità anche a Hollywood, lavorando al fianco di Andy Garcia e Michael Douglas in “Black Rain, pioggia sporca” (1989) di Ridley Scott
Nella versione di Masaki Môri la figura di Iemon viene, diciamo così, un po’ addolcita. Sebbene la vicenda scorra poi sui binari tradizionali, è la madre di lui (personaggio assolutamente inedito) a forzare la mano al figlio affinché si liberi della moglie, nell’ottica di partecipare alla fortuna che deriverebbe da un suo nuovo matrimonio. Iemon, sin dall’inizio, mette le cose in chiaro con la madre, con la giovane Ouma e con padre di lei, ribadendo la propria fedeltà a Oiwa; tuttavia, messo alle strette da un complotto ordito dalla madre e dall’immancabile Naosuke, non riuscirà a sottrarsi agli eventi già scritti. 
Nel film viene alleggerita la responsabilità di Iemon anche nell’omicidio del padre di Oiwa, che sarebbe riconducibile a una serie di menzogne della mefistofelica madre. 
Yotsuya Kaidan” di Kenji Misumi (1959), che è stato rilasciato negli Stati Uniti come “Thou Shalt Not Be Jealous”, ripulisce ulteriormente il personaggio di Tamiya Iemon, forse perché l’attore protagonista Kazuo Hasegawa (all’epoca idolo delle teenager per via dei suoi numerosi ruoli da protagonista in sdolcinati film romantici) non era il tipo di star che il pubblico gradisse vedere nelle vesti di un cattivo senza cuore, ragion per cui, sorprendentemente, in questo adattamento Iemon non è l'assassino di Oiwa! 
Per non distaccarsi eccessivamente dalla tradizione, Iemon deve in qualche modo apparire come un mascalzone, ma ciò si palesa solo in rari momenti in cui lo osserviamo trattare la moglie in maniera fredda e distaccata. Oiwa, come da manuale, muore assassinata, e quando Iemon scopre il colpevole sguaina la spada e si precipita a vendicarla. 
Sappiamo bene, purtroppo, come sono questi fantasmi giapponesi, rancorosi al punto da rivolgere il proprio odio verso chiunque ne incroci il cammino. Questa versione di Oiwa non è da meno, e quando Iemon ritorna a casa il suo kimono prende vita e lo strangola, in un finale amarissimo che avrà certamente gettato nella disperazione migliaia di giovani ammiratrici. 

Tôkaidô Yotsuya Kaidan” di Nobuo Nakagawa (1959) è considerato oggi il migliore degli adattamenti. Con l'occhio di uno stilista, Nakagawa orchestra una visione di inferno sulla terra, con fantasmi che si sollevano da terra o che sbirciano dal soffitto, anticipando di decenni l’estetica dello spettro pallido che si insinua dal bordo dell'inquadratura. Un’opera visivamente sontuosa e composta da una colonna sonora elettrizzante. Il film dura appena 75 minuti, ma i primi 55 sono dedicati al retroscena del samurai e di sua moglie. Il suo omicidio non avviene che alla fine del film, e da quell’istante cambia marcia e vira verso l'ossessione vera e propria. Alcuni potrebbero sostenere che Nakagawa eccede la caratterizzazione dei personaggi, ma probabilmente è proprio quello il motivo per cui il film funziona così bene. 
La versione di Nobuo Nakagawa, che per inciso è anche quella che più di ogni altra è facile recuperare in rete (nel momento in cui scrivo ne è giusto presente una versione sul tubo, sebbene con i sottotitoli in spagnolo), presenta piccole variazioni rispetto alla vicenda originale. Una delle differenze principali sta nel veleno, che nella versione di Nakagawa non viene somministrato sotto forma di una crema per il viso, bensì sotto forma di una tisana medicinale in grado di alleviare non meglio precisati problemi di circolazione. Si tratta comunque di un veleno che ha come primo effetto quello di sfigurare il viso della vittima, e in un secondo momento di portare alla morte per convulsioni. A tal proposito, una delle domande che mi sono fatto più spesso è per qualche motivo ricorrere al veleno, visto che il piano è sempre stato quello di sorprendere i due amanti e passarli a fil di spada. Forse l’avere a che fare con un onryō dal volto sfigurato è una scelta più teatrale? O forse solo perché alzare la spada su una donna indifesa è un gesto che nessun uomo, figuriamoci un samurai, sarebbe in grado di fare? 
La morte di Oiwa non avviene quindi, nella maggior parte dei casi, a causa del veleno o nella concitazione della lite con Takuetsu, bensì è essa stessa a togliersi la vita una volta compresa la realtà (naturalmente dove aver ucciso il proprio bambino, al quale intendeva risparmiare un futuro in balìa dell’infame genitore sopravvissuto). 

