lunedì 29 aprile 2024

La Grande Abbuffata: le grandi tavolate della tradizione (Pt.2)

Tra tutti, forse il film più evocativo del passato e della tradizione resta “Ratatouille” di Brad Bird, premio Oscar 2008 come miglior film di animazione. In Francia, nel 1970, Rémy è un topolino di campagna dotato di un gusto e un olfatto sopraffini che, ispirato da Auguste Gusteau, uno chef il cui motto è "chiunque può cucinare", sogna di diventare un cuoco. Un giorno Rémy si ritrova per un caso fortuito proprio nel ristorante stellato di Gusteau, che dal momento della sua morte viene gestito da Skinner, un affarista senza scrupoli, e con la complicità di Alfredo Linguini, il timido adetto alle pulizie, crea una zuppa che riceve una recensione positiva da una rubrica gastronomica, risollevando le sorti del locale. Tutti credono che il cuoco sia proprio Linguini, perché nessuno consumerebbe un pasto preparato da un topo. 
La morale del racconto è che non bisogna accontentarsi, ma perseguire sempre le proprie inclinazioni e i propri sogni a dispetto delle difficoltà, ma il contesto, imprescindibile, è il legame tra il cibo e la memoria, che viene alla ribalta soprattutto nel mitico finale proustiano che ha per protagonista il cinico critico gastronomico venuto nel ristorante di Rémy col proposito di stroncarlo, e che finisce invece per commuoversi mangiando un semplice un piatto di ratatouille preparato dal piccolo roditore, che gli rammenta la sua infanzia perduta. 
Quell’uomo è l’emblema di un’umanità che ha smarrito la gioia di vivere, persa in una spirale di bisogni eterodiretti e di doveri, e del suo possibile riscatto. Anche a noi, come a lui, è impossibile trattenere le lacrime su questo finale, ma sono lacrime di gioia e non solo di dolore, perché i ricordi sono così: dolci e amari assieme, ma sempre in grado di guarirci l’anima. 

Il piacere di nutrirsi e i piaceri del sesso s’intrecciano invece in “9 settimane e 1⁄2” di Adrian Lyne, uscito nelle sale nel 1986 e considerato per l’epoca piuttosto scandaloso, un film entrato nella memoria collettiva anche grazie ai due bellissimi attori protagonisti. Si vocifera però (non abbiamo certezze, ma è molto probabile) che le scene di cibo ed erotismo del film americano siano state ispirate da quelle presenti in “Tampopo” di Jūzō Itami, classico della commedia nipponica dell’85 dove il linguaggio amoroso del cibo assume appieno il doppio senso di accudimento alimentare (prendersi cura degli altri preparando le pietanze con cura) e stimolo erotico (le virtù afrodisiache di alcune pietanze sono una credenza diffusa che potrebbe anche avere qualche base scientifica) (*). 
Ma “Tampopo” va oltre, illustrando brevemente ma in modo magistrale (vedremo come) il concetto di eros e thanatos. Qui l’attenzione costante verso la soddisfazione sensoriale, quasi sensuale, del cliente, per cui il cibo deve essere bello da guardare oltre che da odorare e da gustare, e consumato in un ambiente gradevole e confortevole, si fonde alla concezione dell’interconnessione fra tutti gli aspetti della vita – il cibo, il sesso e, appunto, la morte. 
Il film è un “ramen western” incentrato sulle vicissitudini di Tampopo, una vedova di mezza età che si sforza di imparare a cucinare un ottimo ramen per salvare dal fallimento il ristorante di famiglia. Come nei film western (“I cannoni di Navarone”, “Quella sporca dozzina”, eccetera) e in quelli di samurai (“I sette samurai”), i buoni si prodigano per togliere qualcuno da un brutto impiccio; qui siamo in una commedia e al posto della vita c’è in ballo solo la sopravvivenza della locanda, ma il canovaccio di base è lo stesso e in questo senso l’inizio è già da manuale. 
Avete presente quelle scene in cui l’eroe impolverato entra nel saloon e al suo ingresso tutte le teste si voltano e la conversazione s’interrompe di colpo, prima che un gradasso dal grilletto facile sfidi il nostro a un duello alla pistola? Bene, qui accade più o meno la stessa cosa a Goro, un camionista di passaggio che si ferma per pranzare nel ristorante di Tampopo e pochi minuti dopo finisce coinvolto in una scazzottata. Il cattivo però non è davvero tale e si trasformerà in un alleato, non prima che Goro abbia convinto anche un anziano senzatetto suo amico a dispensare consigli di cucina a Tampopo. 
Uno dei temi portanti, infatti, è che la gastronomia è una parte integrante della cultura in tutti i ceti sociali; pertanto, anche dei senzatetto possono essere conoscitori dei migliori vini francesi e cuochi esperti. 

