Niente come il cibo si presta a essere utilizzato come arma di feroce critica sociale. In questo senso,
l’apice del non rappresentabile lo si raggiunse negli anni ‘70. Per il Marco Ferreri di “La Grande Abbuffata” (1973) il
cibo è la materializzazione del vuoto e della noia che pervadono la società borghese. I quattro uomini di successo che
decidono di rinchiudersi in una villa per ingozzarsi fino alla morte non fanno altro che reiterare la stessa artificiale,
amorale ingordigia che affligge l’umanità in ogni ambito della vita. Tra deiezioni, flatulenze, fluidi di vario genere, la vita
continua a incedere come una sequenza infinita di funzioni corporali; mangiare fino alla morte non è semplice, con il
corpo che cerca, nonostante tutto, di sopravvivere all’ordalia. Accanto a loro una donna che si rivelerà essere un
misericordioso angelo della morte, non scheletrica come la Morte, ma abbondante e materna (un generoso e forse ormai
inattuale apologo del femminile). Non c’è alcuna catarsi al sopraggiungere della morte, che rappresenta la morte della
borghesia intera. Non c’è catarsi neppure per i cani, l’immagine di un mondo affamato per cui l’abbondanza resta
qualcosa di irraggiungibile, infatti il cibo, leitmotiv del film, continua ad arrivare anche dopo la morte dei quattro, ma
rimane ad accumularsi in giardino. Nessuno dei film che arriveranno dopo riuscirà a sottolineare lo smarrimento di fronte
a una realtà consumistica ma di fondo insoddisfacente in maniera così lucida e feroce (in “Amici miei” di Mario
Monicelli, 1975, per esempio, il gruppo di amici rivolgerà all’esterno e non su di sé le proprie frustrazioni, ma al
confronto le loro paiono innocenti burle).
Solo Pier Paolo Pasolini, con “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, che arriva appena due anni dopo, nel 1975, poteva
superare in iperbole “La Grande Abbuffata”, andando là dove Ferreri non aveva osato spingersi. Se nel film di Ferreri il
cibo è invitante e a generare fastidio e disgusto sono solo la sua sovrabbondanza e il suo spreco, Pasolini ci sfida,
letteralmente, a mangiare la merda, immagine del fato di noi consumatori massificati.
Le povere vittime dei quattro nobili
fascisti sono sottoposte ad abusi sessuali, torture psicologiche e fisiche e mutilazioni di ogni genere inflitti in un
crescendo di violenza volto a mostrare, più che l’accettazione, la normalizzazione dell’abuso. In modo speculare, nella
visione pasoliniana la società è soggetta a un cambiamento eterodiretto irreversibile di ideologie e costumi che la sta
trascinando verso il baratro. L’anarchia del potere fascista si è tramutata in quella del capitalismo; la società che ha
“ripudiato” il fascismo per abbracciare il consumismo ha sostituito, di fatto, una schiavitù con un’altra. Nel film, come
nella realtà, l’innocenza è morta, e chi resta in vita è complice.
Anche per altri autori le feci sono qualcosa da consumare o da spalmare sul corpo, vedesi “Blue Movie” di Alberto
Cavallone, del 1978, “Sweet Movie – Dolce film” di Dusan Makavejev, del 1974, o “Pink Flamingos” di John Waters,
del 1972, in un compendio del disgusto che ha pochi eguali. Il cinema di Cavallone è doloroso e opprimente, e il suo
culto delle deiezioni si era già palesato in “Spell – Dolce mattatoio”, del 1977, con uno dei personaggi che mangia seduto
sul wc (come ne “Il fantasma della libertà” di Luis Buñuel, del 1974).
“Blue Movie”, di cui alcune copie girano con
inserti porno, è uno degli ultimi film di Cavallone non espressamente destinati al mercato dei film per adulti.
È la storia di tre donne succubi di un ex fotografo di guerra, sconvolto dalle atrocità viste in Vietnam e ormai stanco della
bellezza, che le tratta come animali, anzi come oggetti. Per lui queste donne sono come barattoli vuoti o pacchetti di
sigarette, contenitori buoni solo a essere riempiti di merda; nella scena in cui una delle donne è costretta a cospargersi il
corpo delle sue stesse feci e poi a mangiarle, le immagini sono alternate a quelle di fucilazioni e supplizi, elevando la
critica da sociale a politica. Se per Andy Warhol l'arte doveva essere "consumata" come un qualsiasi altro prodotto
commerciale e svuotava gli oggetti di significato replicandone l’immagine in serie, qui gli oggetti al pari dei corpi sono
degradati a rifiuti; il furore marxista colpisce prodotti commerciali che raccolgono escrementi, divenendo essi stessi
escrementi. Il film è anche più estremo per la spersonalizzazione delle vittime, in parte complici del loro carnefice
(s’insinua infatti l’ombra del masochismo o della malattia mentale).
Allegoria politica e anarchia caratterizzano “Sweet Movie”, che si concede lunghe divagazioni sulle surreali avventure di
una Miss, che termineranno con la sua morte accidentale; la donna entrerà a far parte di una comune di artisti (guidata da
Otto Muehl) i cui membri mangiano vomitando e urinando liberamente, come bambini, come pratica liberatoria di
rinascita: in seguito verrà ricoperta di cioccolato per uno spot pubblicitario, ma finirà per affogarvi dentro (l’effetto
disturbante è il medesimo di “Blue Movie”, essendo le feci e la cioccolata accomunate dal colore).