Il successivo “Kaidan Oiwa no borei” di Tai Katô (1961), dove ritroviamo il solito Tomisaburô Wakayama nella parte di Iemon, si concentra sulla sofferenza in vita di Oiwa, calcando la mano su un marito particolarmente manesco. Questa nuova versione aggiunge e corregge alcuni particolari del racconto tradizionale. All’inizio della vicenda troviamo Tamiya Iemon già sposato con Oiwa. L’omicidio dell’anziano Samon, pertanto, non avviene a causa della mancata concessione della mano di una giovane innamorata, bensì a causa di un evento successivo. Samon, caduto in disgrazia, obbliga la figlia a rientrare presso la famiglia di origine affinché contribuisca, assieme alla sorella Osode, al sostentamento economico del genitore attraverso la pratica della prostituzione. Tamiya Iemon, come prevedibile, s’inalbera e si riprende la moglie, uccidendo il suocero. Da qui in avanti la narrazione torna sui binari corretti e sappiamo già come andrà a finire. 
Un’altra interessante novità è il maggior coinvolgimento di Oume e della sua famiglia nel delitto. È infatti il padre di Oume che, con uno stratagemma, offre il veleno a Oiwa. Il suo scopo è quello di sfigurare la rivale della figlia per convincere Iemon ad abbandonare il tetto coniugale e a convolare a nuove nozze con la figlia. Abbiamo inoltre una sorta di inversione dei personaggi di Naosuke e Takuetsu. In questo adattamento ad essere accusato di adulterio è un semplice servitore, mentre Takuetsu, in una fase successiva, assisterà Iemon nella delicata fase di occultamento dei cadaveri. Naosuke, dal canto suo, pentito del complotto da lui stesso ordito sigillerà un’alleanza con Osode e il precedente fidanzato della moglie, un redivivo Yomoshichi, per vendicare la cognata. 

Dopo “Ensetsu Yotsuya Kaidan” di Jun'ichi Fujita (1965), arriva “Yotsuya Kaidan” di Shirô Toyoda (1965), che, in una versione largamente rimaneggiata dalla censura, ha goduto di una distribuzione americana con il titolo di “Illusion of Blood”. Da qui in avanti abbiamo ancora “Yotsuya Kaidan - Oiwa no borei” di Kazuo Mori (1969), “Shin Kaidan shikiyoku gedō Oiwâ no onryō Yotsuya Kaidan” (1976) di Kinya Ogawa, “Mashō no natsu Yotsuya Kaidan yobe” (1981) di Yukio Ninagawa e, in tempi più moderni, “Chushingura Gaiden: Yotsuya Kaidan” (1994) di Kinji Fukasaku e “Warau Iemon” (2004) di Yukio Ninagawa
Quest’ultimo, distribuito in Occidente con il titolo di “Eternal Love”, rivoluziona completamente la narrazione: dopo essere stato costretto a partecipare al seppuku del padre, il samurai Iemon rinuncia disgustato alla sua posizione. Pur senza padrone, gli viene offerta la possibilità di entrare nella famiglia del sacerdote errante Mataichi prendendone in sposa la figlia Iwa (Oiwa). Nonostante la futura sposa sia orribilmente sfigurata da una precedente malattia, la forza di carattere del giovane ronin lo fa innamorare comunque di lei. Tuttavia, l'ex corteggiatore di Iwa, Kihei, diventa geloso della loro unione e porta a termine un complotto per distruggere la loro felicità. Gli amanti si separano con riluttanza e Iemon si risposa con una delle amanti di Kihei. Iwa è infuriata nell'apprendere l'inganno di Kihei e presto la città si riempie di voci secondo cui Iwa si è trasformata in un mostro. A Iemon viene ordinato da Kihei di ucciderla ed egli esegue; quindi, rivolge la lama su se stesso e si riunisce a Iwa nella morte. 

