lunedì 6 maggio 2024

La Grande Abbuffata: sugli aspetti psicologici e relazionali (Pt.1)

Avrete senz’altro sentito parlare di fame d’amore. È un disturbo noto in psicologia e, a quanto pare, abbastanza diffuso, poiché è all’origine di una serie di disordini e dipendenze alimentari. Trasformare il proprio corpo attraverso l’assunzione del cibo può essere una maniera inconscia per sottrarsi allo sguardo altrui (dimagrire per svanire, letteralmente) o per richiamare l’attenzione su di sé (ingrassare per affermare la propria esistenza). Abusare di cibo spazzatura o alcol può allo stesso modo divenire un surrogato di relazioni autentiche che nella propria vita sono carenti. Il grado di felicità e soddisfazione personale e il senso di appagamento nelle proprie relazioni familiari, amorose e sociali determinano spesso la capacità di ognuno di avere un atteggiamento sano ed equilibrato a tavola. Il cinema non poteva certo sottrarsi al richiamo di un tema così sentito e attuale, benché troppo complesso per necessitare di semplificazioni: e le opere che riescono ad affrontarlo in modo non banale, per fortuna, non sono poche. 
Per esempio, il rapporto psicologico con il cibo è il tema di “301, 302”, film coreano diretto da Cheol-su Park nel 1995. Una morbosa prova di forza contrappone la scrittrice anoressica Yoon-hee e la vicina di casa Song-hee, con la prima che non riesce a mangiare e la seconda che vorrebbe imporle il cibo da lei cucinato assieme alla propria amicizia, a costo di costringerla fisicamente; solo dopo che entrambe si saranno messe a nudo, raccontando l’una all’altra la propria storia, questo rapporto evolverà e un gesto tragico ma ineluttabile farà sì che le esigenze dell’una trovino soddisfazione in quelle dell’altra, ma ne parleremo più nel dettaglio in un articolo dedicato, a costo di fare spoiler. 
Questo tema è affrontato anche nel lungometraggio italiano “Primo amore” (2004), ma nel senso opposto: laddove in “301, 302” si tenta di somministrare il cibo a forza, nel film di Matteo Garrone lo si nega intenzionalmente, mostrandoci i meandri più reconditi di due psiche disturbate. Non solo la vittima è malata: se il cibo è prima di tutto un legame con il passato e la storia personale di ognuno, negare il cibo di proposito, a se stessi o ad altri, deve avere un significato profondo. Nel caso in questione, si tratta prima di tutto di un tentativo di esercitare una forma totale e devastante di controllo. Tutte le relazioni umane, perfino quelle apparentemente più sane, sono in fondo basate su uno scontro di volontà che si misurano e ora si affermano, ora soccombono. Genitori e figli, mariti e mogli, fratelli e sorelle, amici, conoscenti, colleghi di lavoro: tutti navighiamo in un perenne ignoto nel quale, con la vicinanza e la distanza dagli altri, cerchiamo di affermarci, delineando noi stessi. 

Nessuno ha mai saputo dare una definizione di controllo migliore di questa: "Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato". Certo, quella di George Orwell è la descrizione di una realtà distopica in cui il controllo avviene a livello sociale e globale, ma tolta dal contesto originale penso si presti bene anche a descrivere nelle sue linee generali un rapporto personale manipolato da una parte a sfavore di un’altra, ma soprattutto in favore di se stessa. Credo che ognuno di noi, ad esempio, conosca coppie in cui il marito decide quali debbano essere l’abbigliamento o le frequentazioni della moglie (l’inverso è molto più infrequente, anche se le donne oggi sembrano ansiose di appropriarsi di tutte le peggiori abitudini maschili). 
Qui, in questo contesto, parliamo di cibo concesso o negato per esercitare il dominio su un’altra persona, ma nel caso del cibo giocano un ruolo ancora più centrale le emozioni, per tutte le implicazioni psicologiche che abbiamo già espresso in precedenza. Una sopraffazione come quella che ci apprestiamo a descrivere non è evidente a chi la sta subendo, ma è lampante per chi osservi questa dinamica dall’esterno, neppure quando è patologica come in “Primo amore”, film tremendo e angosciante ma neppur lontanamente quanto la storia vera da cui trasse ispirazione: quella di Marco Mariolini, antiquario di Brescia e “anoressofilo”, come lui stesso si definisce nel suo libro autobiografico del 1997 “Il cacciatore di anoressiche”. 

