Come “301, 302”, anche “La vegetariana” (Lim Woo-Seong, 2009), tratto dall'omonimo libro di Han
Kang, narra di una donna che rifiuta il cibo e (sarà un caso) anche questo film arriva dalla Corea. Ne
avevo già parlato in passato,
anticipando per forza di cose anche gran parte della trama, ma soltanto la lettura del romanzo avvenuta a posteriori mi ha
permesso una visuale completa della storia così come la sua autrice l’aveva concepita in origine.
La vita
di Yeong-Hye, stravolta da un sogno, è l’odissea di una persona il cui rifiuto del cibo simboleggia quello
delle costrizioni sociali, della famiglia e infine di se stessa in quanto essere umano, fatto di carne e
sangue, così lontana dalla purezza placida e indifferente del mondo vegetale: Yeong-Hye finirà per essere
rifiutata a sua volta, riuscendo a mantenere un flebile legame umano solo col cognato, un legame che però
è al limite dell’abuso. Anche in questo caso non può esserci un lieto fine, non come noi ce l’immaginiamo
(“e vissero felici e contenti...”).
Nel 2017, a chiusura del mio post, scrissi infatti: “Ancora una volta
un’opera proveniente dall’Oriente si occupa del corpo; un corpo che è espressione della mente e
dell’anima, e nel quale il male di vivere diviene un grumo che per sciogliersi richiede l’annientamento
della carne stessa. Yeong-hye intraprende un cammino non dissimile da quello degli asceti che, soffrendo
e immolandosi, entrano in comunione con la divinità, una divinità immanente che è stata assorbita dalla
natura; forse per rendersi immune dalla sofferenza stessa, oppure come forma di ribellione, in una
maniera chiara e radicale di riappropriarsi del proprio corpo, perché corpo e anima sono un tutt’uno.
D’altra parte, come la storia di Gesù c’insegna, è il sacrificio (sàcer fàcere) che rende sacri.”
Il titolo “La vegetariana” è in realtà fuorviante, perché il disturbo di Yeong-Hye non ha nulla a che fare
con il vegetarianismo e neppure con il veganismo. Pensavo addirittura che potesse essere una forzatura
dell’editore o della traduzione italiana, tanto più che si suppone che la protagonista sia schizofrenica, ma a
quanto pare “채식주의자”, o “Chaesikjuuija” (così il libro si intitola in originale) è proprio il termine
coreano per “vegetariana”. Intitolare in questo modo un racconto tanto estremo è un po’ come buttare
benzina sul fuoco, dato che vegetariani e vegani in genere non godono di una buona fama. Non ho idea se
questo stigma sia diffuso anche in Corea (leggendo questa storia, parrebbe di sì), ma se lo è, la cosa ha
forse a che fare con il sottrarsi alle convenzioni sociali in una realtà in cui l’omologazione è un elemento
essenziale della vita comunitaria, e non tanto con la magrezza di per sé (credo anzi che per i coreani, e gli
orientali in genere, essere molto magri sia la norma).
L’Obsidian che nel 2012 affrontò la visione del film di Lim Woo-Seong non è lo stesso che cinque anni
dopo avrebbe scritto del libro di Han Kang. In quei cinque anni la mia compagna (che oggi è mia moglie)
divenne prima vegetariana e poi vegana. Nel suo caso non si trattò di un evento improvviso, come nel
caso di Yeong-Hye, ma della conseguenza di una crisi d’identità maturata nel corso di molti anni. Se ve lo
state chiedendo, io sono sempre onnivoro, anche se lo manifesto perlopiù fuori casa, ma ho imparato a
vedere la questione dal centro, con equilibrio, o così mi auguro.
Il rifiuto della carne è una questione prettamente etica e filosofica, mentre in ambito religioso sembra più
che altro la conseguenza della credenza nella trasmigrazione delle anime (come nel caso degli Orfici). I
primi vegetariani in Occidente furono mistici e filosofi, come Pitagora, Plutarco, Porfirio o, molto più
tardi, i teosofici (sebbene i filosofi greci avessero posizioni divergenti in merito: se Pitagora è vegetariano
anche perché crede nella metempsicosi, Aristotele per esempio non lo è perché crede nella catena
alimentare con l’uomo al vertice). È bizzarro che sia stata più spesso la filosofia a porsi la domanda se gli
animali abbiano o meno un’anima e a darsi una risposta affermativa, ma così è.
Dovremo attendere il ‘500
circa perché si cominci a correlare la salute umana alle abitudini alimentari e i medici comincino a
consigliare la dieta vegetariana, ma la tendenza si invertirà con l’industrializzazione e il conseguente
spopolamento delle campagne, con la gente che si trasferiva in massa nelle città per essere più vicina al
posto di lavoro in fabbrica e non mangiava più cibo autoprodotto.
Forse per distaccarsi da quelle che considerava eresie (persino il pensiero filosofico sembra una nemesi di
quello religioso), la Chiesa cattolica ha sempre considerato il vegetarianismo stesso il segnale di un
distacco dall’ortodossia religiosa da combattere a tutti i costi, in quanto rappresenta una sfida alla
gerarchia divina che vede l’uomo al vertice del creato.
