Quando ne parlai io, nel lontano 2016, una traduzione in italiano di questo libro ancora non esisteva (dannazione!) |
Si tratta di
speculazioni oziose, naturalmente; nulla che possa essere provato. È però oltremodo curioso (sebbene i
funghi ad esempio non si coltivino, ma casomai si colgono) che la parola latina colere significhi sia
coltivare che onorare, venerare, a testimonianza del fatto che nell’area mediterranea l’agricoltura avesse
un posto preminente tra le attività umane anche perché consentiva all’uomo di elevarsi sopra la
condizione animale, piegando la natura ai suoi bisogni e garantendosi di non dover soffrire mai più la
fame; in termini economici, aveva permesso di passare da un’economia di sussistenza a un’economia
fondata sul processo produttivo.
L’atto stesso di cuocere il cibo, vegetale o animale che sia, affranca
l’uomo dalla natura; ma anche se la cottura potrebbe aver marcato il passaggio da una società naturale a
una regolata da convenzioni sociali (non dimentichiamo ad esempio che gli antichi greci consideravano "barbaro" chi consumava il cibo crudo), come era convinzione dell’antropologo francese Claude Lévi-
Strauss (*), il cibo a volte viene consumato crudo, oppure preparato senza cuocerlo, essicato, affumicato,
fermentato, e non è possibile delineare una corrispondenza precisa tra queste pratiche e l’evoluzione
sociale dei gruppi umani di riferimento (**) (piuttosto, è interessante rilevare che ancora oggi la cucina sia il
centro della casa in tutte le culture del mondo, e certamente in quella italiana).
Per farlo può essere più
determinante esaminare la ritualità del consumo dei pasti, il modo in cui oltre all’abbondanza del cibo
(una ricca mensa era ovviamente indice di uno status sociale elevato) divenne prominente anche la sua
presentazione, talora davvero stravagante e a effetto, e la cura legata all’apparecchiare la tavola, scegliere
il posto dei commensali, eccetera.
Un tempo condividere il desco era sinonimo di convivialità e occasione
di conversazione, nonché un modo per rafforzare legami e stringere alleanze, nel caso di persone abbienti
che volessero sopravvivere e prosperare nell’instabilità sociale e politica, o semplicemente condividere le
proprie miserie, nel caso dei poveri; ed è ancora così.
Né si può dire che di per sé cucinare fosse solo
l’atto meccanico di mescolare ingredienti a caso in base al sapore, perché si trattava al contrario di una
vera e propria forma di farmacologia, tanto che i pasti e le preparazioni farmaceutiche utilizzavano gli
stessi ingredienti (motivo per cui la parola ricetta designa sia la preparazione farmaceutica che quella
gastronomica). La cucina popolare si fondava sulla credenza in una sinonimia tra alimentazione e
medicina e promulgava la qualità del cibo come elemento chiave della salute (***).
La medicina greca comincia a interessarsi al cibo più o meno nello stesso periodo di quella cinese. Il filosofo cinese Zou Yan (305-240 a.C.) nel III secolo sviluppa la teoria dei 5 elementi (metallo, legno, acqua, fuoco, terra), che più tardi verrà approfondita dal medico Zhang Zhongjing (150-219 d.C.) in un trattato che evidenzia il legame tra cibo e salute. In Occidente, sulla scia della “teoria
umorale” di Ippocrate (460–377 a.C. circa), ripresa da Galeno (129–201 d.C. circa), si era affermata una medicina astrologica per la quale non solo
il cibo salutare era quello che meglio aiutava a preservare l’equilibrio di ognuno (cioè il bilanciamento dei
quattro elementi acqua, aria, terra e fuoco), ma la costituzione fisica di ciascun individuo era determinata
dal suo tema natale (abbiamo già osservato nel corso di Orizzonti del Reale che anticamente il medico era
anche un astrologo e spesso un negromante).
Ciò che a noi può sembrare una deviazione dal pensiero
ordinario si spiega col fatto che processi come la fermentazione e la lievitazione apparivano abbastanza
misteriosi da fa pensare che fossero opera di folletti o spiriti del sottosuolo, che potevano infuriarsi e
influenzarne il decorso (facendo marcire i cibi, inacidire il vino e così via); una forma di pensiero che può
aver dato forma anche alle creature del folclore protagoniste di numerose leggende agresti o montane (per
esempio l'Uomo Selvatico, che insegnò all’uomo come fare il formaggio o i segreti dell’apicoltura, o le
Anguane, anch’esse esperte nella caseificazione e in grado di favorire i pescatori).