Nel libro, Mariolini si definisce “un potenziale serial killer” e racconta della sua ossessione per le donne scheletriche, le uniche per cui sia mai riuscito a provare del desiderio sessuale, e di come abbia costretto tutte le donne della sua vita a dimagrire drasticamente tramite diete estreme che sfociavano in digiuni prolungati (a partire da Lucia, sua moglie, che dopo aver ossessionato per anni perché raggiungesse il peso ideale (per lui) di 33 chili, aveva lasciato per dedicarsi alla ricerca di nuove prede). 
La sua ultima compagna all’epoca è Monica, ribattezzata per l’occasione Barbara. Monica viene affamata e spesso colpita con pugni allo stomaco, di modo che vomiti il poco cibo ingerito, ma un giorno, dopo l’ennesima prevaricazione, lo aggredisce mandandolo in ospedale, poi si autodenuncia alla polizia e finisce agli arresti domiciliari. Allontanatasi da Marco, la donna ha però modo di riflettere e infine sporge a sua volta querela contro di lui per maltrattamenti. Così si conclude il libro, ma alla sua presentazione sono in molti a non prendere sul serio quanto narrato da Mariolini, pensando che alla base ci sia una strategia di marketing per generare interesse nel libro. Qualche volta, invece, la realtà supera la fantasia. Un anno dopo Monica rifiuta per l’ennesima volta di tornare con Marco e questo le è fatale: Marco la colpisce con 22 coltellate e la uccide. Neppure dopo l’omicidio sarà mai dichiarato infermo di mente: gli daranno 30 anni di galera. 

Nella finzione cinematografica Mario si chiama Vittorio e Monica diventa Sonia, ma la storia procede parallela alla realtà nel mostrare la manipolazione, gli abusi, la degradazione, gli insulti e le umiliazioni continue, in altre parole la schiavitù subita dalla donna, fino al finale che Garrone riscrive per donare una nuova possibilità a Sonia. La principale differenza sta nel fatto che mentre la povera Monica era solo la vittima di una relazione disfunzionale, il suo alter ego filmico è una vera anoressica, una persona alla perenne ricerca di un’amore che si sente inadeguata a ricevere, sentendosi costantemente “soppesata”, senza valore, mentre Vittorio è descritto come una persona mentalmente disturbata, in cura con scarso successo presso un centro di salute mentale, dove si cerca di tenere a bada il suo disturbo con delle pillole. Vittorio, che mira all’essenziale, spogliando persino i gioielli che crea di qualunque orpello, rendendoli invendibili, Vittorio che si appropria delle cose e delle persone togliendo, sottraendo, tenta di succhiar loro via la bellezza e la vita. Forse così facendo riafferma se stesso, sublima in desiderio di dominio la carenza di autostima, come Sonia, e come già Marco nella realtà, ma non è dato saperlo. Trovare una radice psicologica a questo orrore, anche se solo nella finzione, è in un certo qual modo rassicurante: ci dà l’illusione di essere al sicuro, una volta che il mostro è morto o dietro le sbarre, come se il germe di un mostro non si potesse nascondere anche nelle persone più insospettabili. 

4 commenti:

  1. Già solo l'esposizione sintetica delle trame è estremamente disturbing, non credo che riuscirei a vedere questi due film.

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    1. Mi sono messo a guardare il film di Garrone senza sapere esattamente cosa stessi per guardare. Il titolo non mi suggeriva niente e la trama, beh, ero troppo pigro per leggerla. Invece mi sono trovato di fronte a qualcosa di sorprendente. Disturbante? Lo è la realtà.

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  2. Ricordo che quando uscii dalla sala ero fortemente disturbato, come se lo stomaco mi si fosse rappreso. Ma con una curiosità incredibile per Vitaliano Trevisan che interpretava l'orafo protagonista del film. Negli anni successivi ho letto tutti i suoi libri, per me davvero notevoli.

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    1. Non ho mai letto nulla di suo ma è una lacuna che di sicuro mi piacerebbe colmare.

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