Una scena da "Tampopo" (Tanpopo) di Jūzō Itami, Giappone, 1985
Mentre la protagonista cerca di carpire i segreti degli spaghetti e della zuppa alla concorrenza e i suoi nuovi amici le risistemano il locale, sullo schermo si susseguono scene di pasti il cui scopo è mostrare l’approccio al cibo delle persone più diverse: c’è la donna raffinata che cerca di insegnare alle sue kōhai a mangiare gli spaghetti all’occidentale, cioè senza far rumore, ma viene disturbata da un cliente che li aspira con gusto e che si rivela essere proprio un occidentale (è implicito che la maniera giapponese è quella più semplice e che dimostra un genuino interesse per il cibo); c’è la coppia nella camera d’albergo che intervalla le sessioni amorose alle portate, senza risparmiarsi crudeltà gratuite (l’uomo appoggia l’odori ebi, un gamberetto intinto nel sakè, sulla pancia della sua amante e sappiamo che poi questo, come da tradizione, verrà mangiato vivo, proprio come il povero polpo in “Old Boy” di Park Chan-wook (2003) e in quella vecchia pubblicità di Dolce & Gabbana); in un’altra scena lo stesso uomo consuma un’ostrica, altro animale destinato a essere mangiato vivo, appena strappata alla roccia: l’uomo si taglia e gocciola abbondante sangue dal labbro, ispirando un bacio appassionato alla giovane e bella pescatrice (e come stupirsi: l’ostrica è uno stimolante sessuale, si sa); e così via. 
Anche la conclusione è da manuale: Tampopo è ormai pronta per sostenersi con le sue forze e Goro può quindi scomparire all’orizzonte in sella al suo cavallo... ehm, a bordo del suo camion. Non sempre il cinema va in profondità nell’affrontare questi argomenti, naturalmente; a volte il colpo non affonda a dovere e il film di turno finisce per rassomigliare a una promozione del turismo gastronomico e alla celebrazione del buonismo. 

Una scena da "Un'ottima annata" (A good year) di Ridley Scott, USA, 2006
A mio parere, “Mangia prega ama” (Ryan Murphy, 2010) e “Un’ottima annata – A good year” (Ridley Scott, 2006) sono due film di questo tipo, con la scusante se non altro di non derivare (come del resto quasi tutti i film oggi presentati) da sceneggiature originali, ma di essere stati tratti da racconti o romanzi. Per essere sincero, i film sono piacevoli da guardare e hanno un loro perché; ma i cliché sono un po’ troppi (in Italia si può solo mangiare, in India pregare e a Bali trovare l’amore, non sia mai che i fattori s’invertano) e la visione della vita da zuccherosa si fa perfino stucchevole (al cinico businessman inglese basta un breve soggiorno nella campagna francese per capire quali sono i veri valori della vita: è il potere del vino francese). 
Ma la moda più recente è un’altra. Messi da parte la tradizione, il significato del cibo come collante sociale e familiare e tutti i sentimenti e ragionamenti correlati, il cinema oggi riflette sempre più spesso su una tendenza culinaria che si fa sempre più estrema e ricercata e su un mondo della ristorazione sempre più competitivo e spietato. Ne parleremo più avanti quando esamineremo “The Menu” (Mark Mylod, 2022) e “Hunger” (Sitisiri Mongkolsiri, 2023); per ora c’è un interrogativo più pressante che mi preme condividere con voi. 
Se il toccante finale di “Ratatouille” sottolinea quello che è forse il più grande pregio del cibo al di là della sua qualità intrinseca, quello di costituire un ponte con il passato, cosa nasconde il gesto di negare intenzionalmente il cibo? Che significato dare a questa negazione, e che ruolo assumono chi compie questa azione e chi la subisce? La prossima volta vedremo un film concepito proprio per suscitare questo tipo di domande e cercheremo assieme una risposta. 

(*) Le prime tracce di un legame tra cibo ed erotismo e tra fame e appetito sessuale si trovano in Oriente, nella civiltà vedica indiana.

4 commenti:

  1. "Tampopo" non sono mai riuscito a vederlo, mi incuriosisce. "Ratatouille" lo vedo come il classico film Disney che vuole farti credere che ogni sogno sia possibile e puoi realizzarlo.

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    1. Se sei un bambino allora anche i sogni irrealizzabili sono un qualcosa di positivo. L'importante è avere una guida che ti aiuti a distinguere. Oggi la Disney sta cercando di sostituirsi a quella guida e la faccenda comincia a farsi pericolosa....

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  2. Con questo post mi hai scatenato una tempesta di ricordi: quando nei primi Novanta arrivò a casa Tele+1 sono sicuro di aver visto "Tampopo", titolo che onestamente non avrei mai ricordato ma la tua descrizione non lascia dubbi! Che divertente la scena con la signora che cerca di insegnare un "tono occidentale" nel magiare la pasta :-D
    La cinematografia americana è sempre molto attenta a quella giapponese, quindi non mi stupirebbe se la celebre scena di Rourke al "Supermercato da Kim" sia derivativa ;-)

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    1. Non stupirebbe nemmeno me, se fosse confermato. D'altra parte quando mai gli americani hanno proposto qualcosa di veramente originale negli ultimi cinquant'anni?

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