Religiosità, magia,
cosmogonia si intrecciavano in uno sfondo estatico (pensiamo alle trance associate allo sciamanismo)
agevolato da fenomeni di intossicazione volontaria (dati dall’ingestione di uva, latte o cereali fermentati) e
involontaria (per esempio tramite il consumo di pane fatto con la segale cornuta, che tra le altre cose
contiene l'acido lisergico, la base dell’LSD, di cui abbiamo anche già parlato qui sul blog). L’uso di questi
cibi intossicanti, vere e proprie droghe, diventava anche, per le classi meno abbienti, una maniera di
sopportare una fame atavica che per loro costituiva la normalità, e alimentava un immaginario collettivo
di mostri ed esseri soprannaturali le cui gesta sono narrate in fiabe, leggende popolari, poemi e canzoni, in
una spirale senza soluzione di continuità la cui manifestazione più compiuta sono i riti del Carnevale (e
qui si dovrebbe aprire un capitolo a parte legato alle maschere del Carnevale, ma questo speciale non offre
né il tempo né lo spazio per farlo).
Se oggi il cibo è parte integrante della cultura, tuttavia, non è solo perché i pasti devono essere preparati in
modo rispettoso della religione, anzi oserei dire che nelle società laiche in varie parti del mondo questo
aspetto non è più così essenziale. È invece emersa nel tempo la tendenza a identificare un cibo
tradizionale come qualcosa di preparato utilizzando ingredienti tradizionali, provenienti dal territorio e
non sostituibili, per ottenere un gusto e una consistenza specifici. Questo è stato reso possibile, con la
morte dell’Illuminismo, che definiva cultura solo le attività specificamente intellettuali, dalla nascita della
scienza antropologica, che rigettò l’idea di oggettività della cultura sostituendole quella di patrimonio
intellettuale appartenete non più al singolo, ma a una collettività, sia essa un dato popolo o l’umanità intera,
e in seguito quella della summa delle abitudini e delle capacità acquisite e trasmesse socialmente in
qualunque tempo e luogo.
Com’è comprensibile, finché c’era scarsità di cibo la priorità era procurarselo, e
fu solo con la diffusione del benessere e dell’abbondanza delle risorse presso gran parte della popolazione
che la consistenza e il sapore del cibo, e perfino la sua storia, divennero davvero rilevanti, oltre che
materia del contendere di infinite diatribe sull’origine storica e geografica di questa o quella pietanza,
dell’autenticità di questa o quella ricetta. Resta un mistero come una tale mentalità abbia potuto attecchire
in Italia, un paese che non era unito da nessun punto di vista, neppure, a causa delle differenti
caratteristiche geografiche, sotto il profilo gastronomico, tanto più che le regioni che furono riunite sotto la
bandiera nazionale erano state soggette nel corso del tempo a diverse e numerose dominazioni straniere.
L’Italia, come la sua tanto magnificata cucina, è un costrutto risorgimentale, una morfologia di tradizioni
culinarie diverse con in comune solo l’esser, di base, delle cucine popolari, povere (è un fatto che molti
piatti del sud somiglino più ai piatti degli altri paesi mediterranei che a quelli del nord Italia).
Ciononostante, gli italiani si azzuffano ogni giorno sulle virtù della dieta mediterranea, sulla paternità
della pizza o della carbonara o su quanto sia gourmet riscoprire i cereali antichi, anche grazie alla cassa di
risonanza dei social media. Per non parlare della contrapposizione, non solo nostrana, tra onnivori e
vegetariani e vegani, che meriterà una trattazione a parte.
Partirei dunque da qui, esaminando una serie di pellicole che indagano il rapporto del cibo con la
tradizione, tenendo sempre bene a mente che il commercio e in ultima istanza la sua degenerazione, la
globalizzazione, hanno potenzialmente livellato le abitudini delle persone a tavola (slegando
l'alimentazione dal territorio, ma anche dai cicli delle stagioni, tanto che oggi è possibile reperire
qualunque tipo di cibo in ogni periodo dell'anno); il che si ricollega, in primis, al legame tra il cibo e
l’infanzia.
* Claude Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto (Le cru et le cuit, 1966). Il saggio esamina i miti di alcune tribù
sudamericane dell’area amazzonica sull’origine del fuoco, che lo fanno provenire da un animale (il giaguaro o
altro predatore, ovvero un consumatore di carne cruda), che lo cede all'uomo oppure al quale viene sottratto; in
seguito, l’uomo diventa quindi "signore del fuoco". Per esempio, nella seconda parte (cap. II. Sinfonia breve, pag.