*****     *****     *****     *****     *****

Questo è più o meno tutto quel che riguarda la vicenda di Oiwa nella finzione, ma rimane ancora un particolare importante da smarcare. È esistita davvero una Oiwa nel mondo reale? 
Secondo la wikipedia giapponese, Oiwa non sarebbe mai esistita: si afferma in particolare che “esiste solo nei dipinti” e che si tratta di “un personaggio creato solo per far star buoni i bambini”, un po’ come il nostro babau. Ma anni di consultazione ci hanno ormai insegnato che wikipedia è affidabile come un preservativo realizzato all’uncinetto. 
Sappiamo invece con certezza, dai documenti dello shogunato Tokugawa giunti sino a noi, che una donna di nome Oiwa, figlia di Tamiya Matazaemon e moglie del daimyō Tamiya Iemon, visse nella parte occidentale del quartiere Yotsuya (Yotsuya Samon-cho) nei primi anni del XVII secolo e morì poco più che ventenne il 22 febbraio 1636 forse per aver contratto il vaiolo, all’epoca un vero flagello in Giappone. Abbiamo anche una tomba a testimonianza della sua esistenza terrena, divenuta oggi, come vedremo tra breve, meta di pellegrinaggio. 

Con tutta probabilità fu proprio a causa delle eruzioni cutanee provocate dal vaiolo, nel suo caso evidentemente di particolare gravità, che sarebbe nata l’immagine dello spettro dal volto sfigurato che ci è stata tramandata. 
Il testo più antico sulla leggenda di Oiwa sarebbe un manoscritto intitolato "Yotsuya zōtan", che si dice sia pubblicato clandestinamente. Gli esperti ne avrebbero identificato tre diverse varianti e sarebbero giunti alla conclusione che l'anno della prima pubblicazione sia stato molto probabilmente il 1727. 
L'autore rimane tuttavia sconosciuto, probabilmente perché il libro conteneva riferimenti a uno scandalo pubblico in cui erano coinvolti tre daimyō dello shogunato, nello specifico Itō Kwaiba, Akiyama Chōzaémon e lo stesso Tamiya Iemon. 
Già in quei giorni girava voce che i tre fossero stati uccisi dal rancore dello spettro della moglie di Tamiya, Oiwa, che intendeva vendicare un vile complotto ordito dal marito e dai suoi due complici nei confronti dell'ottavo shōgun Tokugawa, Yoshimune Kō (1716-1745). 
Secondo questa testimonianza Oiwa sarebbe quindi effettivamente ritornata dal mondo dei morti spinta da un desiderio di vendetta nei confronti del consorte, ma le cause scatenanti non avrebbero nulla a che fare con un adulterio. La storia dei fantasmi che conosciamo sarebbe quindi l'elaborazione di un evento che impressionò fortemente gli uomini di quei giorni e di quei luoghi. 
Circa cento anni più tardi, Tsuruya Nanboku (1755-1829), uno dei più famosi drammaturghi Kabuki del tardo periodo Edo, creò una performance teatrale (Tōkaidō Yotsuya Kaidan) adattando il testo per il palcoscenico Kabuki e facendola debuttare nel 1825, proprio al culmine della cultura kaidan. Ma di questo abbiamo già parlato. 
Nel 1986, dopo la Restaurazione Meiji, un narratore rakugo di nome Shunkintei Ryūō scrisse una versione del celebre kaidan sulla base delle nozioni ricevute dai maestri rakugo che lo precedettero. Va quindi da sé che tale rappresentazione del kaidan precederebbe il dramma teatrale di Nanboku, dunque sarebbe molto più simile a Yotsuya zōtan che a Tōkaidō Yotsuya kaidan
