Come già chiarito in precedenza, un cibo può essere definito tradizionale perché preparato secondo criteri
religiosi, significando l’adesione a un codice di comportamento, che possiamo definire morale, che
esprime la fede nel proprio Dio. Oggi, tuttavia, quando si parla di cibo tradizionale si intende di solito che
per prepararlo si sono utilizzati solo ingredienti provenienti dal territorio di origine, che danno un gusto e
una consistenza ben definiti, unici.
Da bambini, il momento dei pasti rappresenta il modo di cementare i rapporti familiari, cosicché il cibo
resta poi per tutta la vita un legame tangibile con il nostro vissuto: non solo con la famiglia, ma anche con
il luogo di nascita e la storia personale; da adulti, la cena a due, magari in un costoso ristorante di grido, è
spesso il preludio a un convegno amoroso. Per tutte queste ragioni, il cibo consolida il senso di
appartenenza a una comunità, ristretta o allargata che sia: è come una carta d’identità che ci dice chi siamo
e da dove veniamo.
Il cinema mostra spesso un tema ricorrente, quello del cibo che rinsalda legami personali logorati e che
annulla le distanze non solo tra i commensali, ma anche tra corpo e spirito; “Il pranzo di Babette” di
Gabriel Axel (1987) è una replica dell’ultima cena, con dodici invitati a simboleggiare i dodici apostoli e
la protagonista la figura di Cristo, mentre in “Chocolat” di Lasse Hallström (2000) il cioccolato è una
sorta di cibo delle meraviglie in grado di risvegliare desideri sopiti in una vita scandita da regole rigide e
immutabili.
Nel primo di questi due film, Babette è un’esule francese in fuga dalle persecuzioni della Comune di
Parigi (siamo nell’Ottocento) che si rifugia in Danimarca presso due anziane sorelle nubili, che guidano la
piccola comunità protestante di cui il loro defunto padre era stato il decano; per ripagarle dell’ospitalità
governa la casa gratuitamente, e quando vince diecimila franchi alla lotteria anziché spendere quel denaro
per tornare in Francia chiede il permesso di organizzare e pagare un ricco pranzo francese in onore del
centenario della nascita del decano.
Nonostante gli infausti presentimenti delle sue ospiti, che addirittura
vedono lo zampino del Maligno nell’opulenza di ingredienti inusuali e impuri, il pranzo è un successo: i
commensali ritrovano la coesione e l’armonia perdute, lasciando da parte incomprensioni e piccole
ripicche. Il generale Lowenhielm, l’unico in grado di riconoscere l’eccellenza di tutte le portate, afferma
che le pietanze gli ricordano quelle preparate da una chef che un tempo lavorava a Parigi e che aveva il
dono di trasformare il pranzo in una specie di avventura amorosa che cancellava ogni distinzione fra
l’appetito del corpo e quello dell’anima (scopriremo alla fine che quella chef era proprio lei, Babette).
La
vicinanza a Dio si può esprimere anche nell’atto di gustare del cibo preparato con amore e Babette, che
per quel pranzo ha dilapidato la sua vincita, afferma tuttavia che “un artista non è mai povero” e si
conferma come figura toccata dalla grazia divina.
Nel secondo film, la storia prende il via durante la Quaresima: proprio nel periodo dell’anno in cui i
cattolici osservanti dovrebbero essere più morigerati a tavola, la nomade Vianne inaugura una
cioccolateria in un sonnacchioso e puritano paesino della provincia francese. Per il cattolico osservante e
bigotto sindaco, il Conte De Reynaud, si tratta di una sfida alla pubblica morale e un pericolo per la
comunità, anche perché quello per il cioccolato può potenzialmente risvegliare ben altri appetiti. Il
cioccolato opera ben presto la sua magia e i compaesani cominciano a sovvertire i costumi religiosi
consumando quei piccoli peccati di gola, i cioccolatini, quasi di nascosto, ma quelle meravigliose
creazioni finiranno per conquistare anche il sindaco, con redenzione del cattivo e pacificazione finale a
rafforzare il messaggio di fondo: una vita di sacrifici e rinunce non garantisce la felicità, che può essere
perseguita solo bilanciando questi aspetti con la leggerezza e il piacere. Inoltre, una religione che castra
ogni desiderio dell’individuo non farà altro che svuotare la fede di ogni significato, rendendola una sterile
ripetizione di riti il cui vero senso si perde nella notte dei tempi. Non aveva tutti i torti, De Reynaud, a
temere il cioccolato: simbolo della passione e dell’amore romantico, è il dono di San Valentino degli
innamorati, festa la cui occulta anima trasgressiva e sovversiva dipende dall’essere la sincretizzazione dei
Lupercalia, le antiche feste romane di metà febbraio che celebravano “carnevalescamente” la morte e la
rinascita della natura, e quindi la fertilità. Non è strano che il cioccolato ritorni per tradizione sulle tavole
proprio dopo la Quaresima sotto forma di uovo pasquale, come una sorta di valvola di sfogo da far seguire
alla mortificazione della carne (in questo caso, dello stomaco).
Il film del 2015 “Le ricette della Signora Toku“ della regista giapponese Naomi Kawase comincia
quando Sentaro, gestore di un locale di dorayaki, dolcetti ripieni di anko, la marmellata di azuki (i fagioli
dolci giapponesi), riceve la visita di un’anziana signora che risponde a un suo annuncio chiedendo di
essere assunta come aiuto cuoco. Quello del cibo qui è un tema minore; oltretutto, il film non è affatto uno
di quei “comfort movie” nati sulla scia della moda letteraria dei ristoranti, caffè, librerie eccetera cui ho
accennato nell’introduzione, ma già il nome della regista mi aveva fatto venire qualche ragionevole dubbio.
