“Fuori speciale” è una serie di articoli che vengono scritti di getto nel periodo di pubblicazione dello
speciale “La grande abbuffata”. Pur non essendone parte integrante, ciò che viene qui trattato
ruota intorno all’argomento principale senza spezzarne il filo logico. Si tratta, in estrema sintesi, di
piccoli approfondimenti che non hanno trovato posto nella struttura principale. “Fuori speciale”, in
uscita tutti i venerdì, non è una lettura necessaria alla comprensione degli articoli de “La grande abbuffata” (che uscirà invece il lunedì), è viceversa una lettura che può essere ignorata o
rimandata, a vostro piacimento.
***
Il pezzo di oggi è da considerarsi una piccola digressione su quanto scritto en passant
nell’articolo pubblicato lunedì scorso. Accennando al lavoro dell’antropologo francese
Claude Lévi-Strauss, scrissi che l’atto di cuocere il cibo, di provenienza animale o vegetale
che fosse, aveva affrancato l’uomo dalla natura e che la cottura aveva creato il solco tra la
società primitiva a quella moderna.
Occorre però sottolineare che l’uomo moderno è andato ben oltre il semplice
affrancamento dalle rigide leggi della natura: oggi è in grado di poter disporre a piacimento
sia del cibo necessario al suo sostentamento sia di quello in grado di soddisfare un
piacere decisamente effimero come quello della gola. Tutto ciò grazie a un sistema che di
naturale ha evidentemente ben poco.
Nel corso dei millenni l’uomo ha compreso come
selezionare le sementi e le specie animali destinate all’allevamento, ha imparato a
sfruttare il territorio per l’agricoltura e a irrigarlo artificialmente, ha imparato a conservare
gli alimenti (rendendoli adatti a un consumo fuori stagione) e ha scoperto il modo di
procurarseli col commercio, attingendo da territori ben al di fuori della sua portata. Se di
tutto ciò noi amiamo ricordare l’aspetto positivo (come sarebbe oggi la tanto magnificata
cucina italiana senza alimenti chiave come patate e pomodori?), non va sottovalutato
l’aspetto negativo, ovvero quello di un continuo e inarrestabile peggioramento della qualità
dei nostri piatti, esposti alla logica degli allevamenti intensivi a base di antibiotici e affogati
in conservanti resi legali da un’etichettatura che li definisce sani sulla base di parametri
spesso discutibili.
È chiaro che qualcosa a un certo punto della storia ci è sfuggito di
mano.
Nonostante la deriva a cui stiamo oggi assistendo, che in certi termini potremmo definire
“glorificazione del cibo”, è fuori questione che Claude Lévi-Strauss abbia simbolicamente
(e, per molti, ragionevolmente) individuato la nascita della civiltà nell’attimo esatto della
scoperta del fuoco, e quindi della cottura.
Tutto ciò mi riporta alla mente un vecchio film che vidi negli anni della mia adolescenza.
Sono quasi certo fosse il 1982 o al massimo l’anno successivo. Erano i primi anni delle
superiori e una volta al mese, o suppergiù, l’insegnante di italiano dell’epoca ci radunava
tutti nell’auditorium della scuola per costringerci alla visione di film che avremmo in seguito
dovuto commentare in classe. In quella rassegna ricordo mattoni assurdi come “Missing”
di Costa-Gravas, sul fenomeno dei desaparecidos sotto il regime di Pinochet, o “Reds” di
Warren Beatty, sulla Rivoluzione d’ottobre (film da me in seguito parzialmente rivalutati).
Tra quei numerosi tentativi di instillare in noi attraverso il cinema un minimo di coscienza
geopolitica, ricordo invece un titolo che si discostava nettamente dalla norma: “La guerra
del fuoco” (La Guerre du feu, 1981) diretto da Jean-Jacques Annaud, regista francese che
in seguito (io ancora non lo sapevo, ma nemmeno lui) avrebbe firmato opere immortali
come “Il nome della rosa” (1986) e “Sette anni in Tibet” (1997).
Leggendo rapidamente la scheda del film, prima che si spegnessero le luci, mi sorpresi a
pensare “Ehi, ma questa è crudeltà pura!” Cosa avrei potuto aspettarmi da un film, quasi
certamente interminabile, i cui unici dialoghi sarebbero stati dei suoni gutturali?
Mi ritrovai invece a guardare un film potente e profondamente commovente, incentrato sul
trionfo dello spirito umano e sulla lotta per la vita.
Queste ovviamente sono parole che uso oggi. Non ricordo esattamente in quali termini
commentai in classe il film ai tempi di quella mia prima visione scolastica. È molto
probabile che scelsi parole meno sofisticate, anche perché era un’età, quella, in cui gli
argomenti di discussione erano principalmente calcio e figa, senza contare che la mia
cultura cinematografica era circoscritta a pessimi horror di ispirazione fulciana.
Come preannunciato da quella scheda ciclostilata, la caratteristica principale del film era
stata la mancanza assoluta di dialoghi degni di questo nome: un centinaio di minuti nel
corso dei quali creature primitive comunicavano tra loro attraverso suoni per noi privi di
qualsiasi significato. Ciononostante, la storia era stata molto facile da seguire e consisteva
fondamentalmente nelle avventurose vicende di alcuni membri di una tribù primitiva e
pacifica, quasi certamente uomini di Neanderthal che in seguito a un feroce attacco da
parte di una tribù ancora più primitiva perdevano il loro prezioso fuoco, essenziale per la
sopravvivenza.