Il testo di Ryūō fu tradotto in inglese nel 1917 da James Seguin de Benneville in un libro intitolato “The Yotsuya Kwaidan or O'Iwa Inari: Tales of the Tokugawa”. È interessante notare che secondo questa traduzione Oiwa muore suicida, informazione del tutto assente sia nell’originale che nella versione rakugo, dove la donna semplicemente scompare. Poco dopo la pubblicazione della traduzione Osanai Kaoru, un famoso drammaturgo e regista teatrale del periodo Taishō, lesse il libro e ne fu così commosso che lo tradusse di nuovo in giapponese sotto forma di romanzo. Il suo lavoro fu pubblicato nel 1919 con il titolo “O-Iwa”. Non stupisce, quindi, che la vicenda di Oiwa si sia trasformata da storia a leggenda. 
Oggi Oiwa è venerata nei santuari shintoisti e commemorata nei templi buddisti nel tentativo di consolare il suo spirito. In una parola, il popolo ha fatto sì che Oiwa diventasse sia un kami che un hotoke a causa del suo potente rancore. 
Secondo l'originale di Ryūō, in principio i superstiti della famiglia edificarono un piccolo santuario e un tempio all’interno della loro proprietà a Samon-chō, venerando Oiwa come una divinità Inari. A seguito di un incendio che devastò il santuario nel 1879, il santuario di Oiwa fu spostato a Shinkawa-cho, Tōkyō, dove fu nuovamente distrutto dai bombardamenti incendiari della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1952, terminata la guerra, il santuario fu nuovamente ricostruito nella sua posizione originale a Yotsuya. 
Oggi si tende a identificare una lapide nel cimitero di Myōkōji a Sugamo, Tōkyō, come la vera tomba di Oiwa. Le guide la collocano sotto un grande albero in corrispondenza di un torii rosso, il tradizionale portale d'accesso giapponese a un santuario shintoista o, in generale, a un'area considerata sacra. 
Secondo la tradizione, Oiwa sarebbe in grado di esaudire i desideri di tutte le persone sincere che si fermano in preghiera presso il sito. Viceversa, chi decide di visitare la tomba spinto da semplice curiosità verrà travolto dalla furia vendicativa, mai placata, dell’onryō.





Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di  tale progetto,  esso rappresenta la parte 48 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte del progetto "Ju-On, speciale rancore" che è iniziato qui lo scorso 7 settembre. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 48° candela...

2 commenti:

  1. Oddio, effettivamente la "deificazione" di una creatura mostruosa è un caso abbastanza particolare, anche se è vero che i "kami" spesso sono spiriti improbabili e imprevedibili (esiste addirittura il kami del gabinetto, bisogna tenere pulito il proprio bagno o il kami si incavola...)
    Nel dubbio, non credo che metterei mai piede in un tempio dedicato specificatamente a Oiwa.

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    1. La deificazione di una creatura mostruosa è particolare ma non esclusiva del mondo orientale. Basti pensare alla festa di Halloween che secondo molti studiosi, affonda le proprie radici nelle tradizioni dell’antico popolo celtico. In tale data i sacerdoti accendevano enormi fuochi per vincere le tenebre ed incitavano il popolo ad indossare spaventose maschere per allontanare gli spiriti malvagi.
      Nemmeno io sono sicuro che vorrei davvero entrare nel tempio di Oiwa (tanto più che sarei spinto da pura curiosità che, come detto, non è mai cosa buona).

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