La storia è innanzitutto un incontro di solitudini: sia Sentaro che la signora Toku, per motivi diversi, sono
stati relegati ai margini della società. Se la donna è ormai rassegnata al suo destino, Sentaro apprenderà
però da lei come “sentire la vita” e cercare di essere felice a dispetto delle circostanze; motivo per cui lui
cercherà in seguito un riscatto dagli sbagli del passato. Ma anche gli insegnamenti di Toku in cucina sono
significativi: la donna tratta le materie prime come esseri viventi da rispettare e "ascoltare" affinché
sprigionino il proprio sapore più autentico e il proprio potere nutritivo; un tema, devo dire, davvero
coerente con la sensibilità giapponese, che ha coniato espressioni come “itadakimasu” e "gochisosama
desu” (*).
Il regista taiwanese Ang Lee, in “Mangiare bere uomo donna” (1994), racconta invece la storia
agrodolce di uno chef, vedovo da molti anni, che esprime il suo affetto per le figlie preparando luculliani
pranzi domenicali che scandiscono il flusso della vita, con i suoi piccoli e grandi eventi. Per quest’uomo
la tradizione culinaria cinese è parte di un'eredità culturale che sta cedendo il passo alla modernità, e vi si
aggrappa proprio come si aggrappa alla sua esistenza terrena avviatasi ormai al tramonto. Una delle figlie
riuscirà a raccogliere il testimone del padre, ridestando il suo senso del gusto ormai sopito, ma la parabola
discendente è inevitabile e opporsi al nuovo che avanza è un’illusione (lo capisce il padre per primo, e
decide di risposarsi): nel suo incedere, la vita è destinata prima o poi a cambiare sapore.
Non mi ha mai detto granché, invece, la storia di Willy Wonka (intesa sia come romanzo di Roald Dahl
che come trasposizione al cinema, quella di Mel Stuart del 1971, quella di Tim Burton del 2005 e quella
di Paul King del 2023, con Timothée Chalamet nel ruolo che fu di Johnny Depp e prima ancora di Gene
Wilder). Il richiamo all’infanzia è qui incarnato dal protagonista, un adulto eccentrico e infantilizzato la
cui passione per il dolce è legata al ricordo dell’ultimo regalo ricevuto dalla madre morente, una barretta
di cioccolato.
La storia nelle sue varie declinazioni indaga i rapporti familiari e riflette sul ruolo
genitoriale (laddove non siano innate, bontà e umiltà sono unicamente il risultato di una buona
educazione, e così via) e sui temi dell’appagamento dei desideri e della condivisione, tutto molto
interessante ed educativo; tuttavia, la figura di Willy Wonka ha un che di ambiguo, a partire dal nome (che
presenta una disturbante assonanza fonetica con la parola inglese “wanker”, ovvero masturbatore,
onanista. Non proprio il massimo per un personaggio concepito per un pubblico infantile).
Una scena da "Mangiare bere uomo donna" (Yǐn shí nán nǚ) di Ang Lee, Taiwan, 1994 |
(*) I giapponesi esclamano “itadakimasu”, cioè "sono felice di ricevere questo pasto", prima di cominciare a
mangiare e "gochisosama desu”, “grazie per questo cibo”, alla fine del pasto. Ma chi ringraziano i giapponesi?
Non certo Dio (come si usa presso i cristiani osservanti), ma gli animali e i vegetali che, “immolandosi”, gli
permettono di nutrirsi. Certo, se si crede che tutto il creato sia espressione divina allora anche quelli giapponesi
sono ringraziamenti impliciti alla divinità, tuttavia mi sembrano meno ipocriti. Dopotutto, Dio potrebbe essere
troppo impegnato per preoccuparsi di cosa ognuno di noi riesce a mettere ogni giorno nel piatto. Come può una
cultura che esprime una tale sensibilità aver ideato anche pratiche come l’Ikizukuri, cioè la preparazione del
sashimi con pesce vivo, resta per me un mistero.
Tutti film molto noti, io però ho visto solo "Le ricette della signora Toku" dove in effetti l'aspetto culinario è stato salvifico per la signora Toku, dandole una passione in un mondo che l'ha relegata ai margini per colpa della sua malattia, e che può trasmettere a Sentaro come fosse un figlio, il legame che il mondo le aveva negato e che le mancava (come pure il poter fare la cuoca in un locale) per concludere la vita senza rimpianti.
RispondiElimina"Le ricette della signora Toku" è un film di una delicatezza unica, come solo i giapponesi sanno fare. La cosa davvero geniale è che la preparazione dei dolcetti, aspetto se vogliamo secondario rispetto al tema del film (che è la malattia della signora Toku), è stato portato in primo piano per trasmettere un insegnamento che lo spettatore metabolizza a poco a poco. Senza dubbio, tra quelli elencati nell'articolo, questo film è l'unico che hai fatto bene a non perdere.
EliminaChocolat l'ho visto per la prima volta da poco, e lo vorrei rivedere perché, come suggerisce il tuo post, può far fare riflessioni interessanti.
RispondiEliminaWonka secondo me come personaggio funziona solo nell'incarnazione di Gene Wilder perché è disturbante, e il personaggio funziona solo se trasmette inquietudine (un onanista che si circonda di bimbi)...
E' peggio di disturbante: è proprio un esplicito riferimento sessuale in un prodotto destinato a un pubblico di giovanissimi. E se il termine "wanker" lascia indifferenti noi italiani, un madrelingua anglosassone non può non accorgersene.
EliminaCome sempre sei un diavolo tentatore: gli altri film li ho già visti e concordo sulla recensione, mentre Babette un giorno riuscirò a studiarlo per bene, che me lo prefiggo da anni.
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