“Pink Flamingos” è un film praticamente cucito addosso alla drag queen Divine, che oltre a commettere atti di
cannibalismo, in una delle tante scene choc, non simulata, mangia la cacca di un cane. Buñuel, nel mentre, si divertiva a
rovesciare il significato delle cose con il film grottesco “Il fantasma della libertà” (“Le Fantôme de la liberté”, 1974): le
rappresentazioni dei ragni diventano qui icona del bello e quelle dei monumenti immagini pornografiche, una bambina è
scomparsa all’occhio di tutti ma non de facto, le deiezioni si fanno in pubblico mentre i pasti si consumano nell’intimità
del bagno, e così via. La lezione di Buñuel verrà raccolta molti anni dopo anche dal suo conterraneo Eduardo Casanova,
ma stavolta l’inversione dell’atto del mangiare e del defecare diventa fisica, e non solo simbolica: nel corto nel 2015 “Eat
my shit” l’attrice Ana Polvorosa interpreta il personaggio di Samantha, ritornata nel lungometraggio “Pelle” (“Pieles”)
del 2017, che ha il sistema digestivo sottosopra, cioè l’ano al posto della bocca e viceversa, e per mangiare è costretta a
versarsi la minestra in bocca (quella tra le natiche) con l’aiuto di un imbuto e una cannula sotto lo sguardo derisorio della
cameriera.
A questo punto forse qualcuno di voi si starà chiedendo se citerò, in questo lungo elenco di copro-follie, la sequenza più
merdosa per eccellenza. E si tratta, ve lo assicuro, di roba per pochi coraggiosissimi del genere coprofago (e io, pur con
tutti i miei difetti, non sono tra questi). Mi riferisco al celeberrimo ”2 Girls 1 Cup” (2 ragazze 1 tazza), titolo non ufficiale
dato al trailer di “Hungry Bitches” di Marco Antônio Fiorito, film brasiliano porno-fetish uscito nell'estate del 2007. Il
filmato mostra due donne che si cimentano in pratiche fetish estreme: defecano in una coppa per poi dedicarsi alla
coprofagia e infine vomitarsi addosso l'un l'altra. La clip, della durata di un minuto, è divenuta un fenomeno virale grazie
alle cosiddette video-reaction, cioè filmati nei quali alcuni youtubers, che già lo avevano visto, si divertono a mostrarlo ad
amici, familiari e conoscenti con conseguenze facili da immaginare.
Ma torniamo alle cose serie: Con “Parasite” (2019) Bong Joon-ho mostra il profondo divario esistente in seno alla
società coreana, dove una massa di persone che fatica a sopravvivere convive con una minoranza di superagiati,
simboleggiato dalla pantagruelica abbuffata e bevuta che la famiglia Kim può finalmente concedersi solo nella lussuosa
villa dei Park, una ricca famiglia nella cui vita si sono a poco a poco insinuati. Emblematica fra tante proprio la scena
della cena organizzata approfittando dell’assenza dei padroni di casa, in cui i Kim si godono tutti gli agi della grande
casa, con il cibo quale misura della loro inaspettata buona sorte. In questo affresco non ci sono altruismo e solidarietà
neppure tra i più sfortunati, il sopraggiunto benessere viene difeso con le unghie e con i denti anche, se necessario, con
una guerra tra poveri, ed è soprattutto verso questi ultimi che il regista mantiene il suo sguardo più impietoso,
descrivendoli come parassiti che infestano un altro organismo fino a provocarne la morte.
Lo stesso anno dalla Spagna arriva un film che è un vero e proprio pugno nello stomaco: “Il buco” (“El Hoyo”). Il film
narra di un esperimento sociale che, con la leva del cibo o, meglio, della sua privazione, mette alla prova in circostanze
estreme la pietà e l’altruismo: l’obiettivo della ricerca, stimolare la condivisione del cibo fra prigionieri, sembra fallire nel
suo intento, fino al finale che rimescola le carte. In una prigione che si sviluppa in verticale, su più livelli, c’è una “fossa",
un'apertura rettangolare al centro di ogni piano da cui una tavola imbandita di cibo viene fatta scendere fino al livello più
basso. La sopravvivenza dei prigionieri dei livelli più bassi dipende dalla solidarietà di quelli dei piani superiori, ma
neppure il fatto che ogni mese i prigionieri vengono spostati da un livello all’altro in maniera casuale li rende più
generosi. Mentre alcuni si danno al cannibalismo, due uomini cercano di dare un senso a quell’esperienza discendendo i
piani a cavalcioni della piattaforma che funge da tavola e distribuendo il cibo a tutti in maniera equa. Al livello più basso i
due trovano una bambina nascosta la cui salvezza potrebbe, forse, riscattare l’intera umanità. Il disincanto del regista
Galder Gaztelu-Urrutia nel descrivere i meccanismi sociali è lo stesso di Bong Joon-ho, ma se il film spagnolo è più
crudo, così come ci si aspetta da un horror, apre però uno spiraglio di luce, di redenzione.
Per ultimo voglio citare un film del 1966 della regista ceca Vera Chytilová, “Daisies”, di cui ho già parlato in separata sede. Le “daisies” sono due enfants terribles di nome Marie (si chiamano entrambe così, come la madre di Cristo) che si
dedicano alla malvagità per assecondare la tendenza che vedono nel mondo. E così sfruttano gli uomini, sfasciano oggetti,
ma soprattutto mangiano e bevono in una scena di culto, da annali del cinema: le pietanze hanno la forma dei genitali
maschili. Invidia del pene o desiderio di castrazione del “maschio patriarcale”? Ironia spinta (la donna rappresentata nel
peggior modo possibile, l’uomo succube) o sincera filippica contro il consumismo? La surrealità del film rende alquanto
complicato dare una risposta univoca a questa domanda.
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