“Fuori speciale” è una serie di articoli che vengono scritti di getto nel periodo di pubblicazione dello
speciale “La grande abbuffata”. Pur non essendone parte integrante, ciò che viene qui trattato
ruota intorno all’argomento principale senza spezzarne il filo logico. Si tratta, in estrema sintesi, di
piccoli approfondimenti che non hanno trovato posto nella struttura principale. “Fuori speciale”, in
uscita tutti i venerdì, non è una lettura necessaria alla comprensione degli articoli de “La grande abbuffata” (che uscirà invece il lunedì), è viceversa una lettura che può essere ignorata o
rimandata, a vostro piacimento.
***
Il cinema sudcoreano, dopo i fasti degli anni ‘60, sembra vivere da una ventina d’anni una seconda
giovinezza. Registi come Bong Joon-ho, Park Chan-wook e il compianto Kim Ki-duk, tanto per citarne
alcuni, hanno contribuito alla fama di una cinematografia che non teme confronti con quella occidentale,
sia per le tematiche che per quanto riguarda quisquilie come gli attori e il comparto tecnico.
Lee Hae-jun, classe 1973 e con all’attivo soli tre film, non è altrettanto famoso dei suoi conterranei,
tuttavia il suo secondo lungometraggio “Castaway on the Moon” (2009) ha vinto numerosi premi, tra cui
quello del 12° Festival del Cinema dell'Estremo Oriente di Udine. Si tratta di una commedia che col
pretesto di narrare una storia d’amore sui generis fa riflettere sui drammi della società coreana,
caratterizzata dall’ossequio alle regole, un’estrema omologazione, l’ossessione per l’apparire, la
competitività e il consumismo, ma soprattutto una sorta di mancanza di significato della vita oltre la sua
superficie.
Problemi comuni, in grado maggiore o minore, a tutti i paesi industrializzati, dove la stragrande
maggioranza delle persone sacrifica al benessere più tempo, energie e libertà personali di quanto sarebbe
lecito aspettarsi, e talora si rovina – economicamente e psicologicamente - per inseguire il miraggio di
effimeri piaceri; e proprio per sottolineare la natura universale dei personaggi, il regista ha scelto di
chiamarli entrambi Kim, il cognome più diffuso della Corea del Sud.
I due protagonisti sono entrambi fragili, in un certo senso inadatti alla vita metropolitana: lui (Kim Seong-
geun) non ha mai eccelso né nel lavoro né nel privato, non riesce a tenersi una donna, non ha mai neppure
imparato a nuotare, difatti immagina se stesso mentre annaspa nella piscina della vita; lei (Kim Jung-
yeon) è una hikikomori che non esce dalla sua stanza da tre anni, non comunica con nessuno, eccetto gli
utenti internet che capitano sul suo falso profilo social, pieno di foto e stralci di vita di qualcun’altra, e il
suo unico hobby è fotografare la luna. Un giorno Seong-geun, sommerso dai debiti, decide di suicidarsi e
si getta da un ponte affacciato sul fiume Han, a Seul. Anziché morire annegato, il nostro si arena sulle rive
di Bamseom, una coppia di isole ecologiche proprio sotto al ponte; ma la fauna della metropoli è troppo
presa dalla sua frenesia per udire le sue grida d’aiuto. Inizia perciò l’avventura surreale di questo novello
Crusoe che, dapprima disperato, comincia pian piano ad apprezzare la sua nuova esistenza, solitaria ma
libera dagli impegni e dalle responsabilità della vita in società.