I Catari furono combattuti e sterminati come
eretici, mentre alcune delle confessioni ebraiche più antiche, che si dice siano state anch’esse accomunate
dal non consumare carne (Esseni, Ebioniti, Manichei ecc.), sono scarsamente ricordate; ma i primi
cristiani non si rifiutavano solo di mangiar carne, rifiutavano l’intero sistema dei sacrifici animali che
avvenivano nel tempio, sull’assunto che lo stesso Gesù si era opposto al commercio degli animali
sacrificali, sfidando quindi apertamente i sacerdoti.
Sappiamo che secondo la Bibbia l’uomo fu dapprima
vegetariano (Genesi 1, 29: “Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di tutta la
terra, e ogni albero fruttifero che fa seme; questo vi servirà di nutrimento.”), ma dopo il diluvio
universale Dio gli concesse di mangiar carne (Genesi 9, 3: “Tutto ciò che si muove e ha vita vi servirà da
cibo; io vi do tutto questo, come l'erba verde.”); ma per il cristiano il Nuovo Testamento ha la precedenza
sull’Antico Testamento; e i vangeli narrano che Gesù provocò un tumulto allorché entrò nel tempio di
Gerusalemme e buttò all’aria i tavoli dei mercanti; in questa panoramica ermeneutica, la purificazione del
tempio viene vista come il primo atto di liberazione degli animali mai documentato, illegale tanto quanto
oggi lo sono i raid degli attivisti antispecisti negli allevamenti o nei biolaboratori, con l’unica differenza
che Gesù fece tutto alla luce del sole, mentre oggi gli animalisti (forse memori della brutta fine del
Redentore) sono soliti agire di notte e col volto coperto.
In Oriente, dove più si è diffusa la fede nella reincarnazione, i tabù legati alla carne sono più radicati,
soprattutto nel Buddhismo (*) e nel Jainismo (anche se il più grande punto di riferimento storico è stato il
laico Gandhi, pacifista e vegetariano), eppure, a fare da contrappunto, vi sono comunque paesi in cui
alcune tradizioni culinarie animali sono particolarmente cruente. Tra l’altro proprio in Asia, a 90
chilometri da Wuhan, in Cina, è stato costruito l'allevamento più alto al mondo, due palazzi di 26 piani
dove saranno macellati fino a un milione e duecentomila maiali ogni anno. Numeri impressionanti che ci
danno la misura di quanto rappresenti il business della carne oggi. Ci sono poi delle religioni in cui solo alcuni tipi di animali sono vietati, perché considerati impuri o
demoniaci, ma questa è un’altra storia che nulla ha a che vedere con l’etica e il benessere animale.
Anche se l’argomento meriterebbe più spazio, questa piccola cronistoria finisce qui. Devo però dire
ancora qualcosa prima di considerare chiusa la questione. Comprendo bene che l’atteggiamento di alcuni
vegetariani o vegani possa sembrare estremo e suscitare fastidio; tuttavia, ne conosco abbastanza da sapere
che tra di loro gli estremisti, qualunque cosa questo significhi, sono la minoranza. In fondo, mi fanno
anche tenerezza. Pensateci: nasciamo onnivori, perché questa è la tradizione, poi alcuni di noi vedono le
contraddizioni di un’umanità che si nutre di alcuni animali mentre ne eleva altri a compagni di vita, amati
e trattati come membri della famiglia, e il cortocircuito emotivo è devastante, e se non tutti riescono a
sopportarlo, forse il fare proselitismo è la loro maniera di espiare quanto fatto in quella prima fase della
vita in cui non avevano ancora raggiunto una certa consapevolezza.
Non vorrei fare psicologia spicciola,
ma persino mia moglie, che, come ho detto più volte, è vegana, mi ha confermato questa sensazione.
Denigrare tali sentimenti definendoli “menate”, “stronzate” o “malattie mentali” credo non faccia onore a
nessuno; chi irride le istanze animaliste non ha semplicemente la mia stessa scala di valori e non riesco e
non riuscirò mai a rapportarmici.
(*) Il divieto al consumo di ogni tipo di carne permane oggi presso i buddhisti cinesi e tibetani, mentre tra
quelli giapponesi è ammesso purché sia moderato.
Io onestamente non mi pongo il problema, il giorno del giudizio mi assumerò tutte le mie colpe per aver contribuito all'allevamento intensivo e alla macellazione degli animali.
RispondiEliminaTieni però presente che, secondo il famoso principio di «causa-effetto», in una prossima vita potresti rinascere pollo di allevamento....
EliminaDal tuo post mi sembra di poter confermare che effettivamente hai un punto di vista molto equilibrato sulla questione (lo dico da vegano, e da vegetariano di lunga data). Mi è piaciuta molto anche la tua digressione storica! Pare che pure Leonardo Da Vinci fosse vegetariano, che oltre che filosofo era... Tutto! :--)
RispondiEliminaTi ringrazio. Ho pensato a lungo a come esprimere il mio pensiero senza offendere una parte o l'altra, e se mi dici che ci sono riuscito, ne sono molto felice. In fondo, anche se le istanze animaliste suscitano le mie simpatie, io sono ancora onnivoro, di conseguenza non posso proprio fare la morale a nessuno.
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