191) l’Autore scrive: "Abbiamo così la conferma che i miti gé sull'origine del fuoco, come i miti tupi-guaraní sullo
stesso tema, operano per mezzo di una doppia opposizione: fra crudo e cotto da una parte, fra fresco e corrotto
dall'altra. L'asse che unisce il crudo e il cotto è caratteristico della cultura, quello che unisce il crudo e il putrido lo è
della natura, giacché la cottura compie la trasformazione culturale del crudo, come la putrefazione ne è la
trasformazione naturale.” E prosegue: “Nell'insieme globale così ricostruito, i miti tupi-guaraní testimoniano
maggior radicalità rispetto ai miti gé: per il pensiero tupi-guaraní l'opposizione pertinente è fra la cottura (di cui gli
avvoltoi possedevano il segreto) e la putrefazione (che oggi definisce il loro regime alimentare); mentre per i Gé
l'opposizione pertinente è fra la cottura degli alimenti e il loro consumo allo stato crudo, come fa ormai il giaguaro.
Il mito bororo potrebbe allora tradurre un rifiuto, o una incapacità, di scegliere fra le due formule, rifiuto di cui si
dovrà cercare la ragione. Il tema della putrefazione è qui maggiormente evidenziato rispetto ai Gé, quello del
carnivoro predatore è invece quasi completamente assente. D'altra parte, il mito bororo adotta il punto di vista
dell'uomo conquistatore, ossia della cultura (l'eroe di M1 inventa da sé l'arco e le frecce, come la scimmia di M65 -
contropartita naturale dell'uomo - inventa il fuoco che il giaguaro ignora). I miti gé e tupi-guaraní (che sotto questo
profilo sono più vicini) si situano piuttosto nella prospettiva degli animali depredati, che è quella della natura. Ma il
confine fra natura e cultura si trova comunque spostato, a seconda che consideriamo i Gé o i Tupi. Per i primi esso
passa tra il crudo e il cotto; per i secondi fra il crudo e il putrido. I Gé fanno quindi dell'insieme (crudo + putrido)
una categoria naturale ; i Tupi fanno dell'insieme (crudo + cotto) una categoria culturale.”
** Ciò che probabilmente avvenne dopo la scoperta del fuoco è che l’uomo cominciò a ritualizzare il suo rapporto con il cibo e con la morte, rendendo di fatto i due concetti inscindibili, ovvero da un lato pregava gli dèi per ottenere del cibo e dall’altra chiedeva perdono per l'uccisione delle prede.
*** Questo approccio al cibo non è variato molto col tempo, in effetti. Mia mamma, per esempio, ha glorificato per
tutta la vita le virtù ricostituenti e guaritrici del brodo di pollo e del bollito, che a casa mia si chiamava lesso.
Ovviamente l'Unità d'Italia doveva giocoforza passare anche attraverso un' unificazione alimentare, anche se curiosamente il contributo più grande in tal senso lo ha dato un privato cittadino come Pellegrino Artusi. Devo peraltro ammettere che la lettura del suo ricettario "italo-unificato" ha un suo fascino (non so se ti è mai capitato di leggerlo).
RispondiEliminaNo, in effetti non l'ho mai letto, ma Artusi mi è sempre parso un personaggio bizzarro: chissà cosa lo spinse a occuparsi di cucina dopo aver scritto due saggi di critica letteraria. Ma forse aveva ragione lui, dato che è proprio per il suo manuale culinario che oggi viene ricordato, come giustamente hai fatto anche tu.
EliminaRitorno siccome figliuol prodigo al tuo ciclo ^_^
RispondiEliminaMolto molto interessante il pezzo, non avevo mai notato il doppio significato del termine "ricetta", mi hai provocato un brivido, e interessantissimo il discorso sulla morte dell'illuminismo in favore della scienza antropologica, davvero da approfondire.
Leggendo qualche saggio "infedele" sulle false leggende che gli italiani amano raccontarsi sul cibo è chiaro che la penisola vive in una bolla di falsa mitologia auto-prodotta e auto-indotta, prendendo robe nate ieri e spacciandole per millenarie: temo che studiare la passione italiana per il cibo rientri più nella patologia che nella storia :-D
Hai ragione. Ma non è proprio solo colpa nostra: la definizione di cucina mediterranea è nata in America... direi che la cosa dovrebbe come minimo far riflettere, purtroppo però nel nostro paese non c'è memoria storica e anche, per la maggior parte, scarsa capacità di analisi...
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