Tempo dopo arriva il momento
dell’esercitazione di primavera della guardia civile, uno dei due momenti dell’anno in cui le strade si
svuotano, facendo rassomigliare il paesaggio cittadino al silenzioso e deserto suolo lunare, e Jung-yeon
apre le tende in pieno giorno per osservare il mondo: mentre muove attorno l’obbiettivo della macchina
fotografica, si accorge di una presenza sull’isolotto di fronte al suo condominio, un uomo (o forse un
alieno) seminudo e scamigliato che sulla sabbia ha scritto la parola “help”. Decide di rispondere al
messaggio e comincia così uno scambio di missive (in inglese) tra il naufrago e la ragazza, che lei affida a
delle bottiglie lanciate dal ponte e che lui traccia invece sulla sabbia. Ma è davvero possibile restare
naufraghi in eterno nel bel mezzo della civiltà? Penso che la risposta la conosciate già.
Il finale agrodolce
è però molto emozionante, benché giustamente il regista decida di lasciare il “dopo” alla nostra
immaginazione. Ci piacerebbe pensare i due protagonisti come una futura coppia, ma non è forse questa la
cosa più importante, giacché ognuno dei due è già caduto e si è rialzato, ha imparato a prendersi cura di sé
e ad accudire, ha superato la propria zona di comfort ed è arrivato ad apprezzare di nuovo la vita per
quella che è, con le sue piccole e grandi tragedie e le sue altrettanto piccole e grandi gioie.
Se non avete mai visto questo film, a questo punto vi starete forse chiedendo perché mai io lo abbia
inserito in questa rassegna, sebbene nell’ambito degli articoli fuori speciale.
La risposta è la straordinaria
impresa della preparazione dei noodles da parte di Seong-geun, da cui il titolo del pezzo di oggi
(straordinaria perché avvenuta in condizioni eccezionali, non certo per la caratura del piatto,
naturalmente); succede che un giorno Seong-geun trova una confezione di noodles istantanei al fagiolo
nero con un po’ di condimento avanzato e ripensa con amarezza e rimpianto a tutte le volte nel corso della
sua vita in cui quel piatto comune e banale gli era stato offerto e lui l’aveva rifiutato: dalla madre, dai
compagni di scuola, dagli amici. Il poveretto si dispera. Ora che è costretto a mangiare praticamente solo
funghi e pesce, darebbe qualsiasi cosa per un piatto di noodles e quindi cerca di capire come poterne
preparare uno.
Il bisogno aguzza l’ingegno, si sa, ma i primi risultati sono fallimentari, perché i vegetali
non hanno la consistenza adatta per farci una sfoglia: serve un cereale, non importa quale. Il primo
problema è che non ha semi da piantare, ma gli basta l’intuizione giusta (benché disgustosa) per reperirli e
procedere con la semina, dopodiché gli occorre solo tanta pazienza per attendere la crescita delle piante.
Infine Seong-geun può finalmente tirare la sfoglia (è mais!), tagliare gli spaghetti, cuocerli e condirli. E
quando riesce a gustare i suoi noodles caldi, l’esperienza è quasi mistica e lo riconcilia con l’esistenza.
Piange, Seong-geun, e perfino il mio cuore si commuove davanti a quella che si contende col finale il
primato di scena più toccante e iconica del film.
Se a questo punto non avessimo già incontrato l’altra protagonista, Jung-yeon, la storia avrebbe potuto
anche concludersi qui, per quanto mi riguarda. Tuttavia, la presenza della ragazza e la sua ingerenza nella
questione dei noodles (non dico altro) è vitale per dare un doppio senso all’impresa di Seong-geun, da un
lato la forza incrollabile della volontà umana e dall’altra la necessità da parte di qualunque essere umano
di darsi uno scopo per cui combattere, perché la vita, che sia in città o in mezzo alla natura, è sempre e
comunque una lotta per sopravvivere e per migliorare; lo sa bene Seong-geun, lui che dice che “gli
spaghetti rappresentano la speranza” perché in fondo è consapevole che quello che desidera realmente
non è mangiare dei noodles qualsiasi, ma quelli che ha preparato con le sue stesse mani con tanta fatica e
sudore. Pertanto, su un isolotto fuori dal mondo, val bene la pena mettere in piedi una coltivazione solo
per il piacere di gustare un piatto del passato e poter dire “questo l’ho fatto io!”.
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