Incapaci di riaccenderlo, decisero di inviare alcuni membri della piccola comunità alla
ricerca del fuoco, recuperandolo dalla natura o sottraendolo ad altre tribù lungo il loro
cammino, per poi riportarlo alla loro gente prima che il freddo dell’inverno potesse
raggiungerli.
Il fuoco, in quell’epoca (stiamo parlando di circa 80.000 anni fa), era per
l’uomo l’unica chiave per la sopravvivenza: offriva calore, rendeva il cibo commestibile e
non ultimo teneva lontani i predatori. Il fuoco era potere e speranza e, se avessero fallito,
sarebbe certamente stata la fine per loro e per tutta la tribù.
Sullo sfondo di un'Europa paleolitica meravigliosamente realistica, i tre avevano affrontato
numerose avversità, oltrepassato steppe gelide e ventose, attraversato paludi e scalato
montagne, schivato giganteschi mammuth, fatto i conti con le terribili tigri dai denti a
sciabola e finiti anche in bocca, metaforicamente parlando, a una tribù di cannibali. “La
guerra del fuoco” fu innegabilmente un film capace di descrivere, senza mezzi termini, la
brutalità e la violenza della vita all'età della pietra, e lo fece con la totale assenza di CGI (si
vede benissimo che il mammuth altro non è che un elefante con del pelo appiccicato
addosso): prima di lui, a memoria, soltanto “2001: Odissea nello spazio” (2001: A Space
Odyssey) diretto da Stanley Kubrick nel 1968 ci era riuscito senza quel ricorso massiccio
alla computer grafica che rende sempre le atmosfere posticce e meno godibili (penso ad
esempio a “10.000 AC” (10,000 BC) di Roland Emmerich, del 2008).
Oggi, quarant’anni più tardi, ho dovuto guardarmi il film di Annaud di nuovo per farne
riaffiorare dalla mia memoria i più piccoli particolari, e sorprendentemente ho trovato “La
guerra del fuoco” invecchiato benissimo. Salta ancora all’occhio la sua autenticità,
costruita attraverso un accurato lavoro di ricerca da parte del regista che, si dice, aveva
addirittura trascorso anni a filmare tribù africane per poter meglio rappresentare il suo
uomo primitivo. Inoltre, tutte le riprese furono effettuate in esterni nelle aree più remote e
inospitali di Canada, Scozia e Kenya, il che significa che tutto il cast dovette sopportare
condizioni meteorologiche talmente dure che la sofferenza tutt’altro che simulata degli
attori è ancora palpabile.
Basato sul romanzo omonimo di J.H. Rosny (pseudonimo del lavoro collaborativo di due
fratelli), facente parte di una serie di romanzi e racconti di ambientazione preistorica, “La
guerra del fuoco” ha il suo apice emotivo quando i tre Neanderthal cominciano a rendersi
conto di essere culturalmente e tecnologicamente inferiori a tribù a essi coeve
(identificabili nei cosiddetti uomini di Cro-Magnon), già perfettamente in grado di
padroneggiare la tecnica per accendere il fuoco.
Gli storici ritengono che l’uomo di Neanderthal facesse parte di un ramo destinato
all’estinzione proprio a causa della mancanza di una tecnica che avrebbe loro consentito
un certo livello di controllo sull’ambiente. Non so dire, personalmente, se ciò sia vero o se
si tratti di semplici illazioni, ma quel che è certo è che, come risulta in maniera piuttosto
evidente alla fine del film, quando la tribù si riunisce felicemente attorno alla brace
scoppiettante, i suoi membri prendono a raccontarsi storie attraverso gesti e grugniti. Detto
in altri termini, l'evoluzione delle forme linguistiche complesse potrebbe avuto origine
proprio in quei momenti di pace, quando il freddo, la fame e i predatori erano lontani e una
nuova forma di pensiero poteva prendere piede: in questa visione, opposta a quella che è
oggi la credenza comune, è la necessità di comunicare a permettere lo sviluppo e
l’evoluzione di un linguaggio comune, e non il contrario. Sembra infine quasi di guardare
noi stessi, oggi, indaffarati nelle pratiche conviviali dei nostri dopo cena.
A scuola mia non ci facevano vedere film, però ricordo che la professoressa di Storia e Italiano ce ne parlò proprio per sottolineare il passaggio dallo stato ancora "selvaggio" a uno stato più "civilizzato" dell'uomo. Ci invitò a vederlo se ne avessimo avuto l'occasione, ma ammetto che io ignorai l'invito (anche tutti gli altri studenti, eh!)
RispondiEliminaAl di là che certe cose da noi erano quasi d'obbligo, non mi ritengo sfortunato. Avevamo un bell'auditorium che poteva contenere tutti gli studenti delle quattro scuole del complesso scolastico (elettronici, ragionieri e un paio di licei) e, oltre alla varie assemblee, ci stavano benissimo queste proiezioni che talvolta erano anche stimolanti. Se non altro, perché ti consentivano di uscire dalla solita routine.
EliminaAvevo letto di questo film ma non l'Ho visto... Il suo regista ha dato certamente prova di meritare la nostra attenzione con la sua filmografia, questo è sicuro!
RispondiEliminaSe decidi di guardarlo assicurati di essere ben riposato. La palpebra che si abbassa, in un film senza dialoghi, è dietro l'angolo dopo una dura giornata di lavoro....
EliminaSai che non sono mai riuscito a vederlo? E' una vita che vorrei colmare questa lacuna e mi sa che mi hai appena dato la spinta giusta :-P
RispondiEliminaLo spero, e so che lo farai con il giusto spirito. ;-)
Elimina